
Foto promozionale con Filippo Panichi (a sinistra) e Vittorio Nistri (a destra).
Vittorio Nistri, già in progetti come Deadburger Factory e Ossi, e Filippo Panichi, autore di apparecchiature self-made attraverso materiali anche di scarto creatore di tracce in veste di collaboratore (con Jeff Gburek, Cristiano Bocci…) o solista, tra cui da annotare quelle presenti in nell’enigmatico Nightmarching Costernation del 2022, cominciano nello stesso anno la loro collaborazione con l’autoproduzione formata dal pezzo Aibofobia. In questo prologo al loro sodalizio artistico, abbiamo un esperimento strutturato secondo un’impostazione più rilassata all’inizio, sviluppato nel dopo in suoni plastici ed imprevedibili in maniera più adrenalinica, per poi chiudersi in una ulteriore dilatazione (non a caso, secondo uno schema quasi palindromico e di tensione). Successivamente portano alla luce qualcosa di più sistematico pubblicando il disco per Snowdonia intitolato sinteticamente Vittorio Nistri – Filippo Panichi, districandosi attraverso una fase di produzione meditata, caratterizzata da un pensiero lento in senso kahnemaniano, in cui diventano centrali elementi di musica colta insieme a suoni nell’ottica della library music, infondendo un’idea di familiarità e al tempo stesso generatrice di flussi immaginifici. La musica comunica anche attraverso la copertina (ad opera di Beppe Stasi, con layout di Gabriele Menconi) e un booklet in cui compaiono citazioni di Italo Calvino, Charlie Chaplin, Nazim Comunale, Yoko Ono e Sylvia Plath.
Abbiamo affrontato vari temi riguardo il suddetto lavoro nella seguente intervista rivolta a Filippo Panichi e Vittorio Nistri.
L’apporto di Filippo è stato decisivo nella strumentazione, arricchita da strumenti originali che hanno consentito la riproducibilità di un suono quanto più autentico secondo il relativo concept. Volevo chiedervi come è stata congeniale la selezione degli strumenti self-made e se hanno subito modifiche tecniche in fase di produzione dell’album.
Filippo Panichi: “Alcuni degli strumenti hanno subito delle modifiche ma non per la realizzazione dell’album, quanto in vista della sua esecuzione live: le mie scatoline con le molle ad esempio erano basate su dei microfoni piezoelettrici, ma in quelle che uso dal vivo ci sono dei pickup da chitarra, in quanto i piezo sono un po’ troppo tendenti al feedback. La scelta degli strumenti da usare è avvenuta spontaneamente durante la lavorazione dell’album, in base alle nostre conversazioni, a suoni che ci scambiavamo nel mentre senza uno scopo preciso, magari come esempi o ipotesi e anche ad alcuni video, che avevo fatto vedere a Vittorio, dove illustro alcuni di questi strumenti effimeri, che costruisco con materiali di scarto ed elettronica rudimentale per poterli usare come generatori sonori, senza dovermi fare degli scrupoli a distruggerli mentre li suono, o a modificarli per cercare di cavarne suoni diversi.”
Il Faro di Schrodinger è un pezzo ambientale di genere krautrock con elementi classici e cameristici. Si sente uno studio mirato dell’armonia, in associazione a ritmi ossessivi e distorti. Le frasi di Italo Calvino e Nazim Comunale associate alla traccia nel booklet infondono un sentimento di incertezza su un futuro prossimo, giocando su un noto paradosso (apparente e formale) della fisica, che nella metafora del titolo permea intrinsecamente la nostra realtà. Parlateci del significato del brano.
Vittorio Nistri: “L’intero album è una ricognizione della nostra fragilità, individuale e collettiva. Si è sviluppato poco per volta, durante un periodo di quattro anni contrassegnato da lockdown, guerre, crescita esponenziale delle disuguaglianze, erosione del welfare state, sfascio del pianeta. Con l’aggiunta, nel caso sia mio che di Filippo, di problemi individuali non lievi, verificatisi in contemporanea benché originati da cause differenti. Il filo conduttore emotivo dell’album è il tentativo di non arrendersi alla “lunga notte”, pur nella consapevolezza che gli eventuali sprazzi di luce saranno sempre sull’orlo di un crepaccio. E che questo, come un black hole, potrebbe inghiottirli in un istante.
“Il faro di Schrodinger prova a illuminare il buio, ma senza alcuna certezza di riuscirci. Come il gatto del paradosso, che è vivo e morto in simultanea, il faro è acceso e spento allo stesso tempo. Il brano cerca di esprimere questa condizione di incertezza. Presenta un continuo oscillare tra tonale e atonale. Ha come baricentro un drone, che però – a differenza di ciò che usualmente accade nella drone music – non verte su un bordone monotonale, bensì muta più volte nota nel corso del brano. C’è anche un omaggio al “Sense of Doubt” di David Bowie (nella sequenza cromatica di piano acustico).”

Vittorio Nistri (a sinistra) e Filippo Panichi (a destra). Foto di Lorenzo Desiati.
Maya Deren Blues è un omaggio a Maya Deren, regista surrealista dal tratto particolarmente espressionistico. Il suono del pezzo in stile jazz cadenzato vagamente anni ‘20, riproduce le scene teatrali dalle riprese danzanti della regista di origini ucraine, quasi a riprodurre il movimento barocco dei suoi cortometraggi in cui si gioca su più metalivelli di narrazione; degno di nota è il fatto che il pezzo viene reso magistrale dalle linee di contrabbasso ad opera di Silvia Bolognesi, in tutto e per tutto mingusiane. Parlateci di cosa vi ha colpito dell’arte della Deren tanto da omaggiarla in uno dei vostri pezzi. Inoltre tale pezzo è nel caso strutturato come sonorizzazione di un corto della suddetta regista?
Vittorio Nistri: “Maya Deren Blues è una mia composizione (anche le linee di basso mingusiane sono su partiture scritte da me, e meravigliosamente suonate dalla sublime Bolognesi), dietro la quale ci sono sia un elemento oggettivo che uno strettamente personale. Quello oggettivo è il fascino incredibile dell’artista russo-americana. Quello “privato” è il mio amore per “l’altra metà del cielo”, unito alla difficoltà per un uomo – o almeno, per me – di decifrarne razionalmente il mistero.
“Mi sono imbattuto in Maya Deren per puro caso, leggendo “Outsiders” di Alfredo Accattino, dove c’era un capitolo a lei dedicato. Ancora non avevo visto nessuno dei suoi cortometraggi (lo avrei fatto in seguito: magnifici), ma mi bastò un fotogramma da “Meshes of the Afternoon”, riportato sul libro, per ritrovarmi stregato. In quel fotogramma (che la ritrae alla finestra, con i capelli che si fondono con gli alberi antistanti riflessi sul vetro), Maya appare come puro mistero: è insieme una Madonna del Botticelli, una intellettuale newyorchese contemporanea, un quadro vivente di Magritte. La consonanza biografica è che io sono innamorato della stessa donna da quando avevo diciotto anni, eppure per me è, ancora oggi, puro mistero. Aggiungo che il brano è stato scritto quando un male rischiava di separarci; tutto questo è confluito nel brano. Quando l’ho proposto a Filippo, ho scoperto che, per una delle tante sincronicità di tipo serendipico che hanno caratterizzato la nostra collaborazione, lui conosceva benissimo Maya Deren – e da molto più tempo, e più a fondo, di me, giacché l’aveva studiata all’università. Filippo ha anche realizzato un magnifico video per il brano.”
Filippo Panichi: “Quando studiavo storia del cinema mi colpì molto il suo modo di montare: accade ad esempio che un oggetto in movimento passi da un’inquadratura a un’altra, ma lo sfondo su cui si muove cambia completamente: un modo veramente surrealista di utilizzare il cosiddetto raccordo sul movimento. Al tempo lessi anche il suo libro I Cavalieri Divini del Vudù (Divine Horsemen: The Living Gods of Haiti) – ma solo recentemente ho visto il documentario, rimasto incompiuto, dal quale il libro deriva – e fui molto interessato al suo approccio non ortodosso all’antropologia: piuttosto che osservare un rituale dall’esterno, partecipa ad esso, tanto che le fu assegnato uno spirito guida, Erzulie, dea dell’amore e del sesso. Esistono anche degli scritti sul cinema, dei quali però ho letto soltanto degli estratti perché la versione integrale al tempo non si trovava. Adesso si trova in digitale.
“Il mio video si può vedere qui. È composto utilizzando parti di tre lavori di Maya Deren (Meshes of the Afternoon, Cradle e The Very Eye of Night), sovrapposti e mixati “dal vivo” sulla traccia che suona in loop, registrando varie versioni, fino a ottenere una take che ritenessi soddisfacente. Ho fatto questa scelta in parte per non alterare il suo magnifico montaggio e perché mi consentiva di adattare le sequenze al ritmo e all’atmosfera del brano in un modo più istintivo e meno ancorato a una griglia rispetto a come normalmente si lavora in un software di montaggio video, ma la mia idea era anche di fare un piccolo silenzioso omaggio a un altro cineasta, Stan Brakhage e al suo uso delle sovraimpressioni.”

Particolare di uno studio preparatorio per l’artwork dell’album Vittorio Nistri – Filippo Panichi, ad opera Beppe Stasi.
Pipistrelli Sul Frigorifero è un esempio perfetto di come un pezzo d’avanguardia dovrebbe diversificarsi, basandosi su una tensione piena di groove che permea tutto il pezzo in maniera centrifuga. Parlateci di questo connubio che caratterizza questa traccia.
Filippo Panichi: “Innanzitutto…grazie! Questo brano deriva da una traccia che avevo tenuto nel cassetto perché non mi soddisfaceva del tutto e che feci sentire a Vittorio con la speranza che riuscisse a strutturarla in un modo più soddisfacente: mi sembra che abbia funzionato. Il brano di partenza è già un patchwork di digitale e analogico e di lo-fi e hi-fi, ci sono suoni fatti in un software ma poi suonati tramite un piccolo campionatore e alcune parti di Monotron (un piccolo synth a batteria) che avevo registrato in macchina durante alcune “pause pranzo” del lavoro che facevo fino al 2020.”
Vittorio Nistri: “Aggiungo che il titolo “Pipistrelli sul frigorifero” mi è stato suggerito dalla lettura di un articolo di psicologia sui sogni nei periodi di grande incertezza, come fu il lockdown. In questi sogni ricorrono spesso ambienti familiari (come la cucina della propria casa) nei quali appare un elemento perturbante. Ne consegue un particolare tipo di spaesamento – quello di cui David Lynch (uno che aveva il dono di rendere film i sogni) ha realizzato un archetipo assoluto con l’immagine del giardinetto di casa, nella cui siepe si cela un orecchio umano tagliato.”
Sheriff In Tiraspol si basa sulla vicenda della società holding Sheriff in Transnistria e lateralmente del ruolo sempre più invadente della Russia, esplicata meglio nella testimonianza su Il Manifesto del giornalista freelance Andrea Sceresini riportata nelle note del booklet del disco. La tonalità della melodia, atonale in senso esotico, sembra replicare la sfarzosità malsana di quelle terre, arricchita da distorsioni più nette, nonché da ritmi arabeschi e ossessivi. Parlateci dell’idea che volevate imprimere attraversi questi suoni.
Vittorio Nistri: “Il mondo è tornato ad essere una polveriera, che può deflagrare in ogni momento. La Transnistria ne è un potenziale simbolo perfetto: in questo stato piccolissimo e non riconosciuto, si trova un arsenale di armi spaventoso. Se sciaguratamente dovesse esplodere, causerebbe una distruzione paragonabile all’atomica di Hiroshima. Credo che, alla base di questo stato di minaccia permanente, ci sia il trionfo dell’ideologia turbocapitalista, che tracima ormai incontrollata (cioè, senza più i limiti che, nell’interesse della società, ne mitigavano almeno un poco l’aggressività predatoria). I casi più eclatanti sono ovviamente “the big three” (America, Russia, Cina), ma quasi tutto il resto del mondo, Italia compresa, sembra andare in analoga direzione. E anche di questo, la minuscola Transnistria offre involontariamente un esempio eclatante: un intero stato in cui ogni e qualuque ricchezza è di proprietà di una impresa privata – appunto, la Sheriff del titolo.
“Nell’arrangiamento del brano niente è casuale o dettato da considerazioni meramente “estetiche”. Il brano volutamente inizia con un tema da war movie; poi, nella parte centrale, si modula in scale orientali (perché, anche se di situazioni potenzialmente esplosive ce ne sono in tutto il globo, le ‘polveriere delle polveriere’ in questo momento storico sembrano essere Est Europa e Medio Oriente); e infine termina in uno sfacimme di percussioni elettroniche, che vorrebbe evocare un senso di possibile apocalisse in arrivo. (Sono cresciuto con la convinzione che l’apocalisse nucleare fosse un orrore del passato, invece l’eventualità di uso delle atomiche sta tornando ad essere minacciata con crescente insistenza. Prego che sia, appunto, soltanto una minaccia. Ma chi può dirlo? La storia è imprevedibile: l’unica certezza è che non ci insegna alcunché).”

Particolare dell’artwork dell’album Vittorio Nistri – Filippo Panichi, ad opera Beppe Stasi.
Giulietta Sotto Spirito ha un aspetto cameristico, una sperimentazione elegante e sfarzosa, riproducendo per l’appunto un immaginario felliniano. Un pezzo che sembra legato maggiormente ad un’improvvisazione jazzata, nonché più sofisticato rispetto gli altri pezzi. Spiegateci come avviene tale organicità in questo pezzo.
Vittorio Nistri: “Il brano cerca di mettere in musica il concetto di “gabbia”, e la difficoltà di evaderne. Si sviluppa su una “gabbia” geometrica, costituita dalla sovrapposizione di due arpeggi iterativi, uno in 4/4 e uno in 3/4. A sprazzi la gabbia si “apre”, e ne vola via un tema molto aereo, affidato al clarinetto basso. Che però poi si ritrova puntualmente nella gabbia originaria. La Giulietta di Fellini era prigioniera delle convenzioni della borghesia del suo tempo – prima tra tutte, il suo ruolo di moglie (anche a dispetto di un matrimonio esaurito). Provava in mille modi ad uscirne, salvo poi ritrovarsi al punto di partenza. Io credo che ancora oggi, nonostante i progressi fatti, la condizione femminile sia spesso “ingabbiata” da ruoli e aspettative. Ma il discorso riguarda anche molti uomini. Quasi ciascuno di noi, indipendentemente dal sesso, ha la propria gabbia – anche se magari meno elitaria della villa di Giulietta a Fregene. Una gabbia determinata dalle convenzioni dell’ambiente dove si vive, dall’educazione ricevuta, dalle opportunità (o dalla mancanza di opportunità) che si sono avute, o semplicemente da decisioni prese dall’alto.”
In Prove Tecniche Di Solitudine l’atmosfera si fa più soffusa e meditabonda. Tale conclusione, che potrebbe essere vista come metafora di un percorso, viene rafforzata all’interno del booklet da una frase di Luci Della Ribalta di Charlie Chaplin, storia di un artista negli ultimi momenti della sua carriera. Lo stile del pezzo è più classicheggiante con momenti di eclettismo sintetico (associate a tecniche analogiche). Parlateci del reale significato del pezzo nel contesto del disco.
Vittorio Nistri: “La citazione di Chaplin/Calvero dice: “Dilettanti, è quel che siamo tutti. Non viviamo abbastanza da diventare di più”. Hai ragione nel dire che è la metafora di un percorso. Il punto di arrivo di un album imperniato sulla fragilità dell’esistenza, per me, è da un lato l’accettazione della mia finitezza ed impermanenza; e dall’altro, lo sforzo di cercare, pur da dilettante dell’esistenza, di fare del mio meglio, almeno per quel poco che la mia transitorietà e irrilevanza mi consentono.
“Per inciso… credo che la coscienza della nostra provvisorietà sia uno degli impulsi che ci fa amare l’arte. Lo scrittore Salvatore Setola, in un suo recente articolo pubblicato sulla rivista “Superlunaria”, sostiene – e credo abbia ragione – che questa è una delle ragioni per cui le opere d’arte generate da AI non avranno la stessa capacità di “parlarci” di quelle fatte da esseri umani. Scrive Salvatore: “Le lingue dell’arte ci emozionano perché parlano al nostro spirito, da uomo a uomo, da mortale a mortale. E parlano del problema fondamentale dell’artista: quella volgare seccatura di dover crepare. Senza la necessaria tragedia della morte non esisterebbe spinta alla creazione, e al riguardo le macchine hanno un bell’impedimento: non muoiono. Sono fumo che tuona. Per quanto intelligenti diventeranno, non ci parleranno mai davvero.” A differenza degli altri brani dell’album, che hanno arrangiamenti molto sfaccettati, “Prove tecniche di solitudine” è nuda essenza, con tre soli strumenti: una viola, un violoncello, un synth Microfreak. Nel finale però si apre ad un field recording particolare: il suono che avrebbe la città di Filippo e me, Firenze, se tutti gli esseri umani fossero spariti.”
Filippo Panichi: “Questo brano, il cui titolo per me racchiude, oltre ai significati già menzionati da Vittorio, anche un’allusione alle prove che stavo facendo in vista di una solitudine che sapevo che avrei affrontato e che conclude un disco che parla di finitezza e impermanenza, ci piaceva che si chiudesse non sul silenzio, ma su un panorama sonoro che rappresentasse per noi la solitudine. I field recordings alla fine del brano sono realizzati usando come “microfono” un rilevatore di ultrasuoni, di quelli usati per ascoltare i segnali di ecolocazione dei pipistrelli e sono estratti dalle numerose registrazioni da me fatte durante le mie personali prove tecniche di solitudine: nella zona dove abito si possono percorrere lunghi tratti proprio al livello del fiume, invisibili ai passanti che percorrono il più agevole livello superiore e che sono perfetti se si vuole (o si deve, come durante il lockdown) stare da soli. Ho fatto ascoltare a Vittorio alcune delle molte registrazioni fatte durante questi miei vagabondaggi solitari e ci siamo subito trovati d’accordo sul fatto che fossero l’unica cosa che si potesse aggiungere a un brano che altrimenti sarebbe stato già perfettamente compiuto con quelle sole tre linee melodiche.”