ENVY – THE FALLEN CRIMSON
di Roberto Liuzzi
Ritorno dopo un lustro per i veterani nipponici, l'esplorazione del lato post rock dello screamo/hc.
The Fallen Crimson (2020).

Cover di The Fallen Crimson, uscito il 7 Febraio 2020, nei formati CD e doppio LP per Sonzai, Pelagic e Temporary Residence.

Se fosse possibile pensare di risollevare il morale in questo travagliato 2020, io consiglierei di provare con questo disco. Parlo del sublime comeback dei nipponici Envy, impegnati a rinnovare la magia in ogni uscita, cercando con caparbia vivacità quella perfezione ideale, che irradia ancora stupore e meraviglia, condotta con una passo elegante che nel contesto proprio non ci si immagina. Ma di questo, anche, si tratta. Riconoscibili gli elementi caratterizzanti il suono del sestetto (tre le chitarre), sapientemente fusi con una maestria tale da far scorrere fluido l’ascolto, anche quando si caricano di esagitata tempesta elettrica, cosa non scontata considerata la complessa proposta in questione.
In questa nuova prova si ripresentano in forma più asciutta e meno caotica, architettonicamente più affinata, approccio che giova alla costruzione dell’insieme, che va preso appunto tutto d’un pezzo per saggiarlo a dovere, privilegio di quelle che definiamo a tutti gli effetti opere, dal senso estetico alla sostanza della struttura portante.

L’impianto melodico vede sempre in primo piano gli struggimenti dreampop/shoegaze, fondamentali nel creare quell’aura epica che sa di nostalgia romantica in quota autunnale, nel collaudato saliscendi da maremoto emozionale, fatto di onde placide, correnti sinuose ma anche di scogli aguzzi ed improvvise maree, una impetuosa cascata drammaticamente intensa ma con meno carico ansiogeno stavolta, che fa intravedere una, seppur fioca, luce (molto in fondo). Diciamo che ora gestiscono meglio l’intensità, un tempo debordante ma a spasmi, ora più centellinata, dosata per tutto l’arco delle canzoni.

L’ausilio di una voce femminile, che fa capolino interagendo col singer o come solista (in Rhythm, dove sembra di sentire i migliori Cranberries con cromatura heavy), dolcifica ma non rasserena l’animo travagliato impresso magnificamente dal suono, donando un appeal sognante quando interviene, arricchendo la potenza evocativa degli 11 brani che formano il quadro.
Maestosi crescendo e immediatezze dall’aspra corazza, tra teso trasporto meditativo post-rock dalla soavità melodica, compattezza e movimentazione (instabile) post-HC e -rinvigorite- sfuriate screamo, modulate secondo l’enfatico canone Envy, con al solito il contrastante urlo straziato -che alterna talvolta parlato/cantato- del singer -vado-non vado via- Tetsuya, con i suoi tormentati testi cantati in lingua madre, a marchiare e togliere ulteriori dubbi sulla matrice originaria HC, dalla quale contaminazione si è propagata la corposa e seducente miscela dei nostri. Il concetto sonoro in trasformazione applicato anche dai Deafheaven, questi a infettare la radice black-post metal, i nostri quella post/hc screamo, con la sostanziale differenza che gli americani l’hanno tradotto ed incorporato partendo proprio dalle intuizioni attuate un decennio prima dai coriacei kamikaze.
Se proprio dovessi scegliere un pezzo che secondo me racchiude tutte le caratteristiche che hanno reso noto l’ensemble, citerei la quinta traccia Marginalized Thread, ottimo sunto dimenato in 3’35” di tutto l’armamentario applicabile alla band, già anticipata sull’incantevole singolo del 2018 Alnair In August.

Una discografia che si incrementa di un altro piccolo classico, di sicuro meno segnante dei primi capitoli (All The Footprints… ed il suo seguito A Dead Sinking Story, album violentemente estatici che irruppero prepotentemente ad inizio secolo, che ancora fanno luccicare i nostri sensi) ma con quello slancio fisico/mentale potenziato dall’esperienza, che non rimane ancorato allo splendido passato, ma ne ravviva gli immaginifici scenari, colori e sfumature per un degno prosieguo della storia, in piedi, per quanto con basso profilo, da oltre 25 anni.
Un plauso all’artwork, ad opera di David V. D’Andrea, ennesimo punto a favore del vinile.
Un disco meticoloso che s’imprime immediatamente nella memoria, concepito per restarci e depositarsi in quella a lungo termine, cioè quella in grado, in tempi di abbandono come questi attuali, di sostenerci per far fronte alle distrazioni del quotidiano indifferente. Disco dell’anno.

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