SYNTAGMATA – VITA DALL’ALGORITMO
di Giovanni Panetta
Intervista a Valerio Orlandini, sul suo ultimo album Syntagmata, e la sua elettronica algoritmica, tra field recording alterati e utilizzo del deep learning.
Syntagmata

Cover di Syntagmata (2021).

Valerio Orlandini, musicista elettronico fiorentino, ha portato avanti la sua offerta nel nome di un eclettismo sempre diverso e sorprendente; la sua elettronica è contraddistinta da suoni magmatici, di un caos maestoso, a cominciare dal primo album LentoVeloce Propagare D’Abissi, del 2010, ovvero insieme di suoni riverberanti, vivi e oscuri in un’unica traccia di circa 50 minuti. Dopo aver pubblicato sei album, il 26 Febbraio 2021 esce Syntagmata, a distanza di tre anni dal precedente 7 Pieces. Le quattro tracce del lavoro più recente sono rumoristicamente barocche, indefinibili per il loro magma di sonorità, timbri e movimenti molto dinamici e oscuramente policromati; un suono elaborato con tecniche informatiche, dove il groviglio sonoro è diverso dal caos manifestato direttamente da una mente umana, e ha una valenza algoritmica, contorta e sublimata dall’inconscio creativo. La tecnologia utilizzata, che concerne metodi dell’intelligenza artificiale, riproduce una vita naturale, il suo corso, la sua storia che arriva alterata nelle nostre orecchie, con una sensibilità profonda secondo la macchina, che simula la mente dell’Uomo con regole plastiche, ben poste, generatrici di un rinnovato fervore.

Di seguito l’intervista sugli aspetti dell’ultimo lavoro di Valerio Orlandini, il suo passato e futuro.

Cominciamo dal quadro generale; qual è lo schema e quindi l’idea dietro Syntagmata? Per quello che si può constatare c’è un’estrema libertà compositiva, soprattutto nel plasmare il suono granulare presente, in nome di una maestosità di volumi che connette sintesi e analogia. Ce ne vuoi parlare?

“Dietro “Syntagmata” c’è l’idea di comporre musica partendo da delle idee compositive: può sembrare tautologico, ma in realtà intendo dire che nei miei precedenti lavori le composizioni si sviluppavano senza un piano determinato a priori, nascevano e progredivano senza una direzione ben precisa. Se questo da un lato garantiva una notevole libertà, dall’altro portava a un accumulo di materiale non sempre a fuoco. Una forte idea di partenza reca necessariamente con sé delle costrizioni e dei vincoli, e questi rendono necessario esplorare tecniche e sonorità in maniera completa ed esaustiva, senza possibilità di fuga. Con questo non voglio dire che fare musica in maniera solo istintiva sia sbagliato o di minor valore, ma che sentivo il bisogno di dare un ordine differente al mio modo di lavorare e di sperimentare.
“Tra le diverse tracce non ci sono particolari legami concettuali, se non il fatto che sono diversi modi di sperimentare e costruire con i suoni partendo da un’impalcatura decisa a monte. Quindi direi assoluta libertà compositiva per quanto riguarda i lidi esplorati, che vanno dalla musica algoritmica a quella concreta, dall’uso estensivo di field recording fino alla sperimentazione di particolari tecniche di sintesi audio, mentre libertà molto più contingentata per quanto riguarda il discorso da portare avanti all’interno di ogni singola traccia.”

Si può dire che la Natura, attraverso una visione macroscopica di essa, del suo imporsi sul destino dell’Uomo permea tutto il lavoro. Sicuramente protagonista di questo scenario è la prima traccia, Biomaton, dove suoni caotici ricalcano maremoti, sismi e simili eventi catastrofici; forse il synth dà un tocco “artificiale”, che elude da quel naturalismo di riferimento, accennando al fatto che il destino nefasto della Terra sia opera dell’umanità; inoltre Biomaton si distingue per sonorità che si smorzano e si esacerbano a più riprese, indicando una mai completa redenzione da parte dell’uomo, un continuo violare il codice di convivenza con Madre Natura, con poca umiltà. Quindi, in merito a ciò, c’è un collegamento con quell’invadenza dell’uomo, attraverso sprazzi di suoni più propriamente sintetici? Parlaci della tua idea in Biomaton.

““Biomaton” nasce come composizione algoritmica i cui vari parametri di sintesi sono controllati da una serie di sistemi di automi cellulari, un modello matematico che in qualche modo riproduce lo sviluppo delle popolazioni viventi. In tutto vi sono sette tracce, ciascuna corrispondente a un diverso regno dei viventi (secondo una delle possibili classificazioni proposte): Batteri, Archeobatteri, Protisti, Cromisti, Piante, Funghi e Animali. Le smorzature delle sonorità rappresentano invece le grandi estinzioni di massa a cui sono andati incontro gli esseri viventi nel corso della storia della Terra: cinque avvenute in passato e una immaginata per il futuro.
“Il contributo dell’uomo è invero piuttosto limitato, non avendo avuto nessun ruolo, per ovvi motivi cronologici, nelle cinque passate estinzioni di massa, anche se è lecito supporre una sua marcata responsabilità nella prossima.
“In realtà però quello che vuole suggerire il continuo alternarsi tra momenti pieni e turbolenti e altri quieti ed embrionali non è tanto una reprimenda nei confronti dell’uomo quanto l’idea che tutto sia soggetto a un indifferente divenire, e che a ogni fine corrisponda un nuovo inizio. Basti guardare cosa è successo nei pressi di Chernobyl: l’uomo è sostanzialmente sparito da quell’area (e difficilmente potrà tornare a popolarla per secoli), proprio a causa di una catastrofe di origine umana, ma quello che c’è ora non è un arido deserto senza vita, ma al contrario una florida area naturale ricca di piante e animali, che si sono adattate in modo ottimale a un ambiente che invece risulterebbe esiziale per qualsiasi essere umano.
“Per questo “Biomaton” più che puntare il dito contro l’uomo ne rileva senza nessun tipo di giudizio morale o escatologico la sostanziale irrilevanza in un disegno molto più grande, casuale o deterministico non è dato saperlo, ma senz’altro regolato da strutture ben identificabili, analogamente a quanto succede nei sistemi di automi cellulari che regolano l’evoluzione delle singole tracce del brano.
“Riguardo in particolare alle timbriche più “sintetiche”, spesso sono il risultato imprevedibile ma non casuale dello sviluppo degli automi cellulari che, come detto, regolano i parametri di generazione dei vari suoni. Si potrebbe dire che simboleggiano il fatto che anche l’oggetto più artificiale e sintetico che si possa immaginare è comunque il risultato dell’unione e della manipolazione di elementi presenti, in un modo o nell’altro, in natura, sempre che questo sia visto in un’ottica che ritenga poco significativa questa suddivisione tra “naturale” e “artificiale”.
“Comunque confermo assolutamente che l’idea di una Natura che sovrasta l’Uomo è senz’altro uno dei temi portanti di tutte le tracce del disco, ma questo più che avere un significato di monito o di oscura profezia è un invito al distacco e al guardare le cose secondo una prospettiva più ampia e meno incentrata sull’esclusività dell’essere umano – che c’è, esiste ed è innegabile, ma che talvolta può essere compresa meglio proprio cercando di guardare il mondo “da fuori”.”

Valerio Orlandini

Valerio Orlandini live.

Parthenogenesis si riferisce all’accennato fenomeno del mondo animale (la partenogenesi), ovvero alla facoltà di generare vita da parte di una femmina senza ricorso della fecondazione. L’atmosfera sembra in realtà bellicosa, i suoni si presumono essere più di matrice artificiale, tranne in un momento in cui i timbri sono fibrosi o umidi/granulari (in riferimento a terreni e alberi percossi e scalfiti da entità massive e panteistiche). Forse viene ricalcata una Natura colossale, che ha bisogno solo di sé stessa per il suo futuro a prescindere dall’Uomo, rigettando così il suo paternalismo. Detto da te, come si colloca il tema dell’autosufficienza da parte della Natura nella tua opera?

““Parthenogenesis” è il brano più libero del disco, nel senso che in questo caso l’idea alla base è stata quella di lasciare sviluppare i suoni in modo imprevedibile, controllandone sì l’evoluzione in linea con lo spirito dell’album ma insieme lasciando un’ampia libertà al risultato finale.
In fondo la partenogenesi è un processo che mi vede del tutto estraneo, sia in quanto essere umano (in cui la partenogenesi avviene solo in forme tumorali e che non portano a una nuova vita), sia in quanto di sesso maschile, per cui ho vissuto questa composizione come se osservassi dall’esterno la genesi dei suoi suoni e della sua struttura. Per quanto possa sembrare paradossale, ogni volta che riascolto il brano in questione mi accorgo di parti o di timbri che non ricordavo ci fossero, e se questo razionalmente è dovuto al fatto che si tratta di un brano lungo e composto in diversi periodi, mi piace pensare che possa essere visto come una scoperta continua di un territorio che non potrà mai essere mio. In questo contesto si posiziona senz’altro in modo preminente il tema dell’autosufficienza, ma lo vedrei in maniera più ampia: non tanto autosufficienza della Natura quanto l’autosufficienza di chiunque sia in grado di creare nel costruire un intero universo, che sia una femmina che genera una nuova vita o un artista che con i suoi mezzi delinea un nuovo paradigma della realtà, fosse solo per la durata di un disco, di un libro o di una serie di immagini.
“Concordo quando usi l’aggettivo “colossale”, penso che ben si sposi con molte delle sonorità di questo brano. Un altro aggettivo che userei, sia in relazione alla Natura sia in relazione ai suoi di questa traccia è “elusivo”: i suoni, in gran parte field recordings, alla base di “Parthenogenesis”, sono stati volutamente elaborati fino al parossismo, in modo che anche quando ricordassero qualcosa di concreto, difficilmente è quella la loro autentica origine. Che ci si trovi in questo brano di fronte a suoni che paiono alberi, acqua, vento o qualsiasi altra cosa, sono quasi sempre trasfigurazioni di altri tipi di registrazioni, tra l’altro in larga misura di oggetti e situazioni artificiali e urbani. Mi piace pensare a questo brano come una gigantesca matrice, in cui forse più che lo sviluppo lineare di una nuova vita si assiste a una serie di contorte e imprevedibili metamorfosi.”

In Maraṇasati è presente il tema della morte (il titolo prende il nome dal tipo di meditazione buddhista attraverso la quale si accetta il termine della vita come evento necessario), la cui ricorrente granularità del suono richiama la decomposizione, non distinguendo però la morte materiale da quella spirituale, presupponendo l’esistenza di zone grigie tra sostanza terrena e etere. La morte in natura è un concetto interessante, che sospende e fa riflettere su cos’è l’anima dal punto di vista di un essere animale o vegetale, e sul corrispettivo significato del congedo terrestre. Che valore viene dato alla morte in questa traccia e nel disco?

“Si tratta di una traccia che ha avuto una genesi molto delicata, da un lato perché era un’idea che volevo sviluppare da tanto tempo ma per cui non riuscivo a trovare gli strumenti giusti, dall’altro perché volevo trattare il tema e con il dovuto rispetto, senza trasformarla in una parodia di una meditazione e di una dottrina molto serie e ben lontane dall’idea di buddhismo che spesso viene passata in Occidente.
“È corretto quello che affermi, e cioè che non vi sono barriere precise tra morte materiale e spirituale nel brano, e che i sette oggetti sonori di partenza che vengono gradualmente decomposti possono essere assimilati a quello che si preferisce: parti del corpo, componenti immateriali, pensieri o quant’altro. Quello che conta è realizzare il destino univoco di tutti gli oggetti presenti, che d’altronde non è molto lontano dal “cenere sei e cenere tornerai”. Non si tratta però né di un pensiero materialista e nemmeno pessimista, e questo si collega all’idea della morte nel disco, e in particolare a “Biomaton” con le sue estinzioni cicliche e a “In Silico” con il suo analogo finale polveroso e granulare. La morte è vista come un momento, un’esperienza necessaria e non definitiva, qualcosa che non pone fine a tutto ma semplicemente permette di ricominciare da capo. Da un punto di vista musicale è un concetto che può essere rappresentato in molti modi e può portare a delle ricerche sonore interessanti. Tra l’altro alcuni suoni in decomposizione di questa traccia sono gli stessi usati in alcune parti di “Parthenogenesis”: non sarebbe scorretto immaginare che la creatura nata per partenogenesi nella traccia precedente sia la stessa che qui muore e si decompone.
“Come avveniva anche in “Biomaton”, dunque, c’è un processo molto sentito dall’essere umano che però è visto dal di fuori, con un distacco che non posso dire di avere nel quotidiano ma proprio per questo ricerco attraverso la pratica artistica.”

Questo tema del dualismo tra materia e anima, nell’ottica vita/morte, torna in un certo senso in In Silico, traccia sintetica che utilizza suoni, più dilatati, elaborati e manipolati attraverso software di AI basati sul deep learning. La corrispondenza nasce dall’idea che le macchine, tramite algoritmi e la rete neurale, possono generare movimento intelligente, che diventa vita artificiale, senza il ricorso della Natura ma ricreando una natura alternativa. Una possibile perdita con un probabile guadagno. Per caso un pezzo dalla luce più in penombra per via del tema trattato? E come avviene l’applicazione delle tue conoscenze sull’Intelligenza artificiale?

““In Silico” è stata pensata innanzitutto come un’indagine: quali strumenti ha a disposizione il musicista senza conoscenze eccessivamente specifiche per trarre vantaggio dalle recentissime ricerche sul deep learning applicato alla composizione musicale? Infatti, mentre sono ormai numerose le tecnologie di composizione, sound design e sintesi basate su intelligenza artificiale e reti neurali, sono ancora relativamente poche quelle utilizzabili da un pubblico che non abbia una formazione specifica sull’argomento. Il brano quindi è costituito da suoni e strutture che, in almeno una fase della loro produzione, sfruttano una tecnologia basata sul deep learning, attraverso software o reperibile in rete oppure che ho appositamente sviluppato per questo progetto.
“Per quanto riguarda l’aspetto più artistico e concettuale, invece, sono estremamente affascinato dalle potenzialità che le reti neurali e l’apprendimento profondo offrono al musicista, e in generale all’artista. Personalmente trovo assolutamente sterile l’allarmismo, che spesso si sente in giro, riguardo alle “macchine che ci sostituiscono” o all’arte che manca del “tocco umano”. In prima battuta perché si sta sempre parlando di software che sono scritti da esseri umani, controllati da esseri umani e i cui dati sono forniti da esseri umani, e non vi è nessun rischio di scenari fantascientifici dove la macchina prende il potere e schiavizza l’uomo, almeno nel futuro prossimo e soprattutto se stiamo parlando di programmi per generare due note o manipolare qualche suono. Inoltre, non è scritto da nessuna parte che quello che viene fuori da una rete neurale, che siano partiture, oggetti sonori o processamenti audio, debba rimanere immutato senza che poi l’artista ci metta comunque mano, anche pesantemente e secondo la propria sensibilità. La generazione completamente automatica di musica è forse l’applicazione meno intrigante dell’intelligenza artificiale. Si tratta solo di strumenti in più, che come è sempre successo nella storia della musica si vanno ad affiancare a quello che già esiste arricchendo le possibilità espressive del compositore, allo stesso modo che gli strumenti elettronici non hanno cancellato quelli acustici ma si sono aggiunti ad essi, ampliandone talvolta anche le potenzialità.
“Il brano segue un’ipotetica trama in cui un’entità artificiale si sveglia in questo universo sintetico che impara via via a conoscere: socializza con suoi simili e con le altre specie, insieme danno origine a un linguaggio, e infine esplorano questo mondo che pare in tutto e per tutto simile a uno “naturale”, sempre che abbia senso questa distinzione. Non si termina però con un lieto fine, e non per lanciare qualche monito allarmistico, ma semplicemente perché, al momento, non è ancora possibile disegnare un intero universo solo con questi strumenti: pian piano il mondo artificiale inizia così a sfaldarsi, fino a dissolversi in una cenere digitale da cui, c’è da scommetterci, questo universo rinascerà più forte e coeso di prima. È dunque la cronaca di un fallimento, ma il fallimento nella sperimentazione (e non solo) è qualcosa che fa inevitabilmente parte del processo di crescita e di sviluppo di nuove idee. La “penombra” che giustamente ti evoca sta proprio qui, nell’aver tentato un’esplorazione che resta sospesa a metà, che è stata in grado di svelare qualcosa ma ha lasciato ancora tantissimo al buio.”

Valerio Orlandini

Valerio Orlandini dal vivo.

Syntagmata ha un suono molto elastico e di una dinamicità fuori dal comune, mentre il precedente 7 Pieces del 2018 è più centrifugo e oscuro, convergente verso un kraut-ambient quasi eterodosso, classico nelle immagini che evoca, ma insolito nella loro successione, omaggio del futurismo letterario e di Luigi Russolo. Un cambiamento netto tra i due album che vorrei un minimo approfondire. Come avviene il passaggio?

“Il passaggio è avvenuto innanzitutto con l’approfondimento di nuove sonorità, in particolare quelle vicine alla musica elettroacustica di autori come Parmegiani, Dhomont, Romitelli e Normandeau, che mi hanno dato molti spunti sia a livello timbrico che concettuale. La mia personale storia di ascolti musicali, che tengo a sottolineare che non sono quasi mai stati sostituiti da quelli nuovi, ma piuttosto affiancati da essi, parte dal black metal per proseguire con tutto il variegato mondo industrial e dark ambient e aprirsi dunque a qualsiasi tipo di sperimentazione fuori dagli schemi, che sia di matrice acustica, rock, elettronica o quant’altro. E per quanto ogni volta che mi cimento a creare un nuovo brano cerco sempre di non imitare quello che ho già sentito, è inevitabile essere influenzati da quello che si ascolta (e si legge, si guarda, ecc.) e soprattutto che si è scoperto recentemente. Inoltre nei tre anni che separano i due dischi ho studiato musica elettronica presso il Conservatorio di Firenze, e questo mi ha permesso di considerare la composizione musicale da un punto di vista diverso, come dicevo in precedenza meno “istintivo” e più pianificato, per quanto ci tengo ancora a ripetere che non ritenga un approccio superiore o migliore dell’altro. Ho anche avuto l’occasione di approfondire linguaggi e tecnologie di cui prima avevo solo una conoscenza frammentaria (tra cui proprio il deep learning a cui ho dedicato la tesi di diploma), e ho quindi potuto acquisire più sicurezza nei miei mezzi.
““7 Pieces” era più oscuro e introspettivo perché istintivamente è quella la musica che tendo a creare, mentre con “Syntagmata” ho voluto mettermi alla prova, sapendo di avere qualche arma in più (anche se ovviamente vedo una strada ancora lunghissima davanti a me), in ambiti che mi affascinano ma che ho dovuto faticare molto per riuscire, almeno in minima parte, a padroneggiare.
“Infine, un’altra differenza tra i due dischi è che “7 Pieces” raccoglie brani composti in tempi anche molto diversi, che vanno da circa il 2010 (il conclusivo “Noia”) fino al 2018, anno di uscita del disco, mentre “Syntagmata” raccoglie in ordine cronologico quattro composizioni prodotte dalla fine del 2019 all’inizio del 2021. Penso che questo si noti in una maggiore coesione tra le tracce di “Syntagmata”, anche se mi auguro che si sentano abbastanza le differenze, sia a livello sonoro che concettuale, tra i diversi brani.”

Per concludere speriamo in qualche modo di vedere un tuo quanto prima. Se preferisci, esponici le tue prossime novità; con quali suoni e temi sperimenterai nel tuo prossimo lavoro?

“Spero di poter proporre quanto prima qualche mia esibizione dal vivo, anche se non sono un tipo da tour mi fa piacere ogni tanto suonare in giro e questo lungo stop forzato mi è pesato un po’. Dal vivo inoltre difficilmente ripropongo il materiale dei dischi, perché si tratta di composizioni troppo stratificate e poco adatte a essere riprodotte strumenti alla mano. Per questo la dimensione del concerto mi permette di sperimentare soluzioni diverse, più fisiche e immediate, che non di rado servono da spunti da integrare successivamente nel lavoro in studio.
“Per quanto riguarda la direzione di un eventuale nuovo lavoro sto battendo diversi sentieri, ma per ora è troppo presto per sapere quale sarà la direzione che esplorerò. Da un lato mi piacerebbe molto proseguire l’indagine sulle potenzialità delle reti neurali in musica, dall’altro vorrei approfondire la relazione tra suono e immagini, aspetto che ho talvolta lambito ma mai sviscerato come meriterebbe. Ancora, la mia passione per i field recording è ormai di lunga data, ma non ho mai realizzato un lavoro intero con sole registrazioni ambientali. E potrei proseguire pensando a qualcosa che riprenda le mie radici industrial o black metal, ma che le integri con tutto quello che ho conosciuto e appreso negli ultimi anni, senza considerare che mi piacerebbe collaborare con altri artisti, non necessariamente musicisti, in progetti nuovi e aperti in qualsiasi direzione.
“Insomma, di idee ce ne sono tante, l’unica cosa di cui sono sicuro è che un eventuale prossimo lavoro suonerà senz’altro differente da “Syntagmata” e dai suoi predecessori.
“Concludo ringraziandoti di cuore per lo spazio che mi hai concesso e per le domande davvero articolate e profonde, che hanno permesso anche a me di riflettere su aspetti del mio lavoro su cui non avevo mai posto attenzione. Grazie di tutto!”

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