Scomu, sperimentazione come scarti di potatura; intervista a Luca Marcia
di Giovanni Panetta
Intervista a Luca Marcia (Malignis Cauponibus) con track-by-track del suo lavoro Scomu (Plus Timbre).
Scomu

Cover di Scomu (2022). Artwork di Plus Timbre.

Luca Marcia (già in Malignis Cauponibus) pubblica il suo primo album solista Scomu, dalle sfumature onirice e rumoriste, per la Plus Timbre il 9 Aprile 2022. Il suono dell’album, che elabora il richiamo della propria terra, ovvero l’antica e bucolica Sardegna, si discosta dal progetto precedente per nascita di Luca, contrassegnato dal blues dei Malignis Cauponibus, per astrazione e varietà di suoni. Infatti Scomu vuole essere un modo di traslare il linguaggio locale (infatti sono caratteristiche le voci in sardo) e naturale in uno rielaborato attraverso le tecnologie moderne in piena Era dell’Informazione (ovvero, non a caso, diversi campioni sonori e linee di chitarra e synth rumoriste vergono distorti, riverberati, combinati tra loro, etc, per generare un nuovo oggetto dell’arte, similmente a come nasce una rinnovata sapienza). Il linguaggio in bilico tra suono analogico e digitale esprime quanto detto, e mette il luce una voglia di creare in evoluzione attraverso la propria palette che fa spesso uso di un gioco di dualismi compositivi.

Approfondiamo l’argomento con la seguente intervista a Luca, insieme ad un track-by-track di Scomu.

Cominciamo dal principio; come nasce il concept di Scomu, e la sua idea astratta e sperimentale? In che modo i suoi suoni sono connessi con la tua terra natale? Infine come nasce e si sviluppa il suo format più strumentale e non verbale rispetto i Malignis Cauponibus?

Come per i resti di potatura dei rami in campagna, ho messo insieme i miei scarti musicali prima di buttarli. Sentivo la necessità di reinterpretarli, di dare loro nuova vita, di raccontarli contestualizzandoli nel vissuto della prima quarantena del 2020. Le sensazioni che ho voluto raccontare di quel periodo sono forse quelle più comuni che la maggior parte di noi ha sperimentato. Il mondo ci ha spinto in situazioni che prima di allora erano inimmaginabili. Il vissuto quotidiano mi privava del confronto e della condivisione. Per me il peggior incubo. Il lavoro si regge su questo concetto: sonorizzare le emozioni date da un incubo, dal dormiveglia, dal sogno, da tutte quelle sensazioni che si provano nello stato di transizione tra quando si è svegli e quando si dorme. Perciò mi sono messo alla prova in un primo lavoro lo-fi in cui ho sperimentato più linguaggi musicali, dall’improvvisazione radicale, al field recording a sonorità blues e garage-punk. Il disco si scosta dalla sperimentazione blues che seguo con la band dei Malignis Cauponibus, perché alla base c’è la necessità di esplorare nuovi mondi come solista. Un’ultima nota di curiosità, a ogni brano è stato associato un termine derivante dal ricco vocabolario della lingua sarda legato al lavoro della campagna, in questo caso per l’appunto all’attività della potatura.

Seguirà un track-by-track del tuo ultimo disco Scomu.

Nella prima traccia di Scomu, Tanaxi, la consistenza del suono esordisce rarefatta, accompagnata da aleatorietà analogica attraverso la chitarra, campioni, il suono di una voce che fischia o urla, e rumori della quotidianità distorti – provenienti da un brindisi a tavola. Nel seguito vi sono picchi di volume che si susseguono con una certa regolarità che si disperde logaritmicamente.

Dalla prima traccia Tanaxi ho voluto creare scenari poco prevedibili, nel tentativo di inserire più linguaggi musicali che potessero coesistere in una rincorsa tra improvvisazione ed elementi maggiormente strutturati: rumore vs canzone. Le urla e le distorsioni mi permettevano di trasmettere il senso di fastidio e di nervosismo tipici del periodo vissuto durante la quarantena, spesso affiancati ad un senso di angoscia che ho ricercato nell’aleatorietà analogica, ma anche nel suono più dolce della chitarra classica. Sebbene il “concept” di Scomu giochi su questi timbri molto diversi, ho allargato il campo anche utilizzando forme più melodiche, come la proposizione di un motivo tramite il fischio, quest’ultimo deriva dalla mia passione per il maestro Morricone. Tanaxi in sardo indica il picciolo della frutta che la lega ai rami, una maniera per indicare quanto il mio animo fosse impossibilitato ad esprimersi perché legato ad altro.

Cavunatzu risulta più costante e irregolare, allo stesso tempo, nel suo fluire glitchato e analogicamente metallico. Nel seguito compare una sovrapposizione di voci che parlano in dialetto (sardo), che apre la strada ad un assolo di chitarra in reverse e qualche picco di voce che rappresenta un punto di massimo di volume nel pezzo.

Mi sono posto il problema di raccontare con le parole giuste le sensazioni che si provano durante un incubo.   Ricorro spesso alla sensazione contrastante di freddo/caldo per spiegare un fastidio. Ho inseguito questo ossimoro, e mi son divertito perciò a deformare alcuni suoni provenienti da ambienti diversi: la piccola cabina di una nave vs la profondità di una grotta. Questa dicotomia è contestualizzata da una sintassi musicale apparentemente in antitesi: la seconda parte del brano infatti propone un solo di chitarra in reverse sopra la ritmica di un incalzante basso. E’ una struttura plastica che si insegue dopo un recitato di una delle poesie di Langston Hughes “che succede ad un sogno rinviato”, liberamente tradotta in sardo. “Cavunatzu” è la roncola, simbologia che ho voluto utilizzare pensando al desiderio di recidere ogni tentativo a rimanere legato a un incubo.

In Pilluatzu fa da sfondo un suono di interferenza discordante dal timbro quasi alieno, rendendo poi più evidente l’effettivo attrito sulle corde di una chitarra; si confluisce ad un certo punto in sonorità acustiche più ordinate, tra una chitarra dalle sonorità mediterranee e linee di basso dub, con il giusto sfondo astratto e inconscio in cui compaiono voci in delay.

“Non voglio dimenticare come si vive la notte”, sono queste le parole semi recitate in sardo che più mi hanno rappresentato pensando al periodo storico che abbiamo vissuto. Ho provato a creare delle interferenze tra il dormiveglia e il sonno, sfruttando la rumoristica creata da una chitarra elettrica con suoni abrasivi, in antitesi al suono più dolce delle corde in nylon della classica. Il brano matura verso una direzione più ordinata lasciando spazio a un sogno, in cui i tempi sono più dilatati e scanditi ritmicamente da un basso, per poi essere nuovamente disatteso con sonorità nuovamente sconnesse.

Luca Marcia

Luca Marcia live.

Sarroni, sempre poco familiare, è caratterizzata da un synth con un timbro di organo seguito da voci strumentali e umane che si aggrovigliano in maniera stocastica e con una certa regolarità strutturata a più istanze.

La mia adolescenza è stata segnata da diversi ascolti garage-punk. Alcune distorsioni, synth, feedback e più in generale timbri taglienti provengono da quel mondo. Mi piaceva l’idea di utilizzare questi suoni abrasivi, per descrivere “su sarroni” che in potatura viene utilizzato per recidere la continuità di un ramo giudicato poco produttivo o infetto (che è quindi necessario asportare). La voce è utilizzata come mero strumento comunicativo.

Pudoni ha una struttura aritmica più evidente, in cui viene evocato un suono complesso e non-euclideo in maniera spontanea. Elementi più distinti si accavallano in maniera fugale e lateralmente barocca, ed emerge in più punti il suono lisergico del synth, giocando con immagini surreali.

Pudoni non è altro che il prosieguo di Tanaxi. La scelta di dividere le due tracce nel disco nasce dal fatto che mi è capitato personalmente di riprendere un sogno interrotto direttamente dalla parte in cui l’avevo terminato. O almeno credo. J Pudoni (polloni in italiano) sono le parti legnose selvatiche che si sviluppano ai piedi dell’albero sotto forma di rami.

In Ogafrutu il livello di astrazione sale con più periodicità e nettezza allo stesso tempo. Vi è un accenno di climax nella seconda parte, in cui il tutto si attenua conferendo un finale.

La commistione dell’elettroacustico mi diverte parecchio, specie con l’utilizzo di una loop station per creare strati di suoni che si sovrappongono. La loro progressione viene alterata da ansimi e da un risveglio improvviso, che crea un ponte con l’ultimo quadro del brano. Vi è anche spazio per dei pensieri più positivi: per ogafrutu si intende la gemma della pianta che porterà frutto dopo la fioritura.

La conclusiva Carriadroxia di sviluppa in maniera più imponente e massiva; un basso e una batteria scorrono a diversa velocità, in cui una voce da spazio all’altra; nel seguito vi è un’alternanza di rumori di fondo, digitali e analogici, in forma disomogenea e plastica nella loro manipolazione, dando posto al suo termine alla componente acustica con un fondo quasi latente di elementi sintetici.

Chiude l’album l’unico brano concepito dopo la registrazione dell’intero lavoro. L’intento è stato quello di riassumere le sonorità del disco e il principio di sperimentazione su cui si è basato Scomu. Elementi sintetici e analogici si inseguono accompagnando la fine del disco. Questa operazione mi riporta alla scelta dei tralci a frutto (carriadroxia) che vanno gestiti durante la potatura in modo che l’uva possa svilupparsi al meglio.

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