Gli anni ’80 sono stati una fucina incessante di musica dalle interessanti peculiarità; autoproduzione, originalità compositiva, denotando una certa propensione verso suoni più veloci e diretti, bassa fedeltà e carenza di tecnica d’esecuzione, minimalismo compositivo, impegno (anti-)politico. Senza escludere l’intenzione di stare tra amici, o tra giovani almeno, cogliendo l’occasione di suonare in una band per risvegliare le coscienze. E tutto questo può succedere nelle grandi metropoli cosmopolite, ma anche, diciamo così, nella provincia di un paese come l’Italia, dove ce n’era più bisogno con i suoi mille problemi. Proprio come gli Act, una band della “porta accanto”. Nati a Taranto agli inizi degli anni ’80, debuttano alla Villa Peripato per poi continuare a fare concerti in casa, ma anche e soprattutto esibizioni fuori il tarantino (come per esempio allo Slego di Rimini), inoltre da ricordare la partecipazione ad un festival di psichedelia a Bari insieme a Sick Rose e Not Moving. Dopo due cassette, Acid Five e Upset The World, nell”86 pubblicano su vinile il mini-album Dreams Aren’t Useful, lavoro per la torinese Toast che si colloca tra suoni psych-garage (generalizzando) e incursioni verso altre sonorità tipiche dell’epoca (new wave, jangle pop). Dopo una demo e un apporto per la compilation Oracolo della Toast (la cover Wild Things dei Troggs) nell”88, e lo split con i Kina, Mondo Mai Visto nel 1991, smettono di esistere cadendo quasi nell’oblio ma lasciando un segno indelebile nell’inconscio magnogreco.
Ed ecco quindi che parliamo di loro, di una comunità vitale che deve tornare, che attraverso l’attività ludica della musica scuote le persone in tutti i sensi. Abbiamo scambiato due parole con Fabio Petrosillo, bassista e membro fisso della band ionica, che ringraziamo per la sua disponibilità e gentilezza. Le sue parole fanno luce ad un oscuro e piccolo mondo tutto da scoprire.
GP: Come nascono e si sono sviluppati nel tempo gli Act, una delle prime band, se mi è concesso dire, indipendenti in territorio tarantino? Qual era il vostro rapporto col pubblico autoctono?
FP: Nel 1982 mi ero comprato un basso semiacustico sfondato Eko, e con Stefano Cazzato, ex compagno di classe delle medie e chitarrista di belle speranze (ora un apprezzato scrittore di noir – Delacroix), decidemmo di tentare di mettere su una band di rock, e cominciammo a provare con un altro compagno di classe delle medie, Massimo Miglietta, chitarrista ritmico. All’epoca a Taranto non c’era molto da fare, ci si sentiva lontanissimi da tutto quanto accadeva, tuttavia nella musica ci si avvicinava alle scene più lontane, e in definitiva il modo migliore di stare insieme era fondare una rock band. Mettemmo un annuncio per trovare il batterista (il grande Peppe Fago), e la prima sala prove fu la cucina della chiesa valdese (veramente piccola, con gli amplificatori infilati nelle credenze), la seconda fu la camera oscura di mio padre. Provammo per un annetto prima di esibirci in pubblico, così tardi solo per un caso, perché il primo concerto ci saltò. Suonavamo da Joan Jett ai Police, ai Pink Floyd, a Nena, i Knack, insomma senza gran caratterizzazione. Provavamo il più spesso possibile, una/due volte a settimana per due/tre ore, costantemente.
Il ritardo ci fece gioco, così quando ci esibimmo per la prima volta eravamo già bravini, con uno stile più ricercato (Pink Floyd barrettiani, Jam, Who) e con un piccolo repertorio di brani originali: lunghe suite psichedeliche e brevi ballate nervose. Suonammo nello spazio giovani del Festival de l’Unità, davanti a un paio di centinaia di persone, e avemmo subito una recensione positiva da parte di uno strano tipo che parlava un pessimo inglese ma faceva una fanzine splendida e ricchissima: Vittorio Amodio e la sua Urlo Wave, fotocopiata e diffusa in tutta Italia. Aveva infiniti contatti con giornalisti ed etichette indipendenti, e ci aiutò molto.
Sul rapporto con il pubblico, beh eravamo studenti delle superiori e bravi ragazzi anche se ci atteggiavamo a rockettari: un sacco di amici, ci si frequentava un pò tutti, le scaramucce tra seguaci dei vari generi musicali erano giusto una posa, ma tra metallari, dark, punk, mods, ci si apprezzava se la musica che ascoltavi era buona. E all’epoca ce n’era di musica buona, dalla Gran Bretagna, dagli States, dall’Australia.
Le band giovanili erano tante, decine e decine, e nelle sale prova ci si fidanzava (io no), tra le band invece un po’ di competizione c’era; solo negli anni ’90 provammo a collaborare tra band a organizzare insieme eventi, jam session, festival, riuniti nell’associazione Note Stonate, federata all’Anagrumba.
Tra i giovani eravamo apprezzatissimi, non so dirti perché: forse sembravamo quasi una band seria..
Quando suonavamo di spalla ai Diaframma, ai Litfiba, comunque facevamo la nostra figura, una band di provincia non provinciale, la mia autostima tuttora attinge all’entusiasmo di quelle serate.
GP: Utilizzando un termine abbastanza generico, il vostro sound “psichedelico” è stato puntuale rispetto i tempi; quest’ultimo infatti ha racchiuso diverse tipologie di generi in voga in quel decennio: si pensi a intuizioni orientate verso la tradizionale new wave, garage, suoni jingle-jangle (mi vengono in mente i vostri contemporanei Out of Time, torinesi, come la Toast Records ovvero la casa discografica che vi ha pubblicato Dreams Aren’t Useful). In più, con lo split insieme ai Kina, è cambiata la formazione (si è aggiunta una tastiera e una voce femminile), convergendo verso una convinta attitudine soul. Da dove scaturisce questa varietà e cambio di generi?
FP: Beh i cambi di formazione erano tumultuosi: i vari ego facevano scintille, e ci si cacciava spesso. Quando entrano Fabrizio Carrieri (con Chiara Bellomo, in seguito leader delle Cheerful Boys) e poi Gisberto Nicoletti sicuramente ci si sposta verso sonorità prima garage punk e rock’n’roll, poi soul e addirittura un po’ funky.
Nuovamente con Stefano, un annetto direi post new wave, e poi (’88) cominciamo a suonare con due voci femminili, entrambe significative: Francesca Esposito (che ora anima una scuola di musica popolare a Bologna) e Grazia Maremonti (che tuttora canta delle cose meravigliose), enfatizziamo dunque la caratterizzazione soul e power pop (con Cristiano Zucchetta alle tastiere e Antonio Romeo alla chitarra).
GP: Fabio, in Dreams Aren’t Useful le tue linee di basso mi ricordano molto quelle più classiche di Mike Mills dei REM. E’ casuale oppure avevi un rapporto speciale con la band della Georgia?
FP: I REM mi piacevano certo, ma i miei riferimenti al basso erano soprattutto Bruce Foxton (dei britannici Jam di Paul Weller), Steve Kilbey (degli australiani Church), Donald Duck Dunn (Booker T. & MGs), John Entwistle (Who) ma ovviamente inarrivabile (una sola volta ricordo di aver fatto decentemente l’assolo di My Generation, ed era in pubblico – ho i testimoni), ma anche Paul Simonon (Clash), Andy Rourke (Smiths), Tina Weymouth (Talking Heads), i newyorkesi Blondie, i losangeleni Plimsouls..
Ricordo che nonostante tutto questo popo’ di riferimenti, su Dreams Aren’t Useful il basso non venne benissimo giacché mi feci convincere a suonare su un Precision con la tastiera molto più larga di quella a cui ero abituato, ahimè. Suono migliore ma non il mio tocco.
GP: Negli anni ’80 Taranto non se la passava tanto bene: la crisi del mercato siderurgico fece abbassare la manodopera all’Italsider, in più era molto sentito il problema della tossicodipendenza nei più giovani. Mancava soprattutto una cultura che potesse avvalorare la lotta a questi problemi, soprattutto ad una meccanicizzazione dell’attività umana che imponeva a molti cittadini un’industria più grande della città stessa. La cultura musicale indipendente ha giocato quel ruolo, e gli Act certo non si sono sottratti a quel spontaneo compito. Perché il progetto The Act si è sciolto? Sentivate comunque la necessità di portare avanti quel progetto?
FP: Ricordo dei versi di una mia canzone mai incisa di trent’anni fa, che cantava di ruggine e rabbia nei polmoni, e disperazione e nostalgia di un futuro irraggiungibile. Erano versi tragici, e lucidissimi.
Ce ne saremmo dovuti scappare ad un certo punto, per fare il salto artistico; io racconto sempre che riuscimmo a non fare molto più che passare dall’essere “del tutto sconosciuti” al diventare “quasi del tutto sconosciuti”. Nelle prime formazioni ci fu uno sforzo enorme per cercare di sfondare (centinaia di serate, grazie a uno studente universitario che ci faceva da manager, Tommy De Mola, articoli su alcune delle maggiori testate musicali italiane), ma di ritorni – a parte gli applausi – non ce ne furono, e ci mancò il coraggio di emigrare tutti insieme subito. Forse, fossimo andati a vivere a Torino, dove c’era la Toast, con calma saremmo potuti maturare. Io onestamente non vedevo in noi, in me, grandi capacità artistiche: eravamo bravissimi nell’affiatamento, nella potenza del suono, nel fare scalette emozionanti, ma artisti veri no, non lo eravamo. Bravi artigiani del rock’n’roll, al massimo.
GP: Ricollegandoci alla domanda di prima, personalmente penso che oggi a Taranto c’è bisogno di una ulteriore rivoluzione culturale. Secondo te nel capoluogo ionico ci potrà mai essere in futuro una forte scena di un rock progressista? O per lo meno rock..?
FP: Io non vivo più a Taranto da vent’anni ormai, e anche se ci torno sempre volentieri, non direi di avere il polso della situazione.
Ve lo auguro di tutto cuore: ma molto più importante del genere musicale, è il suonare insieme; mettere su una band è il modo migliore che io conosca per passare del tempo insieme, per sperimentare rapporti sani di amicizia, progettare e costruire collettivamente una cosa semplice e delicata come una canzone.
Ricostruire l’anima di una città passa necessariamente anche attraverso questo.