Gli ÜT sono un quartetto (precedentemente un trio) originario di Genova composto attualmente da: Stefano Galliera (Üto, alla chitarra), Enrico Eucalito (Enri, alla batteria), Luca Mascaro (Masca, alla voce), Andrea Alvigini (Indo, al basso). Il gruppo a partire dagli esordi ha pubblicato tre album: Noise Deadening Barrier (2015), δ γ ε β (2017) e Il Pozzo e la Piramide (2022). In quest’ultimo, un’autoproduzione, si da sfogo a strutture sonore energiche e complesse, in cui confluiscono conoscenze organiche di filosofia e un linguaggio frammentario ma aulico, per certi versi ieratico. Inoltre, con il supporto dell’etichetta genovese Taxi Driver Records, gli ÜT partecipano ad un periodo prospero per la scena ligure, insieme a Yalda (dalle sonorità esotiche e sintetiche, che a Luglio 2022 hanno fatto uscire, per la stessa etichetta, Tavallodi Digar, eclettico e dal suono più articolato rispetto il disco live Badam Zamani (2021)) e The Fufaz Quartet (tema già trattato con l’intervista a Fulvio Giglio per Nikilzine), in cui in tutti e tre i casi si intravedono, in un modo o nell’altro, i retaggi di uno dei capisaldi della scena storica locale: i Cardosanto.
Di seguito i dovuti approfondimenti su Il Pozzo e la Piramide con l’intervista collettiva agli ÜT.
Gli inizi di ÜT appaiano meno regolari e più dissonanti, tra Shellac e Sonic Youth. Nel primo album, Noise Deadening Barrier, si sperimenta in più direzioni, tra regolarità e irregolarità, mentre in δ γ ε β sono più frequenti pattern melodici e ritmici più caotici e magmatici; By This River (presente in δ γ ε β, e originariamente di Brian Eno, Hans-Joachim Rodelius e Dieter Moebius, e presente nell’album Before and After the Science di Eno) viene trasfigurata in senso punk con elementi sperimentali diversi, in senso eterodosso, nel vostro stile graffiante e asimmetrico. Tradizione sperimentale e presente si rincorrono in un’unica istanza, offrendo qualcosa di diverso dal già esistente, in cui i territori sonori nel successivo Il Pozzo e la Piramide saranno comunque in pieno stile noise, ma dai contorni più netti e periodici. Parlateci meglio dei vostri punti di riferimento e come avviene questo cambio di stile più contornato nell’ultimo lavoro.
“I tre dischi che abbiamo sinora creato, Noise Deadening Barrier, δ γ ε β e Il Pozzo e la Piramide, hanno senza dubbio qualcosa in comune e quel qualcosa crediamo possa definirsi il “quid” del progetto ÜT. Ora, cosa sia propriamente siffatto “quid” non è però così facile da definire: è “quella cosa lì”, si percepisce chiaramente anche se non si è totalmente in grado di descriverla. Forse sarebbe più corretto chiamarla “nescio quid”: è un je ne sais quoi, un certo non so che a definire il nostro tratto caratteristico, la nostra “ÜTttitudine”. Come hai però giustamente rilevato, questo trait d’union è più una forma generale che un elemento concreto, una struttura cangiante e semovente, che nel corso del tempo, complici i varai cambi di formazione, ha assunto contenuti e specificità affatto differenti: nel primo disco eravamo un power-trio e abbiamo puntato tutto sull’impatto e, per citare la prima delle nostre influenze, per altro da te molto puntualmente individuate, nomineremmo gli Shellac e più in generale l’opera di Steve Albini come riferimento essenziale. Ai tempi di δ γ ε β si aggiunse un altro chitarrista, Massi, che con la sua mente obliqua ed angolare aveva portato con sé, all’interno di ÜT, la voglia di sperimentare con i suoni e con le accordature; in questa seconda fase possiamo senza dubbio asserire che sono l’altro gruppo da te individuato, i Sonic Youth, a farla da padrone. Successivamente, nel giro di un anno e mezzo, abbiamo perso, nell’ordine, seconda chitarra e bassista/cantante (Ric), ai quali sono subentrati due giovani talentuosi, Masca e Indo, rispettivamente alla voce e al basso. Come accaduto in precedenza, a cambio di formazione è corrisposto uno slittamento, una traslazione della nostra ÜTttitudine in qualcosa di simile ma differente rispetto al passato. Questa “fase tre” del progetto ha vissuto un periodo particolarmente travagliato e questo si riflette molto bene nei pezzi che ne sono scaturiti, i quali sono evidentemente figli di un lungo e delicato momento di transizione: degli otto pezzi che sono entrati a far parte della tracklist definitiva, possiamo dire che la metà erano già ampiamente imbastiti nel periodo che intercorre tra l’uscita di Massi e quella di Ric, tra le quali passa più di un anno di tempo, arco temporale nel corso del quale il nuovo cantante, Masca, si era già inserito e stava già lavorando con noi, portando con sé la novità dei testi in italiano e una rinnovata potenza ed espressività nei registri vocali. Questi quattro pezzi sono: Ricetta per l’odio, Papalagi/ÜTopia, Zeuda e Maya. In essi è possibile rintracciare una struttura e un motivo comune, una sorta di “somiglianza di famiglia”, per così dire, un’affinità di intenti a livello compositivo. I restanti quattro brani, Fuga, Missione Uno, Empiriocriticismo e Calabrone, sono stati creati quando Indo era già nel gruppo. Senza dubbio qui si sente qualcosa di diverso rispetto ai quattro brani sopracitati: la nostra peculiare ÜTttitudine si carica di una certa punta di emotività, un’espressività totalmente nuova per noi, che colora i brani di una forma di solennità e magniloquenza, assolutamente sui generis.”
Per quanto riguarda la tradizione più eterodossa, un altro progetto foneticamente a nome “Ut” sono le no wavers di SoHo (New York) formate da Nina Canal (collaboratrice e moglie di Rhys Chatham), Jacqui Ham, Karen Achenbach e Sally Young, apprezzate soprattutto in Europa ed elogiate da The Fall; inoltre Ut è anche un pezzo di Ennio Morricone (dedicata al trombettista e collaboratore dello stesso Morricone Mauro Maur), in cui, come di consuetudine del compositore romano, parti di orchestra e linea principale, in questo caso la tromba, seguono linee disarmoniche l’una rispetto all’altra, e in cui quelle parti considerate singolarmente presentano inaspettate dissonanze distribuite in maniera rarefatta. Vi chiedo da dove proviene il nome “ÜT” è se è legato ad un elemento del passato.
“La scala musicale occidentale, così come la conosciamo e studiamo oggi, nacque nel corso del Medioevo per opera di Guido d’Arezzo, che per dare un nome ai gradi che la compongono decise di usare le sillabe iniziali dei versi di un inno a S. Giovanni: UT queant laxis / REsonare fibris / MIra gestorum / FAmuli tuorum / SOLve polluti / LAbii reautm / Sancte Johannes. UT è quindi il nome con cui inizialmente si chiamava il Do. Ci sembrava il nome perfetto per noi non solo e unicamente perché rappresenta un diretto rimando al mondo dei suoni, dominio del quale ci sentiamo ovviamente parte integrante, ma anche perché UT ricorda un po’ un verso primitivo, gutturale, un’espressione di primordiale animalità. Hai presente la scena iniziale del kubrickiano 2001: A Space Odissey? Ecco, UT è il verso che ci immaginiamo urlato a squarciagola da quelle scimmie ancestrali che siamo noi. UT è l’Es che si annida nel nostro inconscio, che lavora costantemente e che ci ricorda che non siamo solo e unicamente ragione, ma soprattutto istinto o, per dirla con Deleuze e Guattari, “macchine desideranti”. L’aggiunta della dieresi sulla U è un tocco di tamarraggine che non guasta mai e che riconduce idealmente e soprattutto esteticamente a due gruppi che amiamo particolarmente: Hüsker Dü e Motörhead.”
Parlateci de Il Pozzo e la Piramide e della sua genesi nei tempi di restrizioni della pandemia.
“Della genesi dei brani ti abbiamo già parlato in risposta alla prima domanda: è stato un processo molto lungo, avvenuto in un momento di transizione del gruppo, ma che si è concluso prima della pandemia: a inizio 2020, infatti, i pezzi erano praticamente già finiti e pronti per essere registrati. Ciò che le restrizioni anti Coronavirus hanno effettivamente rallentato e reso travagliato e complesso è stato proprio il lavoro in studio di registrazione che, tra una zona rossa e una arancione, tra divieti e complicazioni varie, si è protratto ben oltre il previsto, dilatandosi oltremodo e rendendo il tutto piuttosto dispersivo e frammentato. Una situazione del genere ha seriamente rischiato di metterci in ginocchio: siamo stati a un passo dal perderci per strada, mettendo a repentaglio la conclusione stessa del disco. Fortunatamente abbiamo avuto l’apporto professionale, umano e artistico fondamentale di Bernardo Russo, nostro tecnico del suono di fiducia, che è riuscito nella difficilissima impresa di tenerci sempre sul pezzo, aiutandoci a mantenere intatta la coesione interna. Il risultato finale è, a nostro parere, l’album dal miglior suono che abbiamo mai fatto, non potremmo esserne più soddisfatti. Grazie infinite Berna!
Papalagi/ÜTopia ha una melodia vorticosa, oscillante nel suo percorso, come un pendolo che scandisce il tempo. Le parole delineano un distacco in modo ieratico, attraversato da immagini centrifughe. Le linee sonore sono più oblique e il parlato è inesorabile, un trend costante nell’album. Come nascono questi elementi in voi e in che modo si combinano?
A livello di struttura musicale, questo brano è ispirato a grandi linee alla opening track di Vol.4 dei Black Sabbath: Wheels of confusion/The Straightener. Quel pezzo sono in realtà due pezzi legati assieme: prima c’è uno, poi l’altro, senza ritorni o inversioni di sorta. Il risultato è dunque una sequenza di due tronconi senza soluzione di continuità: Papalagi, in tonalità di Mi, e ÜTopia, in La. Due atmosfere differenti, entrambe vorticose, certo, ma si tratta di due tipi di vorticosità ben distinti: la prima più quadrata, marmorea, di fredda pietra nera, la seconda più fluida, scorrevole, di una liquidità quasi intangibile. Anche sul piano lirico le due parti rappresentano due momenti differenti, per quanto relati: il testo di Papalagi è ispirato all’omonimo scritto di Tuavii di Tiavea, capo delle isole Samoa, che descrive l’uomo bianco, occidentale, dal punto di vista di una cultura totalmente aliena; quello di ÜTopia è invece tratto dalla Città del Sole di Tommaso Campanella, una sorta di Repubblica platonica in salsa rinascimentale. Il tema è ovviamente lo stesso, ma visto da due prospettive differenti: descrittivo VS prescrittivo, reale VS ideale. È un gioco di contrapposizioni che rimanda alla struttura musicale stessa. Per quel che riguarda invece la voce, quel senso di inesorabilità, che hai giustamente definito un elemento comune a tutto il disco, è senza dubbio una delle caratteristiche peculiari dello stile di Masca: potenza, cattiveria, rabbia si mescolano in lui ad ambiguità semantica e gestuale, unitamente a una buona dose di alienazione e paranoia.”
In Zeuda il suono è più netto, come se fosse strutturato a poligonali, e con un certo aggrovigliamento nel ritmo, con linee che mettono in rilievo particolari in aggiunta alla struttura portante. Un elemento del vostro suono è un certo modo di manipolare la geometria del suono attraverso il ritmo. Che valore date al ritmo e qual è il suo ruolo in questo lavoro?
“La componente ritmica è sempre stata molto importante per noi a livello compositivo, credo che ciò sia dovuto in gran parte a certe influenze: i già citati Shellac, i Jesus Lizard, ma anche gruppi non immediatamente riconducibili alle nostre sonorità come per esempio gli Area, che non hanno certo bisogno di presentazioni e i conterranei Cardosanto, geniacci (purtroppo) di nicchia attivi tra fine anni Novanta e primi Duemila, che ci hanno letteralmente stuprato il cervello con le loro strutture complesse. Spesso sfruttiamo un’idea ritmica per costruirci attorno un pezzo. Qui siamo in presenza di un ritmo assolutamente regolare, in quattro, ma con la peculiarità di essere atetico: vi è una pausa all’inizio di ogni battuta. È proprio questa pausa a dare quel piglio nervoso e accattivante, che accompagna il brano fino alla fine.”
Missione Uno cela nella propria omogeneità ricorrente associata ad una certa caoticità, placandosi a tratti, mentre in Empiriocriticismo torna un vortice mefistofelico, tra linee disomogenee veloci e pesanti. Elementi differenti fanno parte della vostro corpus sonoro, anche se noise rock e post-rock sono elementi costanti, combinati con intuizioni più originali in forma eclettica. Detto da voi, come classificate le vostre sonorità?
“Missione Uno è senza dubbio il brano più lungo e complesso del disco: si tratta di uno dei pezzi composti quando Indo è subentrato a Ric, portando con sé un differente approccio alla materia compositiva. Con il suo arrivo abbiamo smesso di aver paura delle melodie orecchiabili. Missione Uno rappresenta la massima espressione di questo nuovo atteggiamento. La parte finale, poi, incarna alla perfezione quel senso di epica magniloquenza, di intensa carica emotiva di cui si parlava in precedenza, e che costituisce la cifra distintiva di questa nuova fase del gruppo. Empiriocriticismo è invece un brano molto corto, il più corto del disco e forse il più corto che abbiamo mai fatto. Il senso di vertigine che si prova ascoltandolo è dovuto all’alternarsi di parti in 6/8 e in 7/8. La regolarità del primo viene infatti spezzata da quell’ottavo in più presente nel secondo. Se è vero, come diceva Leibniz, che la musica è un esercizio di aritmetica occulta in cui l’anima non s’avvede di contare, allora quest’eccedenza, questo scarto è inevitabilmente destinato a provocare nell’ascoltatore un vero e proprio cortocircuito mentale, conseguenza della fatica che il nostro cervello è costretta a sopportare nel corso dell’ascolto. Da qui l’esigenza della brevità: un brano del genere non può essere troppo lungo, diverrebbe una tortura intollerabile. Parlando più in generale delle nostre sonorità, i termini noise, post e rock da te utilizzati possono senza dubbio rientrare in una vaga descrizione; a essi potrebbero aggiungersi punk, DIY, hardcore. Chiaro che nessuno di essi collima perfettamente con ciò che arriva all’ascolto, il risultato finale è ben più complesso di così e non è ascrivibile a nessun genere specifico.”
Fuga è un pezzo più lento, agrodolce ed introspettivo, anche per via del breve testo, che comunica per immagini evocate. Si potrebbe dire che il pezzo si classifica come un outlier nel vostro lavoro. Raccontateci del suo processo creativo e come nasce la sua collocazione in Il Pozzo e la Piramide.
“Fuga è il brano più importante di questo nuovo disco. Non solo perché è il primo che abbiamo composto con la nuova formazione al completo, ma soprattutto perché rappresenta il nostro tentativo di uscire totalmente fuori dai nostri elementi di riferimento: inizialmente prevedeva al suo interno una parte distorta, cattiva e veloce, che ci avrebbe in qualche maniera riportato sui nostri binari usuali, ma poi abbiamo deciso di espungerla e di propendere per un approccio totalmente differente. Se nell’economia generale de Il Pozzo e la Piramide può essere considerato una sorta di elemento estraneo e sui generis, ha però costituito il punto di partenza per un nuovo modo di intendere la materia compositiva e sonora: i nuovi pezzi che stiamo attualmente creando, infatti, devono moltissimo a Fuga. Il nostro prossimo disco riserverà un gran numero di sorprese a livello musicale, su questo non ci sono dubbi. La nuova direzione che stiamo intraprendendo ci sta spingendo verso territori inusitati.”
Attraverso cambi di tempo e un’esacerbante energia si conclude Il Pozzo e la Piramide, con Calabrone, che inaspettatamente cela anche delle note di xilofono verso la fine, come se quella potenza strabordasse verso qualcos’altro. Infatti, anche il precedente pezzo, Ricetta per l’Odio, poteva rappresentare una conclusione, ma meno incisiva della traccia successiva, la quale risulta essere anche più variabile per via dell’associata energia. Come nascono questo finale strutturato a scatole cinesi e i loro dettagli?
“Tra Ricetta per L’Odio e Calabrone intercorre una dialettica del tutto peculiare: l’uno è il primo pezzo, in ordine temporale, che abbiamo creato per questo nuovo disco, l’altro è in assoluto l’ultimo, quello su cui abbiamo lavorato fino all’ultimo minuto, continuando ad apportarvi modifiche su modifiche. La logica li avrebbe voluti rispettivamente all’inizio e alla fine, a incarnare l’alpha e l’omega del sistema. Tuttavia, alla fine ha prevalso un altro approccio che, come hai molto acutamente notato, restituisce questo senso di straniamento e di alienazione: due finali, l’uno incastrato nell’altro. Ricetta dà l’impressione di un “cattivo infinito”, come direbbe Hegel, un assoluto che non riesce totalmente ad autocomprendersi in quanto irrimediabilmente contradittorio, contraddizione rilevabile a pieno nella struttura ritmica del giro che apre e chiude il brano stesso, che va volontariamente fuori tempo. Un finale così sarebbe stato un finale imperfetto, che avrebbe lasciato l’amaro in bocca proprio in forza di quell’ineliminabile, strutturale autocontraddizione, che lo annichilisce, lo nientifica. Ad esso segue un infinito dalla ben rotonda e inconcussa verità, in senso parmenideo. Calabrone è esattamente questo: il canto dell’essere che si autoafferma in quanto tale, privo di qualsiasi impurità o negatività interna.
“Direi che è tutto. Desideriamo chiudere questa piacevole chiacchierata anzitutto ringraziandoti per le bellissime domande e poi per ricordare a tutti gli interessati o ai semplici curiosi che l’intero catalogo ÜT è disponibile sulla nostra pagina https://utnoise.bandcamp.com/ dalla quale è possibile ascoltare gratuitamente in streaming e acquistare tanto in formato digitale quanto in quello fisico, oppure sul sito della nostra etichetta, capitanata dal grandissimo Maso (che salutiamo e ringraziamo per tutto quello che fa per noi): https://taxidriverstore.bandcamp.com/ dove si può trovare e scoprire, oltre a noi, moltissima musica valida. A presto!”
Per acquistare una copia de Il Pozzo e la Piramide contattare il gruppo scrivendo alla loro email: utnoise@gmail.com. Presto anche in formato CD (per Taxi Driver Records) e in streaming.
Il 29 Luglio 2022 è uscito il CD de Il Pozzo e la Piramide per Taxi Driver Records; di seguito la versione dell’album in streaming.