Faintin’ Goat è un duo di Benevento formato da Alessio Del Donno (voce, chitarra, synth) e Daniele Pescatore (synth, effetti), e di fatto attivo verso la fine degli anni ’10 del Nuovo Millennio. La poetica del gruppo è contrassegnata da una techno acida e noise con elementi psichedelici (influenzata dalla precedente militanza di Alessio nei 23 And Beyond To Infinite) che ha raggiunto livelli idealmente esacerbanti con l’ultimo album del 2022 Failin’ Gods (pubblicato per le seguenti etichette: Dirty Beach, Bulbless, Oh! Dear e l’etichetta greca E.C.T.). Il primo album, che è un’autoproduzione, ovvero Monomania, è stato pubblicato nel 2018, e una componente più classicamente psych fa da sfondo in questa prima fase del duo beneventano.
Parliamo di seguito del percorso creativo dei Faintin’ Goat con Alessio Del Donno, focalizzandoci soprattutto sul loro album del 2022 Failin’ Gods.
Monomania, il vostro primo album, attinge da un rumorismo più astratto e meno acido, molto spesso polimorfo e denso di forme in movimento. Se Worm è più periodica e decadente nel suono, Deep Dream manifesta in suo nichilismo in modo opposto, attraverso una mefistofelica vitalità. Elementi che si faranno sentire nell’album successivo, ma con un filo conduttore più evidente e con una maggiore attitudine per movimento attraverso le forme sonore techno in senso eterodosso. Come nasce in voi questo sviluppo da un concetto di musica all’altro e se è stato intenzionale?
“I nostri primi approcci alla sperimentazione e composizione sono stati focalizzati principalmente sul creare atmosfere tribali con soluzioni ritmiche semplici ma ossessive e synthetizzatori bassosi e ben cadenzati. Worm ne è un esempio, è tutto molto ossessivo con alcuni sbalzi di tensione on-off prima di un finale più acido che però mantiene la stessa cadenza con una tensione maggiore. Deep Dream è effettivamente uno dei brani più vicini sonoramente a Failin’ Gods, e forse ne ha anticipato qualche spunto. È stata una decisione chiara, volevamo giocare un po’ di più con suoni elettronici e strutture più articolate e “trasformare” la parte tribale in qualcosa di più.”
La OST del cortometraggio La Noce, in collaborazione con Atto Seguente e Oisel, conferisce più spazio all’immagine in movimento in maniera più omogenea ed ambientale. Le due tracce che più vi appartengono, Lost In Minerva e Carburanti del Capitale, creano un paesaggio ritmicamente denso e dinamico (più la prima traccia) o industriale e dal sentimento distopico (più la seconda). La traccia in collaborazione con Atto Seguente, My Generation’s Wrong è caratterizzata da un’atmosfera lounge jazz con elementi sghembi e decadenti, nella sommatoria un prodotto inaspettato all’interno della vostra poetica. Parlateci di come la musica è stata scaturita dalle visioni e idee del cortometraggio a cui avete lavorato.
“Quando ho terminato le riprese de “La Noce”, il mio primo pensiero in parallelo all’inizio del montaggio è stato di creare le colonne sonore. Abbiamo lavorato a “Lost In Minerva” pensando a “una musica per un tunnel che va velocizzandosi sempre più”, dove le immagini di riferimento dal corto erano riferite al protagonista che, camminando al Giardino della Minerva (orto botanico di Salerno) si scontra con immagini della “teoria degli umori”, e da lì a poco acquisisce consapevolezza sul passaggio tra una fase e l’altra della sua “malattia”. “Carburanti del Capitale” voleva essere una marcia noise incalzante, ed accompagna una sequenza di atti quotidiani e ripetitivi del protagonista, nei suoi “cambi di routine” alla ricerca di un nuovo equilibrio per il corpo malato.
“A proposito di “My Generation’s Wrong”, quando con Atto Seguente (aka Andrea Vernillo), ci siamo incontrati in sala prove, avevo in mente di suonare un blues-sgangherato un po’ “maledetto” e notturno. Inizialmente presi come reference “Nightclubbing” di Iggy Pop e vidi che la ritmica e l’atmosfera del brano legata alle immagini del pre-montato erano un buono spunto, ma ci voleva qualcos’altro. Suonando, decidemmo di aggiungere un testo semplice ed immediato. Andrea se ne uscì d’improvviso con la frase: “My Generation’s Wrong and my tiny time is gone. ‘Cause it follows the rules of Cola”. Le altre parole le ho aggiunte di getto pensando alla vita del protagonista, già descritta in sceneggiatura. È un brano atipico perché la priorità era creare qualcosa di utile al cortometraggio, lo stile è stato una conseguenza. Suonare in featuring è un’occasione perfetta per questo tipo esperimenti, poi slegarti dalle sonorità e dalle forme a cui sei solitamente abituato per aprirti a nuove esplorazioni sonore.”
Parlateci della nascita di Failin’ Gods, dopo il 2018 di Monomania e il 2020 della OST de La Noce, e il vostro percorso attraverso il periodo quasi in penombra della pandemia.
“Nei primi mesi della pandemia ci siamo trovati entrambi a Benevento. Come per moltissimi creativi, è stato anche per noi un momento per darci il tempo di stare giornate in sala prove a suonare. Avevamo già composto Cuntinuous Annoyance e buttato giù parecchi spunti, il terreno ci sembrava fertile ed eravamo convinti che dovesse essere quello il punto di partenza per suonarne altri. Così, tra alla fine del 2020 ed i primi mesi del 2021, abbiamo finito di comporre e successivamente registrato il resto del disco. Nel mentre, entrambi ci siamo trasferiti in altre città e vissuto lontani per un po’, dunque non ci restava che preparare una serie di live per presentarlo, e quello si poteva fare facilmente anche a distanza.”
Il disco si apre con Killing Social Moods, brano dalle tinte più costanti ed emblematicamente elastiche all’interno del vostro stile. Vi è inoltre una certa inclinazione verso un suono consonante, ma in ogni modo acido e netto. L’intenzione era creare un pezzo a maggiore impatto nell’album, che trattasse il tema della dipendenza dai social network?
“Per Killing Social Moods ci eravamo detti “perché non facciamo un brano breakbeat?”. Daniele ha trovato un bel suono-preimpostato nel synth, l’ha modificato un po’, inserito in una sequenza e creato il tema principale, intanto io lavoravo ad una drum machine con un groove pieno ma carica di suoni strampalati. Abbiamo suonato entrambi gli strumenti assieme, limato qualche suono di pentolame di troppo e distorto ancora di più la batteria. Dal momento che ci sembrava un suono molto pieno, abbiamo pensato fosse inutile aggiungere anche la chitarra, quindi ho scritto un testo ironico pensando per lo più ad assonanze sonore che “rappate” potessero incastrarsi con il resto della base. Il pretesto del “social mood” ci sembrava divertente. Il risultato ci è piaciuto.”
Il pezzo successivo, Declaration, si diversifica ulteriormente, formato da pattern di synth e campioni complessi, poliformi e difformi tra loro. Si entra nel vivo del lavoro, e sarà possibile rintracciare pattern sempre diversi, ed anche sample (come la successiva Sweat, o il collage Twist your Gaze Twice And Reverse It While Learning To Read) che saranno un valore in più in merito alla volontà di sperimentare. Come nasce in voi questo intento alla diversificazione?
“L’intento è piuttosto semplice. Cerchiamo di focalizzarci più su quello che i brani di volta in volta ci suggeriscono di fare mentre li scriviamo, piuttosto che pensare anteriormente a delle forme precostituite. Questo ci permette di creare in maniera molto libera e di capire, o più precisamente, “sentire” come ci suona meglio un brano e quindi le sorti della sua evoluzione.”
CUNTinuous Annoyance è un pezzo più lateralmente psichedelico; si gioca con un’elettronica obliqua ma allo stesso tempo minimale, ricalcando con cartacarbone un brano dancefloor, e in contrasto con uno sviluppo centrifugo, destinato ad un più attento ascolto. Il pezzo in esame sembra scomporsi sempre più, convergendo in una forma più rarefatta verso una parte vocale parlata, e terminando in maniera sospesa, quasi idiosincratica. Parlateci un po’ della genesi del pezzo e della sua psichedelìa quasi deforme.
“CUNTinuous Annoyance è uscito in maniera abbastanza istintiva nel giro di poche prove e frutto di molteplici sessioni di improvvisazioni basate sull’ossessività della ritmica. A furia di suonarlo, ci rendevamo conto che ogni volta ne uscivamo totalmente ipnotizzati. Definita la prima parte del pezzo, facevamo durare le sessioni di improvvisazione della seconda parte anche fino ai 15-20 minuti. Senza perderci ulteriormente, abbiamo definito le parti che ci piacevano di più ed abbiamo registrato il tutto. Abbiamo mantenuto questa idea: il brano “vero” dura due minuti, il resto è una “caduta libera” che consuma se stessa nel suo ripetersi. È effettivamente il brano più psichedelico e “noise” del disco.”
In Sounds Good la melodia è costante, riverberata e voluminosa, proveniente da un luogo remoto, per poi aprirsi in maniera più dinamica e acuta, quasi scampanellante. Infatti nell’album si percepisce questo contrasto tra suoni alti e gravi, in riferimento a prima sono frequenti nell’album linee sonore larghe, periodiche e adulte, e al tempo stesso vi sono sperimentazioni non convenzionali, che sembrano provenire da un entroterra personale, attingendo in particolar modo ed in parte dal noise rock. Il sound ha una sua originalità nei pattern o nelle armonie, ma soprattutto è molto interessante la loro combinazione, mirata e piacevolmente esacerbante. Come nasce in voi questa creatività nel combinare e manipolare forme pre-esistenti o proprie?
“Abbiamo pensato che ci voleva un “pezzo pop” all’interno del calderone industriale e noise di Failin’ Gods. “Sounds Good” ha una linea ritmica semplice, una sequenza bassosa di pochissime note, una chitarra pulita e riconoscibile, forse contaminata dai miei anni psych-garage con i 23 and Beyond the Infinite… questo è stato il nostro mix per un pezzo che dovesse – appunto – “suonare bene”.”
L’ultima traccia, intitolata @#%&/$!?, in maniera ironica vuole unire forma musicali in senso proprio con metalinguaggio, nel senso che vengono indicate delle istruzioni da parte di voci automatiche all’ascoltatore in conclusione del disco, con sottofondo un pattern di synth ricorrente, che in parallelo varia in senso caotico. Parlateci di come avviene l’idea del pezzo.
“Non ci abbiamo ragionato troppo. Tra una prova e l’altra, cercando nuovi spunti compositivi, quella sequenza tornava di tanto in tanto ma non ci aveva mai abbastanza convinto. Eppure, era particolarmente buffa. Così, un bel giorno abbiamo pensato ad un disco inceppato, un glitch digitale o qualcosa che sembrava non funzionare a dovere ed il brano è uscito da sé. E poi, un pizzico di dada-nonsense-interattivo di fine disco ci voleva…”