TARANTO: VOLTAGE CONTROL E TEATRO VERDI
di Giovanni Panetta
Intervista collettiva ai protagonisti di Voltage Control; Angelo Losasso, Stefano Tocci, Gisberto Nicoletti e Sergio Natale Maglio si esprimono sull'esordio new wave di Taranto.
Panama Studios 1984.

Panama Studios nel 1984.

La Taranto new wave – termine con il quale indichiamo la famiglia di gruppi in terra bimare degli anni ’80 come Panama Studios, The Act, Vena, Lilith, Ogige, No Codex, etc, insieme ai loro derivati – ha rappresentato un nucleo idealista e attivo di musicisti che operava in maniera anticonformista in quella che fu denominata la “provincia dell’Impero”. Taranto in quegli anni viveva un periodo di penombra, contraddistinto dal buio dell’asfissiante siderurgico Italsider, la tossicodipendenza che incombeva nel mondo giovanile (e che procurò quasi ogni anno in tutta Italia migliaia di morti), e la criminalità organizzata che favorì quel processo; a contrastare tale deriva oscura vi era la musica del luogo, sorprendentemente fervida. Dopo gli anni ’70, contraddistinti dalle emittenti locali e amatoriali radiofoniche, esordì da parte di alcuni la volontà di dare un contributo molto più creativo, operando come rappresentanti di quella nuova ondata di matrice inglese/americana, ma attraverso un apporto il più possibile eterodosso. L’associazione culturale Voltage Control (legata al Partito Radicale tramite la cooperativa AUT-SPA), di cui faceva parte l’agitatore in più sensi Angelo Losasso di Panama Studios, generò quel primo fermento musicale nel 1981, attraverso una prima rassegna del 4 Aprile a Piazza della Vittoria con Ogige e Swindle di Taranto, il gruppo punk Bloody Riot di Bari, e i Pub 32 di Molfetta. Altre manifestazioni di quel fervore avvennero nel 1982 con l’esordio di concerti, proiezioni di documentari e film legati alla musica al Teatro Cinema Verdi. Uno spazio abbastanza grande (trecento posti) che vide protagonisti la maggior parte di quei protagonisti con eventi iconici e movimentati, e che ha visto esibirsi diverse realtà tarantine e non solo come Panama Studios, Amft Machine, Masokotanga, Eisenhower, Xeno, Kranio, Skizo, etc…

Tessera Voltage Control.

Tessera dell’associazione Voltage Control.

Tali eventi, che vogliono ricoprire una parte degli anni, sono un seminale avviamento verso il Gemellaggio Taranto/Pordenone, grazie ai movimenti Mackinario Retrò e The Great Complotto, organizzato da Sergio Natale Maglio (dentro Mackinario Retrò e all’ora del CSPCR, un ente legato alla Regione Puglia) e Ado Scaini (che operava in The Great Complotto), che vedrà esibirsi gruppi dell’area friulana in terra ionica e, viceversa, band tarantine nel dominio in cui operava la cosiddetta Terra Di Naon, ovvero per l’appunto The Great Complotto, con cui si denominava un gruppo di agitatori culturali che si opponeva alla dipendenza e al monopolio della droga. Mackinario Retrò sarà un’operazione che replicherà quella realtà, e un tentativo più esplicativo avverrà con la stessa Voltage Control nel 1982, attraverso una mostra fotografica che metteva a confronto il fenomeno della tossicodipendenza nelle case occupate di Berlino con quello urbano di Taranto, arricchita di testimonianze scritte di quelle sfortunate vittime.

Un pagine scritte della Storia di Taranto, quelle di Voltage Control, che vanno approfondite attraverso le testimonianze che abbiamo direzionato e estrapolato da una parte di quei protagonisti, ovvero Angelo Lo Sasso, Stefano Tocci (Amft Machine, Vena), Gisberto Nicoletti (Masokotanga, The Act) e Sergio Maglio.

Cominciamo a parlare delle intenzioni di Voltage Control e del suo contesto. Che tipo di supporto volevate dare alla cultura e intrattenimento dell’area ionica o pugliese? Inoltre mi piacerebbe sapere come si colloca la vicinanza dell’organizzazione al Partito Radicale; quale motivazione ideologica in quel senso c’era dietro?

Angelo Losasso: “Partiamo dal fondo. Il partito radicale, alla fine degli anni settanta, giocava un ruolo importante ed energico come presidio di diritti umani e civili. Era molto in sintonia col contesto delle forze politiche della “sinistra rivoluzionaria”, dei gruppi della sinistra extraparlamentare come Lotta Continua, del movimento studentesco, di quello operaio e delle esperienze già mature di una aggregazione giovanile critica e creativa, che affondava le radici in tutta la cultura rivoluzionaria e di avanguardia del ventesimo secolo.

“Noi provenivamo sostanzialmente da questo contesto.

“Per la precisione, eravamo stati molto più vicini a Lotta Continua e ai movimenti giovanili di cui sopra. I radicali però, come noi, si spendevano molto. In particolare erano molto presenti nelle lotte ambientaliste, antinucleari, civili e culturali, sempre cercando di affermare la visione profonda e lungimirante di un antiproibizionismo che puntava a sottrarre il monopolio degli stupefacenti ai grandi narcotrafficanti e alle mafie del pianeta. Visione che mirava a ridurre al massimo il danno causato dalla circolazione illegale delle droghe sul piano sociale, sanitario, giudiziario e umano. Per quanto con loro avessimo quindi un rapporto proficuo di crescita e scambio reciproco, in realtà non eravamo né iscritti, né militanti del partito.

“Il fatto di averci supportato con la loro cooperativa culturale (AUT-SPA), fu la dimostrazione del loro interesse per i nostri progetti, della loro sensibilità verso le problematiche che ponevamo, della loro capacità di condividere e supportare certi percorsi cittadini ispirati al cambiamento. In particolare tre militanti del partito radicale di allora (1981), Mario Peruggini, Mimmo Urselli e Luigi Lincesso, non solo ci supportarono legalmente e giuridicamente, ma dettero al progetto Voltage Control/Panama Studios un contributo determinante anche sul piano economico.

“Per quanto riguarda il progetto in sé, cerco di sintetizzare.

“Gli anni settanta, pur con l’immensa fioritura culturale, creativa e sociopolitica che erano riusciti ad esprimere, alla fine, si erano drammaticamente trasformati ne “gli anni di piombo”, fenomeno complesso e capillare, che andrebbe approfondito e su cui mai si conoscerà il vero, intricatissimo intreccio reazionario e restauratore. La rivoluzione, che poco tempo prima pareva essere solo questione di mesi, era mutata in qualcosa di altro, in un contrarsi perdente, che non ci apparteneva. Il capitalismo preoccupato, già da un po’ contrattaccava con forza. Lo spazio per il disimpegno, il cinismo e la rinuncia cominciò a dilatarsi esponenzialmente. Fu quello che, rispetto al movimento in declino, venne definito “riflusso”. Le utopie si capovolsero e nella maggior parte dei casi si inabissarono. La rabbia salì alle stelle e con essa un terribile, irrazionale individualismo, che frammentò le idee, i consessi, la società. La disgregazione fu l’inevitabile conseguenza del disintegrarsi di una grande visione libertaria e collettiva. L’eroina prese possesso anche delle menti migliori. Il sistema si accingeva a neutralizzare la controcultura, metabolizzandola e rendendola luogo comune depotenziato. Noi, alla periferia dell’impero, tentammo di salvarci, non sempre con successo, ma le idee che mettemmo in cantiere partivano dalla musica, dalla cultura, dal diritto, dalla visione critica di una società dei consumi sempre più metropolitana e stritolante, dal valore dell’aggregazione e del senso critico. Cercammo di riannodare I fili con il recente passato, politicamente impegnato, libertario, inclusivo e lo facemmo cercando di riaggregare attorno alla musica, (che all’inizio degli ’80 era uno dei linguaggi più energici e vitali e che ancora era in grado di veicolare contenuti e referenti rivoluzionari), le fasce giovanili, che per altro proprio attraverso la musica tentavano di tenere alta la testa, in ogni quartiere della città. Voltage Control voleva dunque essere un tentativo di riorganizzarci, di creare un itinerario artistico e culturale che ci potesse ridare fiato e slancio anche sul piano sociale e politico. Realizzammo una sorta di censimento dei gruppi e delle realtà musicali della città e del territorio provinciale, rivolgendoci anche al resto del territorio regionale e cominciammo a cortocircuitare queste realtà tramite happening e concerti. Questi eventi volevano essere propedeutici alla realizzazione di un progetto complessivo, che avrebbe riguardato anche le amministrazioni e le principali istituzioni locali, e che mirava alla creazione di “laboratori urbani” (decisamente ante litteram), nei quali le pratiche espressive avrebbero dovuto svolgere da catalizzatori per un ripristino della comunicazione, della relazionalità e della condivisione. Ciò purtroppo si verificò solo al principio, tanto che i primi due anni totalizzammo più di quattromila tesseramenti all’associazione. Poi la politica contraria, il disimpegno di molti, l’idea che un centro commerciale in periferia fosse più importante di un centro culturale, la dipendenza dalla monocultura dell’acciaio, la conseguente diffusione di pratiche giovanili autodistruttive, sebbene comprensibili, segnarono nell’arco di tre, quattro anni, la conclusione di quella bella e promettente esperienza.”

Locandina del concerto al Teatro Verdi del 9 Aprile 1982.

Teatro Verdi.

Locandina del concerto al Teatro Verdi del 9 Aprile 1982.

I Panama Studios sono ben collocati nella loro cornice post-punk, superando quei parametri attraverso un uso abbondante e sapiente dei synth e drum machine, attraverso un lirismo matematico che caratterizzava la vostra musica come unione di due polarità. Una ricchezza della popular music tarantina nascosta e peculiare che spero emerga presto, in modo da far conoscere il nostro effettivo potenziale. Qual è il corso del progetto? Ci vuoi parlare di quali erano gli effettivi punti di riferimento e come siete diventati maestri di voi stessi?

Angelo Losasso: “I Panama Studios avevano origini lontane nel tempo. In qualche modo furono l’evoluzione di una amicizia nata nei primi anni settanta. Con Vito Lorusso e Paolo Zanella, fin da ragazzini, avevamo scelto l’universo musicale come contesto principale della nostra evoluzione esistenziale, prima come ascoltatori e poi attivamente. Eravamo fortemente ispirati dalle avanguardie del blues, del rock e del jazz-rock e già da allora eravamo tremendamente affascinati dagli strumenti elettronici, ancora molto primitivi. Fummo letteralmente travolti da tutto ciò che tra metà anni sessanta e metà settanta era stato prodotto in tutto il mondo, dal punto di vista musicale e culturale in genere. Inevitabilmente, coi mezzi rudimentali di allora, ci lanciammo alla scoperta non solo di ciò che nasceva in tempo reale, ma anche delle radici e delle connessioni trasversali, crossmediali, interculturali di tanta creatività. Imparammo ad annetterci alle avanguardie del primo novecento, al jazz e al free jazz, ai contesti artistici sperimentali, all’uso creativo dell’elettronica e contemporaneamente a filosofie di vita anticapitaliste, antirazziste, antiproibizioniste, antisessiste, contrarie a qualsiasi discriminazione pregiudiziale e indirizzate al rinnovamento della cultura, della società e dei processi di produzione e distribuzione.

“Quando nel 1981 fondammo i Panama Studios, dopo aver conosciuto e coinvolto Fabio Albano (chitarrista, tastierista e cantante), più giovane ma molto interessante dal punto di vista musicale ed umano, il mondo musicale e culturale stava ricominciando ad eruttare fenomeni meravigliosi. Noi cercammo, come molti, di sintetizzare nel nostro progetto il bagaglio preesistente, da cui non sarebbe stato possibile separarci, con le novità che stavano emergendo, come tu dici, nell’immediato post-punk. Gli strumenti elettronici furono i nostri utensili prediletti, ma l’idea complessiva, fin dall’inizio era di non chiuderci nello steccato di alcun ‘genere musicale’, di continuare a sperimentare in ogni direzione e di cercare uno stile il più possibile personale. Già con le menti espanse entropicamente a 360 gradi sui molteplici panorami delle sperimentazioni espressive dell’ultimo secolo, eravamo fortemente convinti che identificarsi in un ‘genere’ fosse un modo per racchiuderci in confini troppo stretti ed asfittici. Piuttosto, fin dal principio, seguimmo la spinta a mescolare gli stilemi e gli elementi dei diversi linguaggi musicali, a ibridarli includendo e valorizzando il “rumore” come terreno ancora poco esplorato e cercando di spingerci fuori dai contesti melodici, armonici e ritmici più consueti. L’organico fin da subito fu quasi esclusivamente elettronico, perché i sintetizzatori ci avrebbero permesso di creare tavolozze timbriche personali, senza condizionamenti troppo pressanti. Con i sintetizzatori, e, da lì a un paio d’anni, con i campionatori digitali, potevamo imitare diverse timbriche, personalizzandole, riplasmandole e sabotandole nei loro equilibri percettivi interni. Potevamo per altro creare suoni spesso del tutto inediti, cercando di allargare al massimo le nostre possibilità espressive e creative. Io, Vito Lorusso e Fabio Albano gestivamo tre postazioni elettroniche composte da sintetizzatori, generatore di ritmi, sequenzializzatori e campionatori. Paolo Zanella suonava una arcaica ma efficace batteria elettronica analogica. Fin da subito ci fu un bassista (Tonio Balzo prima e Piero Cosa poi) e dopo un anno inserimmo un chitarrista (Gianni Losasso). Cantavamo tutti. In alcuni concerti, dal 1982 in poi, ospitammo anche una line up di fiatisti ‘filtrati’ (Aldo Scatigna – tromba, Tonio Galasso – sax tenore, Franco Spina – sax baritono, Gianni Cellamare – sax contralto, Piero Monopoli – sax tenore). Il progetto era accurato e lo amavamo molto. Tra il 1981 e il 1985, anno dell’inizio della nostra crisi, scrivemmo moltissimi brani e producemmo un corposo repertorio, per altro dignitosamente apprezzato nei concerti in giro per l’Italia. Devo dire che alla base del nostro lavoro creativo ci fu un continuo lavoro di aggiornamento e approfondimento dell’uso delle tecnologie musicali, sempre più incalzanti, con l’allargarsi del panorama digitale. I riferimenti musicali erano moltissimi, fare un nome darebbe vita ad una catena infinita. Preferisco stringere dicendo che eravamo interessati a tutto ciò che creava alternative di approccio alla musica, indipendentemente dai periodi storici, dalle localizzazioni geografiche ed etniche, dai tipi di organici strumentali. Dagli Impressionisti di fine ‘800 al punk e alla new wave, da Eric Satie ai Devo, a Robert Wyatt, ai Pere Ubu. Da John Cage ai Led Zeppelin, a Brian Eno, Robert Fripp, Peter Gabriel, Talking Heads, Japan. Mi fermo, se no potrei non smettere più. I primissimi ricordi musicali che ho, dell’età veramente infantile, grazie alle scelte consigliate da mio fratello maggiore, sono I Beatles, I Rolling Stones, il Rythm&Blues, Frank Zappa, Jimi Hendrix, i Pink Floyd, la scena di Canterbury, il primo rock progressivo, il jazz elettrico di Miles Davis e dei Weather Report. Immagina l’effetto dirompente che tutto ciò poteva imprimere sulla mente e sul cuore di un ragazzino di otto, nove anni, già possessore di una batteria giocattolo.”

Panama Studios

Panama Studios. Da sinistra a destra: Turi Stigliano, Paolo Zanella, Angelo Losasso, Vito Lorusso e Fabio Albano.

Panama Studios a Pordenone.

Panama Studios a Pordenone.

Panama Studios live.

Panama Studios live nel 1982.

Angelo Losasso

Angelo Losasso (a sinistra).

Fabio Albano.

Fabio Albano.

Vito Lorusso.

Vito Lorusso.

Tonio Balzo.

Tonio Balzo.

Piero Cosa

Piero Cosa

Gianni Losasso.

Gianni Losasso.

Stefano, parlami degli Amft Machine; qual è il suo corso e che tipo di musica suonavate? So che quel gruppo fu l’origine degli Interference, e poi dei Vena, i quali delineano attraverso la loro musica (secondo le cronache riportate e le ultime produzioni) una realtà distopica dall’elemento caustico e industriale che invade in senso distopico una parte della vita umana, similmente alla condizione del capoluogo ionico. Come avviene l’esperienza nel Teatro Verdi?

Stefano Tocci: “Gli Amft Machine già esistevano, nell’ambito ‘Voltage Control’, quando mi inserii nel gruppo, ma in realtà, al mio arrivo, era solo un progetto astratto, del tipo ‘abbiamo tanta voglia di fare’. Ero appena reduce da una bella esperienza con gli Undersection, una band “iniziata” al verbo della new wave che suonava Joy Division, The Cure, The Sound, Devo e cose del genere – formata con Antonello Leogrande (voce e chitarra), Leo Tenna (basso) ed i più noti Gisberto Nicoletti (chitarra) ed il compianto Tonio Parisi (drums) – e mi aggiravo per Piazza della Vittoria, all’epoca punto d’incontro della gioventù tarantina, quando un amico mi fermò e mi chiese se io fossi un tastierista. Alla mia risposta affermativa mi presentò Francesco Maggi che appena mi vide mi disse: “tu da oggi suoni con gli Amft Machine!”. Solo un attimo dopo mi chiese “Ma tu che generi di musica suoni?”. Fortunatamente eravamo in piena sintonia per cui l’avventura ebbe inizio. Amft Machine era quindi un embrione, al momento formato da me alle tastiere (avevo un Davolisynth monofonico … ed Angelo Losasso mi derideva bonariamente dicendo che quello strumento fungeva anche da macchinetta del caffè), Francesco Maggi alla voce insieme ad una cantante che però presto si allontanò, e Roberto Quazzico al basso. La ritmica era assicurata dalla celeberrima drum machine (ormai oggetto vintage) Boss Roland, credo la DR 55, una “scatoletta” i cui suoni, insieme ai Casiotone, hanno un po’ caratterizzato l’epoca, correva l’anno 1982. Inevitabilmente (ma con orgogliosa consapevolezza) la produzione era musica elettronica, il suono era oscuro, grezzo ma incisivo, secondo l’insegnamento dei Suicide (Martin Rev e Alan Vega), e Francesco Maggi fin da subito dimostrò le sue doti di singer, con evidente ispirazione a Peter Murphy dei Bauhaus.

“L’intesa culturale con Francesco Maggi si stabilì immediatamente, accomunati com’eravamo dalla passione per la musica elettronica (io nel mio retaggio avevo già le sonorità cosmiche dei Tangerine Dream ed Ash Ra Temple) e per le ambientazioni oscure. Il mio animo era già avvelenato dal simbolismo francese maledetto (Baudelaire, Rimbaud, Lautremont) e dall’interesse per la filosofia occulta, tema questo che in seguito conquisterà anche Francesco. Provavamo al locale della Voltage Control ed il legame con i Panama Studios ci consentì di suonare al Verdi. L’esperienza di quella sera è assolutamente indimenticabile, ci supportò alla batteria Tonio Parisi ed il riscontro del pubblico fu entusiasmante; il consenso che trovò la nostra song ‘The Shadow‘ ci spinse nella convinzione che dovevamo proseguire e progredire.”

Vena

Vena.

Vena locandina.

Locandina di un concerto dei Vena del 1984.

Parliamo dei Masokotanga, un gruppo che secondo le cronache eseguiva pezzi dei Police. Gisberto, raccontaci la storia e qualche aneddoto di questo gruppo, e in che modo per te sono stati deterministici alla successiva esperienza dei futuri The Act?

Gisberto Nicoletti: “Vi parlo dei Masoko Tanga, “tribute band” (non credo che all’epoca ci fosse questo termine) dei Police, nata all’inizio degli anni ottanta e durata una sola stagione. Eravamo da poco usciti da un ambiente parrocchiale dove avevamo avuto la possibilità di provare ma non durante il periodo quaresimale, cosa che ci spinse ad andare via, e non so perché e per come entrammo sotto la protezione e la simpatia dei Panama Studios. Si provava nel locale di via Leonida, ed eravamo accomunati dalla passione per i Police, ma anche dal fatto che eravamo fratelli e amici d’infanzia; io alla chitarra, Domenico mio fratello al basso e alla voce solista e Tonio Parisi alla batteria, che di fatto era come il terzo fratello. Eravamo piccoli d’età rispetto al resto della compagnia chiamata Voltage Control, ma non per questo già capaci di esprimere il nostro potenziale musicale. Inoltre non avevamo idea se ci fosse un movimento politico attorno; a noi bastava poter provare e suonare, e probabilmente di politica non ne capivamo ancora niente, ma in compenso ascoltavamo tanta musica, magari di diverso genere, di certo tutta quella musica che era appena uscita. Ci fu offerto di suonare al Teatro Verdi, e questo fu il battesimo del fuoco, credo, ma anche l’occasione di iniziare una serie di concerti a Taranto e in provincia, tra Feste dell’Unità e altro. Il Verdi lo ricordo come un avvenimento speciale, c’erano i gruppi che venivano da Bari, che all’epoca era un po’ più avanti culturalmente, con tutto quel movimento punk fatto di creste colorate e anfibi. Ricordo anche che in quel periodo studiavo a Bari scenografia e mi piaceva fotografare quel movimento di gente che difficilmente trovavo a Taranto. Poi le nostre strade si divisero, io approdai agli Act e alla loro psichedelìa, che nel frattempo erano rimasti prematuramente senza il cantante chitarrista, mentre gli altri due proseguirono verso strade musicali professionali e lavorative. Chssà se oggi i miei due compari fossero ancora tra noi potrebbero raccontare di altre storie.”

Masokotanga

Masokotanga al Teatro Versi. Da sinistra a destra: Tonio Parisi, Gisberto Nicoletti e Domenico Nicoletti.

Masokotanga

Masokotanga live al Teatro Verdi.

Parliamo di scene, la new wave/post-punk era suddivisa in varie realtà, ognuna con un genere peculiare; tra cui alcune delle più importanti erano: Manchester, Londra, Sheffield, Leeds… Nasce un dibattito se Taranto rispecchiasse quelle caratteristiche, e se il suo contributo fu rilevante almeno nel contesto locale; dal vostro punto di vista, quale compito vi sentivate di svolgere in quegli anni?

Stefano Tocci: “Penso che la scena tarantina all’epoca fosse vivace e ibrida nei suoi contesti. Non c’era un solo filone tematico o stilistico a farla da padrone, ma ogni artista o semplice appassionato portava il suo contributo in modo libero, spontaneo e comunque gradito, in quanto motivo di arricchimento per tutti. C’era il confronto culturale, vissuto sempre con grande ironia, tra chi prediligeva la new wave nelle sue diverse articolazioni e chi invece si chiudeva nel “chiodo” agitando la folta chioma da metallaro, ma, tra uno sfottò e l’altro, l’interlocuzione era sempre orientata ad una maggiore comprensione, tanto che alcuni di noi ‘waver’ apprezzarono ad esempio la metal band degli Holocaust, così come alcuni metallari stimarono il suono dei Christian Death. Tra i waver poi si distinguevano coloro che ne apprezzavano il senso di novità prediligendo sonorità più pop, perseverando in uno stile di vita borghese, e quelli che invece tinsero la loro vita di nero, immergendosi nel dark più inquietante. I Panama Studios erano gli alfieri della musica elettronica, distinguendosi dai synthpopper più in voga per i temi non banali e le soluzioni compositive più ardite. I Vena divennero i cantori della decadenza e dell’inquietudine, il tutto avvolto in manti di ossessiva oscurità, forse tutto tipico per il genere dark ma vissuto con sincera spontaneità. Sullo sfondo di tutto questo c’era Taranto e la sua decomposizione, il suo progressivo avviarsi verso un futuro di morte e degrado di cui solo di recente, ‘grazie’ alla devastazione dell’Ilva, si è raggiunto un certo livello di consapevolezza.”

Angelo Losasso: “Sinceramente, la nostra determinazione a sottrarci a definizioni e canoni legati all’idea di “genere musicale” si allargava inevitabilmente anche all’idea di “scena”. Indubbiamente molte realtà geografiche inglesi, americane e nordeuropee, così come africane e asiatiche, avevano espresso innumerevoli specificità musicali e artistiche, diventando influenti punti di riferimento. Anche in Italia le realtà geograficamente localizzate divennero poli di attrazione. Bologna, Firenze, Napoli, Roma, Milano, Pordenone, Catania e altri centri e zone del paese espressero le proprie idee e si identificarono con produzioni creative apprezzabili. Il problema spesso però era che si verificavano inevitabili convergenze estetiche, linguistiche ed espressive, fondamentalmente dovute al consolidarsi dei modelli prevalenti. Questi modelli, che si affermavano per capacità e forza creativa, pur non volendo, condizionavano in qualche misura le realtà musicali conterranee, sortendo forme di omologazione ed imitazione, a volte troppo percettibili e riconoscibili. Questo limitava in qualche modo le singole autonomie inventive, spingendo verso una certa sovrapposizione di similitudini e a volte di appiattimenti canonici e verso una frequente mancanza di personalizzazione. Con i Panama Studios, fin dal principio, cercammo di restare equidistanti dalle tendenze del momento, ovviamente non sempre con successo. Cercammo prevalentemente di preservare, nel bene e nel male, la nostra unicità, e le nostre idee sull’avanguardia, che proprio perché avanguardia, dovrebbe assolutamente restare libera da processi di tipo accademico. Cercammo di tenerci alla larga da condivisioni ossessive e a volte di comodo dei parametri, dei terreni di ricerca, delle scelte relative agli strumentari e alle appartenenze. Volevamo addirittura restare indipendenti da quel suono “anni ottanta”, che già dai primi scorci del decennio si stava consolidando. Credo che proprio per la volontà di non confluire in schemi ristretti, la nostra visione di ricerca e la nostra proposta filosofica e ideologica di tipo collettivista e di condivisione, relativamente al contesto locale, abbiano avuto un ruolo di ispirazione e di stimolo piuttosto attivo. Credo che abbiano contribuito a rivitalizzare forme di consapevolezza generazionale e di lotta sociale e politica in un momento di ristagno insopportabile, tossico, estremamente individualista. Probabilmente contribuirono a dare impulso ad affrontare problematiche legate anche a tematiche specificamente giovanili, ma non solo. Punti di partenza furono la rivalutazione critica della cultura contemporanea del tempo, estremamente ricca e vitale, il recupero delle pratiche culturali ed espressive come dispositivi relazionali, sociali e di aggregazione e, in particolare, della pratica musicale, possibilmente alternativa al mercato e al gusto mainstream, come percorso al tempo stesso esistenziale, creativo e di rivendicazione.”

Al Teatro Verdi, tramite Voltage Control, ci fu un primo concerto (12 Febbraio 1982) con Panama Studios, Eisenhower (gruppo nel quale cantava Marcello Nitti, il futuro promoter dei concerti al Tursport – New Order, Bauhaus, Siouxsie & The Banshees, Ultravox, Simple Minds, The Sound, Cult e Style Council -, accompagnato dai fratelli Antonello, Fabio e Carlo Lombardi), insieme ad Ice Wall e Blues Band; un secondo concerto (Venerdì Santo dello stesso anno, il 9 Aprile) al Teatro Verdi, più movimentato con sempre Panama Studios (come fuori programma), Amft Machine, Masokotanga, Xeno, Kranio (di Molfetta) e Skizo (un gruppo punk che ad un certo punto chiamò la polizia per via di un pezzo che andò a mancare nella loro strumentazione). Mentre nel terzo evento dell’organizzazione nella stessa location ci fu l’esibizione di un gruppo tedesco Soldiers Of Fortune. Sicuramente luogo rappresentativo della new wave autoctona, al contrario del Tursport, vetrina di quel genere a risonanza internazionale. Quali sono stati gli episodi e i significati più emblematici, e cosa ha rappresentato per voi quel posto, ormai abbandonato, il quale riecheggia come ricordo.

Angelo Losasso: “Il cinema teatro Verdi era il cinema del dopolavoro ferroviario. Era una sala di seconda visione, ma non piccola, circa trecento posti a sedere, con un buon palco scenico e predisposta a sostenere le proposte che pervenivano dalle realtà culturali della città, per giunta con prezzi accessibili. Fin dagli anni settanta era stato utilizzato per spettacoli e rassegne di cinema musicale di ottimo livello, guadagnandosi il merito di essere uno dei luoghi privilegiati dalla controcultura del tempo. Ricordo che, sarà stato il 1975 o ’76, al cinema teatro Verdi vidi per la prima volta alcuni film allora leggendari e introvabili, come ‘Woodstock‘, ‘Pink Floyd at Pompei‘, ‘Zabrinsky Point‘. Bei tempi. Una volta messa in piedi l’associazione culturale Voltage Control, fu inevitabile pensare a quella sala come alla struttura ideale per lo svolgimento degli eventi che avremmo prodotto (e a cui tu fai riferimento nella domanda). Il nostro idillio con il teatro Verdi durò circa un anno. La proposta complessiva che si delineò all’interno di quella sala raccolse immediatamente entusiasmo e grande consenso su tutti i livelli. Gli eventi che vi ebbero luogo furono di ottima qualità dal punto di vista musicale e di grande e gioiosa partecipazione. Ovviamente non mancarono “siparietti” in stile punk metropolitano, una piccola zuffa tra narcisisti, ma tutto fondamentalmente in un contesto produttivo, condiviso e carico di aspettative. Per me il Verdi rappresenta un momento tra i più belli e produttivi a cui abbia partecipato nelle mie attività musicali e nel mio attivismo socioculturale e politico. Un periodo di grande eccitazione e aggregazione che si riverberò su tutto il territorio regionale. Un momento in cui il tessuto di base delle realtà musicali autoctone proliferava con grandi creatività, rinvigorito dalle proposte di Marcello Nitti, che, come dici nella domanda, portò al Tursport, qui a Taranto, una serie di stelle di primissimo piano della nuova musica intercontinentale, facendo di Taranto la “Mecca” del rock nell’Italia meridionale. Un momento illuminato ma purtroppo segnato da un destino difficile, indirizzato anch’esso come altri periodi precedenti, verso un’altra inevitabile lenta dissoluzione. Il teatro Verdi chiuse i battenti nel 1994, subito dopo essere stato ristrutturato. Nuovo di pacca, non riaprì mai più, perché non fu deliberato un ulteriore adeguamento alle norme di sicurezza.”

Stefano Tocci: “Esperienza indimenticabile. Si percepiva che c’era interesse, che qualcosa si muoveva, che si poteva fare musica, che finalmente c’era spazio anche per noi, per chi avesse una proposta costruttiva. Per gli Amft Machine fu anche il “canto del cigno”, visto che subito dopo Quazzico uscì da gruppo e si scivolò quindi nell’esperienza Interference; eravamo ancora troppo giovani per realizzare a pieno l’importanza del momento ed eravamo troppo presi dalla programmazione dei passi futuri, quelli ci porteranno ad essere i Vena.”

I Panama Studios, come i Vena, realizzano un idea di musica che deriva, o simula, un idea di progresso asfissiante, nocivo, proprio come l’industrializzazione. Si poteva fare riferimento all’allora Italsider, e sicuramente c’era un rapporto simbiotico tra musica e attualità; esplicativa in un altro senso è l’audio performance del 28 Marzo 1982 contro il minacciato insediamento di una centrale nucleare ad Avetrana. Quanto è stato forte questo ricorrente il concetto di industrializzazione in questa scena eterogenea, sia simulato in qualche modo, o come sublimazione di energie?

Angelo Losasso: “Come sappiamo tutti noi che viviamo a Taranto, l’acciaieria è, per la città, da quando è stata costruita e messa in funzione, il più orribile compromesso tra economia e salute pubblica. Una perfetta metafora del capitalismo, per il quale le uniche certezze sono il profitto di pochissimi tramite sfruttamento dei molti e plusvalore ormai fuori controllo, la convinzione che tutto abbia un prezzo, compresa la vita umana, e la disponibilità ad impossessarsi con qualsiasi mezzo, laddove il prezzo non sia concordabile, di ciò che gli necessita. Noi, come altri, eravamo consapevoli delle tremende ricadute che la presenza di un così sproporzionato mostro industriale stava avendo e avrebbe avuto sulla città e sul territorio. Sapevamo del dissesto ecologico irreparabile che ne stava conseguendo, dello stato sanitario emergenziale, delle morti sul lavoro, ma anche dell’estirpazione delle vocazioni naturali della città stessa e del disastro sulla qualità della nostra vita. Intuivamo quanto la nuova destinazione industriale ci stesse dirottando dal destino di città storica, dalla cultura millenaria, posto ideale per la ricezione del visitatore e per lo sviluppo del pensiero. Eravamo criticamente consapevoli di quanto tutta la nostra cultura fosse stata trasformata. E sapevamo anche che il prezzo a cui avevamo svenduto le nostre esistenze era troppo, troppo basso. Intravvedevamo però qualcosa di ancora più oscuro e terribile, nelle fattezze immense di quello space invader metalmeccanico: la sua pervasiva omologazione su scala globale. Tutto il mondo era Taranto, ormai in folle corsa verso l’autodistruzione finalizzata alla produzione e al consumo. L’industria ormai infrangeva tutte le regole, tirandosi dietro l’intero pianeta, oltre il suo stesso limite di sopportazione. L’idea che viaggiassimo sfrenatamente verso la catastrofe era sempre più confermata dai fatti e dalle scelte politiche ed economiche su scala planetaria, incluse quelle dei regimi comunisti. Ci cominciavamo a sentire come le tante comparse del capolavoro cinematografico ‘Blade Runner‘ di Ridley Scott o del meraviglioso fumetto ‘RanXerox‘, di Tanino Liberatore: soli, anonimi, avvolti dalla penombra, dalla pioggia tossica, dal fetore di tonnellate di rifiuti, sotto controllo permanente, in corsa contro il tempo e i peggioramenti della storia. Partecipavamo a questa visione post-utopica, ormai distopica del mondo intero, schiavo della produzione finalizzata al consumo compulsivo e vittima della sua de-evoluzione. Visione di cui Taranto era divenuta un esempio sfolgorante. So che è assurdo, ma questo complesso e acido scenario non poteva non rientrare tra gli elementi di ispirazione amara che spesso hanno guidato la produzione musicale e scenografica nella nostra proposta complessiva. Il perverso fascino della post-modernità non ci era indifferente, ma dietro la fascinazione estetica c’era la consapevolezza che la realtà fosse drammatica per tutti e che fosse importante provocare, far discutere in chiave critica, evidenziare certe tremende e pericolosissime contraddizioni.”

Stefano Tocci: “Il senso di decadenza era immanente. Una consapevolezza recondita, sepolta nella coscienza. La presenza del mostro dell’acciaio nella nostra città ci ha condizionato fin dalla nascita direi, siamo cresciuti respirando lo smog che l’Italsider ed i suoi epigoni hanno rovesciato su Taranto nei decenni della nostra fanciullezza ed adolescenza. Ma il senso distopico delle nostre elaborazioni musicali, penso a brani dei Vena come ‘Modern World‘ o ‘Workmen‘, era attinto anche dalle cupe visioni post-moderne che all’epoca si materializzavano nell’immaginario collettivo. La “guerra fredda” era ancora in atto e la frequente presenza di navi portaerei americane o francesi nel largo del Mar Grande ci ricordava che lo scenario cantato dagli Ultravox in ‘Dancing With Tears In My Eyes‘ non apparteneva alla letteratura sci-fi ma era una realtà incombente. Il pericolo di una guerra nucleare, l’ingrigirsi della quotidianità all’ombra dei fumi densi dell’industrializzazione scriteriata effettuata negli anni addietro, e ovviamente della presenza del mostro che emergeva (ed ancora purtroppo emerge) al di là del nostro meraviglioso Mar Piccolo, permeava il nostro orizzonte intellettuale.”

Workmen testo

Locandina di un concerto dei Vena con testo di Workmen.

Una delle piaghe di quegli anni era sicuramente il degrado che derivava dalla tossicodipendenza, e che si viveva in molte città negli ’80. Caratteristica fu la mostra fotografica, organizzata sempre da Voltage Control e Sergio Natale Maglio dell’Assessorato alla Cultura della Regione Puglia e esposta dal 1 al 6 Giugno 1982, sugli occupatori di case a Berlino, accompagnata da foto, filmati e testi della comunità giovanile di Taranto, tenuta alla cooperativa “Il Caffè” in via D’Aquino. Le località menzionate diventavano due realtà distanti ma non molto diverse, in cui la città ionica evoca le ambientazioni del film di quegli anni Christiane F. – Noi, I Ragazzi Dello Zoo Di Berlino, proiettato in quegli anni. Un danno insormontabile in quel periodo, insieme all’associata e asfissiante microdelinquenza e malavita, che ostacolavano quella comunità dalle idealizzazioni nell’arte o in qualsiasi campo di ricerca, e dalle loro realizzazioni. Quella strada proseguirà in particolar modo a Taranto con l’associazione Mackinario Retrò e il suo Gemellaggio con Great Complotto, prendendo una netta posizione contro la tossicodipendenza a favore dell’arte e l’intrattenimento. Cosa ha rappresentato quello spirito nella scena, se e come ha dato il suo contributo contro quel fenomeno dannoso?

Sergio Maglio: “La situazione era quella che era, in quei primi anni ’80. Taranto era una città nel pieno dello sballo Italsider che si era arricchita e si era dimenticata dei suoi ragazzi, i quali erano stati lasciati a sé stessi, abbandonati dai genitori per inseguire soldi, carriere, ville e investimenti. Cominciava a verificarsi la desertificazione, l’abbandono del territorio urbano, che non era più attivamente presidiato dalle sedi di associazioni culturali, dopolavori, partiti, sindacati, azioni cattoliche, scout come era avvenuto sino a tutti gli anni ‘70. Tutti questi soggetti, a prescindere dalle loro specifiche competenze, alla fine dei conti avevano svolto in modo trasversale un ruolo importante per i giovani, supplendo da nursery e presidi educativi, erano stati centri di aggregazione, di animazione e anche di controllo sociale dei comportamenti giovanili devianti e autodistruttivi, come l’eroina. Ma adesso cominciavano a scomparire dalle periferie urbane, e se c’erano ancora, erano i nuovi giovani che li rifiutavano. Perché i ragazzi degli anni ’80 non erano più quelli del ’68, peace&love, “mettete dei fiori nei vostri cannoni”, pieni di impegno politico e sociale. Erano invece nel pieno di una mutazione genetica generazionale, sfuggente e inquietante. Quindi, privi di animazione, di proposte e di riferimenti – organizzativi, culturali, familiari, territoriale – e senza alcun controllo da parte delle istituzioni, non avevano altra compagnia che la droga.

“Il progetto avviato con il Great Complotto era ambizioso. Anche a Pordenone – altra steel town piena di piaghe sociali – c’era una situazione analoga, e Ado Scaini & Co. l’avevano affrontata con il progetto visionario dello Stato di Naon, una contro-città virtuale. Nella costruzione ideale, artistica, musicale, spettacolare, di questo universo punk positivo erano riusciti a indirizzare e canalizzare le energie di centinaia di giovani di Pordenone, ed era una cosa bellissima e vitale. Quando siamo stati in tournee a Pordenone, tra quei ragazzi in perenne movimento non girava neppure uno spinello, anche se ci davano un po’ sotto con l’alcool, e questo era una cosa portentosa a quei tempi. Ovviamente, per creare situazioni positive del genere ci volevano organizzatori e animatori socio-culturali con le palle, come Ado. Il quale aveva alle spalle una esperienza di vita e una tradizione culturale e politica di tutto rispetto nella sua famiglia e nel suo background culturale. Mi sentii particolarmente investito dalla mission di cercare di replicare qualcosa del genere a Taranto, in quanto provenivo da esperienze formative, culturali, sindacali e politiche che mi avevano dato una formazione e una visione adeguata a questo compito, e in più lavoravo come operatore culturale in un centro territoriale regionale, che si occupava di disseminare cultura nel territorio. Infatti, la breve esperienza di Macchinario Retrò, che si pose in sintonia e interagì virtuosamente con Voltage Control dei Panama Studios e con la fanzine Urlo di Vittorio Amodio, completò organizzativamente e strategicamente lo schieramento di quella gioiosa macchina da guerra. Io non ero un creativo, però apportavo quel contributo organizzativo che era necessario. Inoltre, anche se ero un “regionale”, uno delle istituzioni, potenzialmente un “nemico”, in realtà si fidavano di me, perché vivevo con loro e come loro, gioivo e soffrivo come loro. Sicuramente tutto ciò è stato un elemento positivo in quel contesto, è servito a indirizzare e a controllare positivamente la situazione. Inoltre servì a mediare con le istituzioni, come Giuliana Ermacora, che organizzò la mostra al “Caffè” e mise a disposizione il Centro Servizi Culturali di via SS. Annunziata dove lavoravo, di cui era direttrice; come il grande Tommaso Anzoino, allora assessore alla cultura del comune di Taranto, che finanziò un paio di progetti, come quello di Pordenone; come l’altro grande Peppe Francobandiera, che più di una volta mise a disposizione dei concerti il Circolo Italsider alla Vaccarella, che allora dirigeva.

“Il vero problema è che quella bella storia durò troppo poco. Io nell’84 fui chiamato a fare l’assessore alla cultura a Mottola e dovetti abbandonare il campo. La sperimentazione che avevamo tentato non venne replicata dalle istituzioni, come sarebbe stato utile, necessario e doveroso. Nessuno raccolse il testimone e Taranto restò sguarnita con conseguenze devastanti. Col senno di poi, questo è un chiaro esempio di come sia indispensabile presidiare il territorio e non abbandonare a sé stessa la città e le sue periferie. La presenza di centri culturali pubblici e la figura dell’operatore e animatore culturale sono elementi centrali e strategici per una efficace politica verso le giovani generazioni, però tali opzioni purtroppo sono state abbandonate, anche per il disarmo delle politiche sociali dagli anni ’80 sino ad oggi. E quando sono stati riesumati, come in occasione del progetto di Vendola dei laboratori urbani, purtroppo sono stati gestiti in modo approssimativo e opportunista, senza alcun frutto effettivo.”

Stefano Tocci: “La tossicodipendenza, l’abuso di sostanze stupefacenti e quanto ne è conseguito ha portato molti lutti nella nostra comunità, non immediatamente ma lentamente nel tempo, lasciandoci privati di meravigliose persone. La consapevolezza del problema all’epoca non era, secondo me, ancora piena. Si cominciavano a vedere le prime conseguenze in termini di degrado ma, soprattutto per il disinteresse di chi aveva la responsabilità politica di intervenire, si fece troppo poco; la mentalità era: “la tossicodipendenza del drogato è un problema suo; se muore se l’è cercata”. La cecità delle forze politiche e sociali di Taranto, l’inadeguatezza dei suoi dirigenti, sono una costante della nostra amata città, ed oggi ne stiamo subendo le conseguenze.”

Gemellaggio comp

Cover di Pordenone/Taranto (1984). Raccolta in occasione del gemelaggio tra The Great Complotto e Mackinario Retrò.

Per concludere, con quali occhi vedete il periodo successivo e il futuro a Taranto, sia per quanto riguarda l’arte e il suo impatto politico? Si sono avvicendate diverse realtà dopo, oltre al gemellaggio PN/TA, la rivista Urlo, i gruppi Veronika Voss, SFC, l’etichetta Psychotica, con Logan, Lillayell, Beirut, la Lemming Records, la Hysm?, Musica Per Organi Caldi, i gruppi HysM?Duo, Bogong In Action, Microwave With Marge, Haprile, IONIO, La Sedia di Wittengstein, Bokassà, Abitat e in ambito elettronico abbiamo AS, SAMMARTANO, Solquest, Vestas, Remsense, TF+, Donato Epiro, Cristiano Viola, etc, con le label Tape Tales, Canti Magnetici, Osci Edizioni, whereiswave?, etc. Conoscete queste realtà, e se sì, cosa ne pensate?

Stefano Tocci: “Sul finire degli anni ’80 lasciai Taranto, per motivi di lavoro e personali. Pur continuando a respirare musica non ho però più seguito la scena locale. Temo che anche altri abbiano seguito il mio percorso.”

Angelo Losasso: “Per quanto mi riguarda, sono rientrato a Taranto, per viverci in pianta stabile nel 1995. Fino ad allora tornavo in città giusto per brevi periodi. Ho conosciuto più in profondità alcune delle realtà che hai citato dal mio rientro in poi. Solo vivere qui mi ha permesso di approfondire alcuni contatti, che, anche per divario generazionale, erano inizialmente sporadici e un po’ di circostanza. I Veronika Voss e gli SFC li ho poi conosciuti bene e ho anche avuto modo di collaborare con alcuni di loro, in particolare con Claudio Vozza, bassista e voce dei Veronika e con Fido Guido (De Vincentis), batterista e fondatore degli SFC, dopo la sua svolta reggae. Ho conosciuto abbastanza bene anche Gaspare Sammartano e le sue visionarie e articolate esplorazioni musicali. Ho molto apprezzato le proposte che pervenivano da queste realtà, per la qualità della produzione e della resa dal vivo, per la capacità di saper personalizzare e mantenere una notevole originalità e per la visione contemporanea e, in alcuni casi, anche innovativa. Un problema che secondo me ha limitato la portata di questi progetti è stato il non condividere strade progettuali comuni, dando luogo alla frammentazione dei vari soggetti ed ambiti e alla perdita di forza di aggregazione e di impatto, forza necessaria a incidere sulla realtà cittadina, già di per sé in profonda sonnolenza socioculturale. I canali di accesso a molti tra i più validi progetti musicali contemporanei, nella nostra città, risentono di un’eccessiva specificità e del fatto di scorrere spesso in parallelo, preservando purtroppo anche i confini relativi ai “generi musicali”, con una mancante quanto auspicabile pratica del “melting pot”, della condivisione e del superamento di certe limitazioni. Detto questo, ribadisco che le singole proposte sono state e sono davvero di ottimo livello e profondità.”

Panama Studios

Panama Studios live.

Il riferimento principale a questo articolo è stato il libro “Taranto new wave – Dalla byte generation al Great Complotto” di Sergio Natale Maglio (Scorpione Editrice, 2013), che consiglio per un peculiare approfondimento al tema. Ringrazio tutti coloro che hanno preso la parola in questo articolo.

Share This