NON SPARATE A SOLO: INTERVISTA ALL’ARTISTA PSICHEDELICO CAMPANO
di Michele Ruggiero
Beatles, Bennato, pentole e bicchieri nel suo nuovo singolo in audio binaurale.
SOLO

SOLO, alias di Giuseppe Galato.

Ascoltando l’ultimo singolo Don’t Shoot The Piano Player (It’s All In Your Head) del musicista campano SOLO, non può non tornare in mente quel periodo di estremo fervore musicale psichedelico a cavallo tra anni ’60 e anni ’70 – dunque si potrebbe rubricarlo in maniera sbrigativa come semplice omaggio a quel preciso momento musicale, e stop. In realtà c’è molto di più, anche dietro all’intero – perlopiù inedito – repertorio di SOLO e perciò abbiamo organizzato con lui un’intervista per approfondirne qualche aspetto. Buona lettura.

Il tuo ultimo singolo ha come chiara ispirazione certi artisti pilastro degli anni ‘60 come i Rolling Stones e i Beatles di Revolver: da cosa è nato?

“Se devo dirti da cosa è nato, non lo ricordo: la canzone è piuttosto vecchia e l’ho ripescata attualmente. Stavo ascoltando in quel periodo Their Satanic Majesties Request degli Stones, inizialmente avevo pensato a quelle sonorità lì.
“L’aggiunta degli elementi che invece la avvicinano più a Tomorrow Never Knows dei Beatles è venuta dopo, ascoltando Edoardo Bennato, in particolare il brano Mangiafuoco, che si apre con questo suono psichedelico di chitarra processata nel tremolo e nel wah. Giocando coi pedali mi sono fatto prendere la mano aggiungendone sempre di più.
“Mi piace sottolineare che sono tutti effetti fatti con chitarra, no campioni, no tastiere, no altri strumenti”.

Quindi in fase di arrangiamento hai utilizzato queste tecniche di per chitarra e basso; per le percussioni invece ti sei fatto prendere da oggettistica varia…

“Anche lì l’idea è venuta dagli Stones. In sottofondo ci sono suoni di bicchieri, a volte a tempo, a volte fuori per dare un’idea di ambiente, come ad un banchetto. Al posto della cassa ho usato stivali e piedi sbattendoli a terra, sul tappeto, sul pavimento. Poi i clap che portano il tempo, stoviglie varie, padelle percosse con cucchiare di legno…”.

Un po’ alla Tony Esposito! Oltre a Bennato riconosci altre influenze italiane?

“Nel brano in particolare no, qualcuno mi ha detto che la mia musica ricorda gli A Toys Orchestra, una di quelle band che ho ascoltato migliaia di volte. Loro poi sono praticamente vicini di casa, abitavamo a un’oretta distanza, ci conosciamo pure. Io Camerota, loro Agropoli”.

Il luogo in cui sei nato come ti ha formato musicalmente?

“Probabilmente il fatto di abitare in un luogo isolato è stata una spinta per andare a cercare altro, anche se sembra un controsenso. Ricordo che quando eravamo ragazzini con gli amici cercavamo quanto più possibile di recuperare musica. Considera che sono dell’83, quando ero ragazzino bisognava aspettare di incontrare qualcuno che avesse qualche cassetta e chiedergli di fartela registrare con lo stereo…
“C’era una certa ricerca, forse, che si è persa con la mole di informazioni che abbiamo oggi a portata di mano”.

Da qui nasce questo fascino verso il passato?

“Be’, io in realtà ascolto e suono di tutto: i singoli a cui sto lavorando ora sono di tutt’altro genere. Quello a cui sto lavorando ora prende spunto melodicamente dal dream pop, aggiungendo una ritmica più dance e qualche arpeggiatore, come fatto magari dai Muse su Bliss, Starlight.. Un altro brano a cui sto lavorando è più vicino ai Radiohead di In Rainbows, OK Computer, un altro shoegaze… Non ho un genere o un decennio di riferimento”.

“Don’t Shoot The Piano Player (It’s All In Your Head)” di SOLO

Cover di Don’t Shoot The Piano Player (It’s All In Your Head) (2021).

Sì, lo dimostra il fatto che i due singoli pubblicati sinora siano molto diversi tra loro. Tendi a cambiare veste, è una cosa positiva.

“Dipende, potrebbe anche essere controproducente perché non hai un pubblico di riferimento. Io però alla fine non lo faccio per “emergere”, piuttosto per divertirmi, non è il mio lavoro”.

E dal vivo?

“Dal vivo, pur non avendole mai pubblicate ho comunque scritto molte canzoni, quindi ho un live set di 2/3 ore, ho anche suonato prima della pandemia.
“A me piacerebbe molto andare dal vivo con una band: quando scrivo mi concentro molto sulla parte ritmica. Naturalmente, non avendo una band, feci questo live da solo con due ampli e una pedaliera con tre diverse catene di effetti. Dallo stesso accordo, arrivavano tre suoni differenti da tre fonti differenti. Fu una cosa sperimentale; però in futuro, microfonando gli amplificatori, mandandoli al mixer e diramando gli effetti stereo mi piacerebbe molto creare quest’effetto avvolgente dal vivo.
“Un po’ come il tour in quadrofonia degli Offlaga Disco Pax, col suono che ti avvolgeva a 360 gradi. Mi piace molto, lo faccio anche nei brani”.

Ecco, parliamone. Sull’audio volgarmente chiamato 8D c’è stata una polarizzazione: molti lo odiano, molti lo amano. Tu che opinione hai? Può avere delle potenzialità una tecnica del genere?

“Be’ considera che l’8D è un po’ una stronzata, perché (a parte il significato di queste 8 Dimensioni) loro si limitano a prendere una traccia intera e farla “spostare”, tramite un gioco di equalizzazione e riverberi che prendono in giro il cervello. Si è studiato che se un suono arriva davanti percepirai determinate frequenze da quel suono, diverse da dietro: giocando su questa percezione si ricrea l’idea di movimento. Ci sono dei programmi che lo fanno in automatico, noi abbiamo utilizzato DearVR.
“A differenza dell’8D – per quanto divertente – io però ho fatto un lavoro differente: ho applicato la spazializzaizone suono per suono, non alla traccia unica – c’è un movimento continuo da tutte le parti, come nel cinema, il Dolby Surround.
“È una cosa già in uso dagli anni ’60 eh, come la coda di Good Morning Good Morning dei Beatles, piena di animali che corrono e urlano e sembra ti passino nel cervello; ma anche i Genesis e Pink Floyd, in quadrofonia…”.

Ultima domanda extra-musicale: dal punto di vista grafico (copertine, foto), che tipo di estetica ricerchi?

“Inizialmente non volevo mostrare la mia immagine! Le foto promozionali poi sono uscite perché il regista del video aveva chiesto un’immagine di me – che poi comunque non ha utilizzato. Non so perché, non ha un senso ben preciso, ma continuavo a pensare a Cesare, protagonista de “Il Gabinetto del Dottor Caligari”, film espressionista anni ’20, uno dei primi esempi di horror al cinema.
“Forse una connessione c’è, perché nel brano parlo di una persona in stato catatonico sul letto, e lui è un mesmerizzato, quasi in catalessi, quindi ho utilizzato quel make-up.
“Per le copertine, non ho espresso nessuna richiesta particolare, sono opera di Maria Dori Calabrese, sono collage di frammenti di riviste e suoi dipinti a colori, ritagliati e miscelati”.

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