POST-BLACK METAL FLUORESCENTE: DEAFHEAVEN
di Roberto Liuzzi
Discorso su Ordinary Corrupt Human Love
Ordinary Corrupt Human, Deafheaven

Cover di Ordinary Corrupt Human (2019).

Voglio parlarvi di questo – ennesimo – brillante disco a firma Deafheaven, uscito a luglio 2018, ma passato un po’ in sordina da noi… Meglio tardi che mai. Ordinary Corrupt Human Love (gran bel titolo, tratto da un vecchio racconto di Graham Greene) è il loro quarto passo sulla lunga distanza, il secondo a marchio Anti, dopo i primi due su Deathwish (label di Jacob Bannon, voce dei Converge) dei quali d’obbligo segnalare il secondo Sunbather del 2013. Quel disco fu un’autentica sorpresa per tutti, tanto da esporre la band alla platea internazionale (per quanto nella galassia post-metal), per la bellezza delle sue violente ma strutturate fluttuazioni, un corpo unico importante ed indivisibile, dal passo innovativo mostrato rimescolando le carte e l’immaginario black-metal, loro matrice di partenza, introducendo sonorità pescate fuori dal contesto, che sì li hanno segnalati anche all’esterno (cito i brit-alternatives Biff Clyro ad esempio, che pur lontano anni luce hanno indicato Sunbather come una delle maggiori influenze del loro ultimo Ellipsis), ma diviso nei commenti. Non aspettatevi croci rovesciate, nero ovunque e/o face painting cadaverico: qui regna il colore (emblematica la copertina multicolore, a tratti sgargiante, come già fatto in passato con Sunbather), c’è meno zolfo ma più aria.
Il disco si presenta ambizioso nelle aspettative, osa maggiormente pur facendo più attenzione alla forma canzone, ottimamente prodotto dal solito Jack Shirley. Se prima l’immaginario era sofferenza e fatica, visione pessimista da ultimi della scala disperatamente umana, ora si comincia ad intravedere una sorta di atteggiamento più propenso a guardare la vita da un’altra angolazione (questo sembrano indicare i sofferti testi emo del singer George Clarke, fondatore della band con il chitarrista Kerry McCoy).

Post-metal – per quanto termine molto vago – ok, ma volendo essere più precisi? La band è riconosciuta tra i creatori del cosiddetto black-gaze (per quanto gli autori evitino come la peste tale catalogazione, ma tant’è): in sintesi, una superba grazia melodica a sospensione di derivazione shoegaze unita alla dilatata riflessività di certe partiture post-rock (Mogwai!), a scontrarsi volentieri con la ferocia ritmica e vocale di stampo black metal (il tutto condito con tocchi che ci riportano al più furioso screamo anni ’90), in grado di conquistare per davvero se solo si è disposti a superare taluni preconcetti che rischiano di minare l’ascolto del disco. Ebbene sì, mi spiego: il serio pericolo che pagano queste proposte trasversali è il non essere riconosciute in un filone ben preciso. I metalheads li ritengono troppo alternative -se non pop-, gli alternativi troppo metal se non proprio kitsch. Inoltre la band ha catalizzato l’attenzione di Pitchfork da alcuni anni, scatenando un hype che ha ingrassato le fila degli osannanti hipsters, con tutti i vantaggi (esposizione) e svantaggi (prodotto per trendisti) che ne consegue… Scontentando le fazioni, quindi, a chi si rivolge la proposta dei cinque? Agli amanti della musica direi, e non solo giovanile.
Ma veniamo all’ascolto: la vasta gamma di sensazioni che suscitano i sette intensi pezzi, avvince. Dalla sognante opener You Without End, dotata di un chitarrismo a la Dinosaur jr (più volte ricorrente) a sporcare il cristallino ondeggiamento melodico, che ci culla con la sua innata dolcezza, si passa a Honey Cromb, che si presenta a gamba tesa con doppio pedale ed i primi blast-beat a metà pezzo, e lascia poi spazio al perfetto singolo Canary Yellow, dodici minuti che passano così veloci tanto conquista, a seguire l’eterea Near, e l’altro pezzo da novanta Glint (uno degli apici del disco), con tante di quelle idee contenute in un solo brano da nutrirne altri dieci, tra cambi ritmo e mood, svolgimento e struttura (ossia, le loro caratteristiche). Night People, il brano in duetto con Chelsea Wolfe, rappresenta invece il più grosso azzardo della loro carriera, che si distacca da quanto sentito fino al momento (anche sul loro conto, più vicina proprio alla dark cantautrice) ma che ben si sposa col resto, smorzando la furia – per quanto più rifinita e sottopelle ora – fin qui fatta da padrona, che cresce mentre scorre (altro loro punto di forza) e spiana la strada a Worthless Animal, lancinante chiusura che sembra il rantolo cosciente di un animale ferito a morte, l’uomo animale del titolo.
Una complessità fruibile: se vi smuovono nomi come Alcest, Liturgy o i nipponici Envy, dovreste dare una chance ai Deafheaven. Sono certi non ne rimarrete delusi.

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