
Valerio Cosi, foto di Giulia Savini.
Valerio Cosi è un musicista internazionale ma residente in Italia dalle diverse sfaccettature, le quali nel loro insieme sono difficili da catalogare. Ondivago negli ascolti, ha creato un suono ispirandosi dal passato ma creando qualcosa di diverso anche rispetto il suo stesso presente. A seguito della sua proficua ed eterogenea produzione che ha origine dai primi anni Duemila, pubblica nel Dicembre 2023, per Longform Editions, l’album The Aqueduct Walk; un letterale flusso di coscienza in cui unisce diversi timbri e sonorità, in cui l’elemento globale incontra incontra la sua storia locale. Cosi attinge espressionisticamente dal passato, dall’elettronica, il minimalismo, il krautrock o la psichedelìa più noise per poi, da quegli input, creare qualcosa di completamente differente, in cui la volontà di esprimersi artisticamente diventa focale.
Parliamo di tutti questi temi con Valerio Cosi, incentrandoci sull’album The Aqueduct Walk.
I tuoi esordi avvengono attraverso e come fine lo studio del sassofono, in cui, da come si evince dai tuoi dischi, il jazz di matrice propriamente africana ti ha inesorabilmente coinvolto. In Collected Works, per la Porter Records, il suono del tuo sax è delineato da riff d’effetto, per poi lasciarsi abbandonare istintivamente in divagazioni più rumoriste attraverso un beat afro. Come nasce il tuo rapporto con il suddetto strumento e come ti ha accompagnato nel corso della tua carriera?
“Ho iniziato a fare musica elettronica agli albori dei Duemila, in un periodo in cui internet era decisamente diverso, con mezzi decisamente esigui. Parliamo più precisamente di un periodo che va dal 1999 al 2003. Non avevo molto a disposizione, la mia strumentazione ruotava principalmente attorno a Soundforge, il mio sax contralto ed il Korg Trinity. Le mie primissime produzioni sono davvero numerose (avrò contato 100 CDr di materiale nel mio archivio, alcuni di questi sono diventati praticamente illeggibili dopo anni) ed alcune di esse le ho selezionate e raccolte su “Early Archives”, una produzione esclusivamente digitale che lanciai su Bandcamp qualche anno fa.
“Il mio primo album con il sax è “Immortal Attitudes”, registrato nell’estate del 2005 pubblicato l’anno successivo per la label americana Foxglove/Digitalis di Brad Rose. Avevo in mente qualcosa che fosse completamente nuovo e diverso da molte altre cose che avevo ascoltato ed assorbito in quegli anni, ero rapito dall’idea di unire l’esperienza elettronica (che avevo accumulato in tutto il periodo di precedente praticantato privato e “domestico”) con gli ascolti jazz e free jazz che mi appassionavano nel periodo in cui feci uscire il mio primo album. Volevo comunicare a tutti il mio assoluto bisogno di libertà musicale/creativa ed allo stesso tempo proporre qualcosa di unico e diverso. Oggi vedo tantissimi musicisti che usano il sax nell’elettronica, motivo per il quale credo di aver già dato ampiamente in questi termini e di aver già illustrato ampiamente un modo di fare musica con quello strumento decisamente inusuale. Tra l’altro, non conoscevo ancora “Dorian Reeds” di Terry Riley in quegli anni, uno dei brani che più rassomiglia alle mie produzioni iniziali per ciò che concerne il mio utilizzo del sassofono.
“Ero più che altro un discepolo dei Velvet Underground, Chrome, Throbbing Gristle, Can… vengo da ascolti molto particolari che risalgono ai miei anni delle superiori. Il jazz è arrivato tardi nella mia vita, motivo per il quale non mi si può considerare un jazzista.”
Plays Popol Vuh (Dreamsheep Records) offre una reinterpretazione della musica eterea e diversamente astratta, anticipatrice di quasi tutto della musica elettronica, filtrata dal tuo tratto creativo in maniera emotivamente immersiva ed espressionistica. Se Aguirre (In B Major: Stars Aligning) rimanda in senso lato all’associato album, dalla cui fonte sonora, più acida e armonicamente psichedelica, otteniamo un’istanza musicale omogenea e atonale, Affenstunde si ricollega più propriamente alla magmaticità plastica e lateralmente proto-techno del primo album del gruppo di Florian Fricke. Raccontaci di come nasce originariamente il tuo legame con lo storico progetto di Monaco, e come avviene l’idea di incentrare un’uscita discografica sulle sonorità correlate.
“Ogni album ha una sua entità, una sua libertà espressiva all’interno. Con “Plays Popol Vuh” volevo prendermi un rischio, volevo reinventarmi dopo anni di silenzio. “Collected Works” uscì nel 2009 e dopo mi presi una pausa di diversi anni. L’album “Plays Popol Vuh” è tra i più variegati che io abbia mai fatto uscire: c’è musica da camera, rock psichedelico, un finale quasi techno con “Affenstunde”… L’ultima cosa che avrei voluto era offrire una riproposizione didascalica della musica prodotta da Florian Fricke e sodali, ho cercato quindi di creare qualcosa di completamente nuovo rifacendomi a qualcosa di pre-esistente. Volevo spiazzare tutti, spero di esserci riuscito.”
Parlaci del processo creativo di The Aqueduct Walk, il quale, oltre ad essere il titolo del tuo ultimo album, è anche un esteso parco all’interno del distretto Bronx di New York. Il rimando è infatti al tuo soggiorno negli USA, ovvero più specificamente a New York City. Ci sapresti raccontare come avviene l’associazione tra il citato luogo fisico e le sonorità eterogenee, strutturate a flusso di coscienza, che caratterizzano l’album?
“Hai colto un doppio senso decisamente azzeccato: volevo giocare con questo doppio senso, con questa ambiguità geografica. In realtà, il nome dell’album viene da un luogo che si trova dietro l’abitazione dei miei genitori, è un luogo dove vado di solito per disconnettermi da tutto. C’è una via lunga e piena di sassi che porta ad un vecchio acquedotto, immerso tra gli ulivi. È un luogo geografico che esiste per davvero, immerso nella natura… ma è soprattutto un luogo della mente, è quello che accade quando sei solo in sovrappensiero e vuoi liberarti da tutto. È un vero e proprio flusso di coscienza, come dici tu.
“Volevo lavorare su un brano che funzionasse durante questi momenti che attraversiamo, tutta la mia musica ha a che fare con l’escapismo – con il voler reinventare nuovi mondi, possibili o impossibili. Tutto quello che faccio ha a che fare con il lato percettivo e le possibilità della nostra mente.”
La prima parte di The Aqueduct Walk rimanda ad un suono ambientale molto simile a Ambient 1: Music For Airports di Brian Eno, sebbene l’atmosfera più dinamica, contenente energia che straborderà nella parte successiva. L’associazione è casuale o vi è un’influenza da parte dell’autore e “non-musicista” inglese?
“No, no… Mi sono ispirato ad altre cose per la realizzazione dell’album. “The Walking” di Jane Siberry è un album stupendo di un’artista che amo tanto, è stato il vero punto di partenza… una notevole fonte d’ispirazione. La musica minimalista è un’altra fonte d’ispirazione, l’album è pieno di queste ripetizioni che mutano continuamente e ritornano in un modo semiciclico. Joanna Brouk per le parti di piano, ad esempio. Ci sono diverse cose che hanno sicuramente ispirato “The Aqueduct Walk”, ma la cosa più importante è che non cerco di emulare o ricreare cose già fatte da altri – sono interiormente sfiancato dalla mia continua ed incessante ricerca e voglia di proporre qualcosa che sia solo mio e che assomigli a poco altro. Se c’è qualcosa che assomiglia involontariamente ad un’altra cosa, capita… ma non ho davvero nessuna voglia di voler assomigliare ad altri.”
Il suono di The Aqueduct Walk presenta anche una componente tedescofila davvero peculiare, espressivamente plastica. L’immaginario di autori come Klaus Schulze o dei Faust di Faust IV non si fa mancare a tal punto che una componente lateralmente kraut è comunque ben presente, rappresentata dal Franco Battiato di Clic. Come nasce questo approccio più magmatico rispetto il legame comunque solido rispetto, ad esempio, i Popol Vuh?
“Mi piace molto creare dei riferimenti, ma (come forse già sai) è difficilissimo etichettare la mia musica. Ogni volta che ci hanno provato, gli effetti sono stati disastrosi per me. Non è free jazz, né krautrock, né altro… È una musica totale, ci puoi trovare tantissimi generi all’interno delle mie produzioni. È il mio modo di fluire e di pensare in musica, non ho mai seguito un filone preciso. Ho una consapevolezza solida di quello che faccio in studio, non mi preoccupo minimamente dei generi. Voglio offrire all’ascoltatore un’esperienza sonora sempre diversa e riconoscibile.”
Rimanendo in tema di The Aqueduct Walk, è uscito un suo remix a Febbraio 2024 con il titolo “Walk To The Fire”, il quale comprende parti di sassofono e la partecipazione di Mauro Corvaglia alla chitarra. Il pezzo sembra unire ritmi motorik à la Neu e una certa distorsione derivata dagli ascolti relativi ai Chrome, in cui il già citato ottone emette afflati in pieno stile punk. Un biglietto da visita per l’ascolto più meditativo dell’album da cui trae origine. Parlaci delle intenzioni e del processo creativo che si celano dietro questo pezzo.
“È il negativo di “The Aqueduct Walk”, il fratello cattivo se preferisci… Volevo creare qualcosa di radicalmente opposto, preservando solo il tema principale che riaffiora spesso nell’album su Longform Editions. Mi piace molto creare dei cortocircuiti ed offrire qualcosa di completamente inaspettato ed imprevedibile, è nella mia natura. Ci sono troppi artisti ed etichette discografiche ossessionati dall’omogeneità, dal dover proporre tante cose tutte uguali… bisogna superare quest’ossessione. Mi annoio da morire quando mi rendo conto di lavorare su qualcosa che non mi soddisfa, perché so in cuor mio di averla già fatta.”