Gli itinerari magici e sonori dei Putan Club
di Giovanni Panetta
Intervista a François R. Cambuzat su Putan Club, progetto electro-noise rock in duo con Gianna Greco. Si parla del loro progetto itinerante Tran-Aeolian Transmission, di Ifriqiyya Electrique e Ndox Electrique.
Putan Club

Putan Club, François R. Cambuzat a sinistra e Gianna Greco a destra.

François R. Cambuzat e Gianna Greco sono autori e musicisti nei Putan Club, ma anche di altri progetti con artisti provenienti da comunità dell’Africa come Ifriqiyya Electrique e Ndox Electrique, in cui uniscono una coraggiosa ricerca antropologica sui riti caratteristici di quelle stesse popolazioni e un’immersione nei propri istinti attraverso un personale sensazionalismo magico; un’idea che portano avanti percorrendo itinerari per questi mondi sotterranei, aldilà di tutte le frontiere per il globo terrestre, con documentari realizzati a nome del progetto Tran-Aeolian Transmission. I Putan Club offrono musicalmente l’istanza di un rock sintetico, un ibrido tra elettronica e suono analogico, ma in maniera nettamente istintiva, di matrice noise, basata sulla voce e i riff violenti degli strumenti a corda (il basso di Gianna e la chitarra di François), e beat di synth periodici atti ad infondere paranoia. Il progetto inoltre crede rigorosamente nell’etica do it yourself, curando tutti gli aspetti organizzativi, quindi non solo il suono in fase di produzione o le esibizioni live, ma anche occupandosi del booking e della promozione.

Successivamente all’esordio Filles de Mai (Toten Schwan) del 2017, pubblicano il loro secondo album Filles D’Octobre (sempre per la medesima etichetta); un disco quasi interamente live in cui si può scorgere la loro forza stacanovista che consiste nel cosmopolitismo – o internazionalismo – e nel generare rumore iconoclasta.

Trattiamo i citati argomenti nella seguente intervista a François R. Cambuzat di Putan Club.

Putan Club, progetto nato a seguito della collaborazione con Lydia Lunch a nome Lydia Lunch’s Putan Club (per cui esce il singolo Don’t Pressure The Man With The Knife, per UJPE nel 2013), è un progetto in tutto e per tutto internazionale, che utilizza suoni analogici, elettronica e sample. Il formato live band domina il vostro modus operandi in maniera estrema, arrivando a suonare in luoghi impensabili per un duo franco-italiano. Come nascono queste intenzioni e lungo quali percorsi si sono concretizzate? E più nello specifico, come nasce la collaborazione con la storica autrice e musicista, nonché icona della no wave componente ai tempi nei Teenage Jesus And The Jerks?

“Il Putan Club è stato creato qualche anno prima di avere invitato Lydia. All’inizio era solamente un banco di prova fonico per tutti gli altri progetti che abbiamo (Ndox Electrique, Ifriqiyya Electrique, Trans-Aeolian Transmission, Machine Rouge…). Avevamo bisogno di lavorare & testare la fonia (missaggio, equalizzazione, compressione, ecc…) del materiale che avremmo eseguito dopo, e bisognava anche capire come avrebbe reagito il pubblico. Poi ci hanno richiamato ancora e ancora – ed è diventato un vero gruppo.

“Scegliamo di lavorare con altre bestie per quello che apportano. La ferocia poetica e senza filtri di un Denis Lavant, la lucida provocazione di una Lydia Lunch, le libere eruzioni di Eugene S. Robinson, la ferocia liberatoria della banga tunisina o dello n’döep senegalese, ecc. Ma queste collaborazioni partono sempre da un desiderio di catarsi e una volontà di portare il pubblico verso altri lidi. Non sono mai fellazioni artistiche, tutto questo ha un ruolo, spesso sociale, di comunità, come durante i rituali studiati in Asia e Africa. Nel caso di Lydia, il Putan Club fu invitato dal Théâtre Garonne a Tolosa, Francia, per realizzare una creazione libera. All’epoca, Lydia abitava vicino a Barcelona ed era facile invitarla. L’idea era di concentrarsi sui suoi scritti, quasi “proibendole” di cantare ma di fare volare i testi in faccia agli avventori. Il risultato di questa ricerca ha poi girato tanto, soprattutto in Francia ovviamente, per varie tournée, ma i nostri planning rispettivi (avevamo già cominciato le nostre prime lunghe ricerche nello Xinjiang per la Trans-Aeolian Transmission) non lo hanno più permesso. Ma prima o poi riprenderemo da dove avevamo interrotto, tutti noi abbiamo voglia di proseguire ancora di più oltre certi esperimenti.

“Di base – e prima di suonare la primissima nota – l’intenzione del Putan Club era di provare ad evitare il sistema dell’industria musicale, di lavorare senza agenzie, senza PR, senza pubblicare nessun album e di viaggiare il più lontano possibile, facendo e pianificando tutto in totale autonomia per sempre, potendo decidere dove, quando, con chi. Operando esattamente nella direzione opposta a quella seguita da quasi tutti musicisti, fu allora che abbiamo subito cominciato a suonare oltre cento concerti ogni anno in Europa, Asia, Asia Centrale, Cina, Americhe, Afriche, Oceania… Abbiamo cominciato a pubblicare solamente dopo essere stati storditi dall’etica, l’estremismo e l’abnegazione di Marco Valenti della Toten Schwan Records.”

Filles de Mai (per Toten Schwan Records) è il vostro primo album a nome di Putan Club. Pezzi più noise, classici in maniera eterodossa, come Kancer e Phenix, incontrano la titletrack, una suite centrifuga, similmente ad un piano sequenza delineato dall’incedere della batteria secondo una struttura motorik più complessa, nonché il rumorismo dalle tinte lisergiche ed esotiche di Boğaziçi. Parlateci del processo creativo dietro questo lavoro.

“È un lungo processo. Poiché fondamentalmente proveniamo dall’avant-rock, da certe poliritmie, e non volevamo comporre poi suonare sempre in 4/4, 6/8, ecc… Per semplificare, l’idea è di mescolare misure composte, tempi dispari, mantenendo un ritmo binario. È ancora poliritmia, ma guidata dai piedi. Nessuno se ne rende conto, tranne i vecchi colonnelli e i musicisti che tengono i muri e contano sulle dita mentre gli altri saltano come grilli e trote selvatiche, con e in mezzo a noi, e tutto questo è molto vicino ai rituali osservati in Asia centrale o in Africa (realizziamo film su certi rituali adorcisti). Ballare, toccarsi, spingersi a vicenda, urlare e strillare in un pogo primario o in un mosh-pit ancestrale.

“Quando scriviamo possiamo dedicare intere settimane a una singola misura o a un singolo break per provarli poi in un concerto del Putan Club, quindi rielaborarli ancora e ancora. Detto questo, sono il ruolo sociale della musica (terapeutico o catartico, per lo più organizzato in comunità) e spesso le musiche che non capiamo che ci interpellano. Amiamo studiare per capire. Una composozione può partire da certe armonie di Olivier Messiaen, dalla violenza di un brano di Messhugah o dal groove di let’s get loud di Jennifer Lopez. Rinchiudersi in una chiesa, in uno stile, non può essere contemplato.

“Infine, la scelta del computer ci permette di non lavorare con musicisti (ci siamo giurati di non portare ma più nessuno in vacanze, tutti devono lavorare ugualmente, dalla composizione al booking) e di essere estremamente veloci e precisi sull’intento che avevamo, anche di amoreggiare con la musica elettronica (techno ed altre).”

Nel titolo del primo progetto a cui partecipate dopo la formazione dei Putan Club, ovvero Ifriqiyya Electrique, si fa riferimento alla Tunisia, ovvero la zona di provenienza di tutti gli altri componenti (Ifriqiyya è una denominazione araba della zona all’interno del Maghreb che comprende Tunisia e Algeria Orientale); a livello di sonorità ci si sposta in territori più mistici e dilatati rispetto la produzione dei Putan Club; in Rûwâhîne, il primo album prodotto per Glitterbeat, l’espressività si fa sfumata, in cui la musica diventa un’entità continua e liquida, invece la seconda uscita, Laylet El Booree, sempre per Glitterbeat, il suono si fa più netto ed esacerbante. Inoltre il carattere dilatato di Ifriqiyya Electronique mi rimanda più vagamente al clima geopolitico alieno ma al tempo stesso di cambiamento vissuto da Gianna durante il suo itinerario nel 2011 verso Tunisi durante le proteste contro il governo di Ben Ali. C’è un’effettiva associazione? Parlateci più nello specifico di come nasce il progetto e con quali intenti.

“Come detto, il ruolo sociale di certe comunità ci affascina, ovvero come la gente combatte per aiutarsi o curarsi. Sono momenti di libertà estrema che queste comunità, ormai in pericolo, mettono in atto durante i rituali. È spesso estremamente rumoroso e violento, contrariamente all’idea della world music commercializzata in Occidente – come d’altra parte sono tutti questi lavori pubblicati. Dedichiamo anni a queste ricerche, andando a vivere sul posto, vivendo con loro, registrando (santo Ableton) in situ. Sono rituali ancestrali tramandati malgrado le colonizzazioni musulmane e poi europee, dove spesso un misticismo animista affiora, quasi in resistenza nascosta. L’idea era in primis di andare a studiarle, per diventare un “gruppo” solo quando i nostri “collaboratori” ne esprimono il desiderio – e facciamo sempre del tutto affinché non avvenga perché crediamo che sia uno sbaglio disturbare se non rovinare col denaro un intento quasi intimista e socialmente così importante.

“La rivoluzione tunisina c’entra poco, è solamente stata una concordanza storica. La communità della banga djeridiana era poco coinvolta, sono sempre stati – e lo sono tutt’ora sopratutto perchè estremamente poveri e neri di pelle – ostracizzati.”

In Ndox Electrique, che vede ancora una volta la partecipazione di te e Gianna, fanno parte esponenti della comunità n’doëp in Senegal, incontrati attraverso un viaggio alla scoperta delle origini dei rituali in Nord Africa. Lo sciamanesimo sonoro del disco Tëdd ak Mame Coumba Lamba ak Mame Coumba Mbang, pubblicato dalla Bongo Joe nel 2023, ed espresso attraverso canti e percussioni cosiddette sabar (ovvero percussioni suonate con una bacchetta da musicisti e cantastorie senegalesi), incontra il suono materico del basso e quello della chitarra che descrive forme acute e glaciali. Raccontateci di come nasce l’incontro con tale comunità, cosa vi ha colpito di loro. In più come nasce questo intento di esplorare la cultura magica del Nord Africa Occidentale?

“Con l’Ifriqiyya Elettrica eravamo frustrati, chiedendoci da dove venissero il rituale e la musica. Non eravamo riusciti a comprendere l’origine delle comunità adorciste nere del Maghreb, come stambelibangadiwân o gnawa. Dalla tratta degli schiavi arabo-musulmana certamente, ma da quale paese, da quale regione subsahariana? Le tracce sembravano perdute, la tradizione orale non aveva funzionato e gli scritti erano inesistenti. Ricerca dopo intuizione, poco a poco questo infame sentiero vecchio di cinque secoli ci ha portato fino in Africa occidentale, nel Senegal e allo n’döep dei Lébous.

“Tutti ci avevano avvertiti, fu terribilmente difficile entrare in contatto con loro. All’inizio viaggiavamo tantissimo, da Mbour fino a Matam, lungo l’atlantico e le sponde del fiume Senegal. Chiedevamo a tutti, dal venditore di cineserie alla polizia, finché un tassista ci ha detto che forse conosceva qualcuno, Pape Laye, maestro guaritore e custode del tempio di Rufisque. Guidando, ha chiamato Pape Laye che gli ha detto averci sognato. Naturalmente abbiamo pensato che fosse solo un’altra trappola per toubab finché Pape non ci disse esattamente il giorno e l’ora del nostro sbarco in Senegal. Io e Gianna siamo atei ma di fronte a cose del genere non c’è proprio niente da dire: eravamo a Podor e abbiamo percorso 500 chilometri di corsa per arrivare puntuali all’appuntamento che lo ndöepkat ci aveva dato a Guéréo quella sera stessa. Questo è stato il nostro ingresso nella comunità.

Ndox Electrique

Ndox Electrique.

“Lo n’doëp è strettamente praticato dal gruppo etnico lébou. Fa paura, è spaventoso e l’intera società senegalese ne è diffidente e non vuole avere niente a che fare con esso per il timore di essere posseduto dai suoi spiriti. Tanto che durante i nostri primi concerti in Senegal il pubblico non veniva o disertava abbastanza velocemente per paura che gli inni risvegliassero i loro demoni. Lo n’döep rimane intoccabile per la maggior parte dei senegalesi.

“Non è quasi mai la musica ad attrarci, quanto piuttosto il ruolo sociale che le musiche ricoprono. Come per molti dei nostri progetti, partiamo da un’estrema curiosità per la musica che ha questo ruolo sociale. Lo n’döep – ma come molte altre musiche delle tradizioni terapeutiche (possessione, adorcismo, trance, elegie, ecc.) provenienti da tutto il mondo e anche dunque dall’Africa – ci è apparso come un vettore per esplorare le cose in un altro modo, lontano dalle estetiche e canoni artistici occidentali e anche lontano dall’intrattenimento dello mbalax senegalese. Le credenze e le pratiche animiste sono profondamente radicate nella società e hanno prevalso in Senegal, creando una visione del mondo in cui le malattie mentali inspiegabili possono essere concettualizzate come il risultato di forze soprannaturali e poi curate dai guaritori tradizionali, nonostante le influenze dell’Islam e della colonizzazione. La comunità è molto attiva nel sostenersi, aiutarsi a vicenda, parlare, farsi del bene e guarire, e questo con la musica. Una resistenza comunitaria, spesso in un anarchismo applicato, non nel senso da punkabbestia ma quasi bakuniniano, dove ognuno è responsabile della società in cui vive. Il primo obiettivo era cercare di capire, il secondo imparare, il terzo suonare con loro. Tutto ciò che è seguito (registrazioni, pubblicazione e tournée) è stato un desiderio del collettivo di musicisti con cui collaboravamo.

“Non abbiamo toccato assolutamente nulla, né le armonie, né la struttura, né i tempi. Assolutamente nulla è stato ritagliato o messo in forma dal computer. Al contrario, è il computer che ha iniziato ad ascoltare lo n’döep, trascorrendo mesi a fissare punti di ancoraggio (warping) per cercare di comprenderne i tempi e le strutture, e quindi il loro ruolo durante le cerimonie. Ultimato questo lavoro di comprensione abbiamo preso in mano i nostri strumenti, lasciando poi parlare l’istinto. Le musiche dello n’döep sono estremamente violente – lo siamo stati dunque anche noi.”

Il successivo album a nome Putan Club, in formato CD e doppio vinile, è Filles d’Octobre, un live registrato all’Amplifest 2022 che si è svolto a Porto. Nel disco compaiono pezzi originali, da cui si evince tutta la vostra energia performativa autenticamente iconoclasta. Parlateci delle energie vissute e trasmesse al pubblico in quel momento. Come avviene l’intenzione di pubblicare quella testimonianza?

“Testimonianza è la parola giusta, volevamo documentare quello che era diventato il Putan Club dopo piu di 700 concerti e l’Amplifest era il posto giusto, un festival speciale, non tanto per la proposta artistica (avant-rock, metal) quanto per l’etica, la lungimiranza e la gentilezza della crew. Quando dici “energie trasmesse” tocchi di nuovo il punto giusto: è anche essa una cosa imparata dai rituali studiati, dove non c’è nessun palco e quasi nessuna confort zone, e dove la musica deve per forza portarti altrove, anche se in maniera violenta. È una cosa universale, ma volontariamente (crediamo) ben dimenticata dall’industria musicale. Come per il duende gitano: al momento dell’eseguire/comunicare non è certamente la perizia del musicista che conta ma l’impiego totale che ci mette. Per esempio Steve Vai è un baccalà mentre i Cut sono shamani.”

I brani di Filles d’Octobre hanno un ché di cinematico, si sperimenta maggiormente con gli strumenti attraverso un approccio più personale, e anche con una eterogeneità di timbri, oltre che di suoni, ogni volta in modo entusiasmante. Pezzi come Filippino, dal ritmo più scampanellante, o Arrah Arrah, caratterizzata da una rabbia euforica tutta mistica, offrono sempre esempi diversi di una sardonica eleganza, mentre dall’aspetto più contemporaneo è Meyduse, in cui si alternano un hook da cassa dritta, e linee post-punk/industrial più tiepide, di ghiaccio pungente. Come nasce questo stile espressivamente caldo e dinamico? Per caso un effetto dell’elemento live delle registrazioni?

“Trans-generi: avant-rock, ethno, techno, flamenco, Olivier Messiaen, Keiji Haino o DaY-már. È la musica che ci affascina e non le sue chiese. Il Putan Club non è un gruppo ma un banco di prova ed è inteso come cellula di resistenza caratterizzata da una modalità di azione (di forza in vari luoghi) molto vicina alle prime trame dei partigiani europei durante l’ultima guerra mondiale e oggi degli oppositori di tutto il mondo. La resistenza è organizzata con i mezzi arcaici e immediati del nostro secolo: voci e voci elettriche, carri armati e parole contate, come dire dalla pittura rupestre al concettualismo più audace, dall’avant-rock alla musica classica contemporanea, dalla ferocia tribale alla techno più brutale, dal bacio in bocca al calcio in culo. Il concerto esacerba tutto questo solo perchè ci siete voi.”

I titoli dei vostri due album, Filles de Mai e Filles d’Octobre, si riferiscono a eventi storici, concernenti rivoluzioni dal basso, ovvero per il secondo la Rivoluzione d’Ottobre contro il governo zarista russo combattuta dai bolscevichi nel 1917, e per il primo probabilmente il periodo di intensificazione della contestazione politica e sociale avvenuta nel Maggio 1968. Potete dirci in che modo siete legati a tali eventi o ad altri a cui fate riferimento più nello specifico?

““Filles” è inteso come “figlie” con il significato di eredità. Siamo ultra legati a tutto quello che potrebbe far cadere questo regime capitalista e dunque fascista internazionale, da insurrezioni come i gilets jaunes, a qualsiasi rivoluzione che non sia organizzata per ricreare un altro mondo neoliberale o religioso. Ma sostenere idee di auto-organizzazione, mutuo aiuto e solidarietà, sviluppo sostenibile, stili di vita rispettosi, anti-autoritarismo, autonomia, femminismo e altre iniziative che mirano a creare una società più giusta e libera. Se ti opponi a qualsiasi forma di discriminazione sociale e opinioni che generano discriminazione, odio o divisione e supporti le persone che dicono no al razzismo, al sessismo, all’omofobia, alla xenofobia, alla politica di partito, al capitalismo e alla religione organizzata, ti suggerisco di rimanere in contatto.”

 

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