PLATONICITÀ E PLASTICISMO – LE DUE FACCE DEI BLACK DICE
di Giovanni Panetta
Analisi sui primi due album della band nata a Providence trasferita a New York, tra astrazioni che guardano al minimalismo, all elettronica colta, al free jazz e all'hip hop.
Black Dice

Black Dice. Da sinistra a destra: Eric Copeland, Bjorn Copeland, Aaron Warren e Hisham Bharoocha.

Nel primo decennio del Nuovo Millennio, il rumorismo metropolitano di New York ha vissuto una seconda fase dai tempi della tradizione noise legata al movimento no wave. Attraverso entità sonore come Sightings, Carlos Giffoni, Terrestial Tones, Double Leopards e Talibam!, etc, si è realizzata una nuova idea di rumore, inteso come elemento disturbante, con intuizioni nuove, il supporto dell’elettronica e un maggior eclettismo. Uno dei convogli che immortala quel fermento artistico, dentro e fuori la grande mela, fu il No Fun Fest, organizzato da Giffoni e un testimone del prima, del dopo e anche del mentre del movimento DIY/indie rock americano, diffusore di suoni sghembi e agrodolci strutturati sempre in maniera diversa: Thurston Moore.

In sintonia con il luogo, il nuovo suono di New York si contamina dell’elettronica minimalista e delle sonorità hip hop, ma è soprattutto l’elettronica tout court con i pedali utilizzati, come distorsori, synth pedal o loop station, e che quindi sfruttano tecnologie più meramente elettroniche, a determinare il passo ulteriore verso quell’innovazione nichilistica (almeno per il mezzo) che caratterizza la cultura DIY. I Black Dice hanno un ruolo preponderante in questo contesto, sviluppando un’idea di rumore più luminosa e eterodossa, lontano, almeno durante il corso della loro attività, da schemi più caustici. Il gruppo nasce nella primavera del 1997 a Providence, non a caso nel Rhode Island School Of Design, dove avrebbe preso forma il suono malsano del nuovo noise che molti della comunità mondiale avrebbero preso a modello, e dove sarebbe nata quella scena locale da cui i Black Dice si tenevano ai margini. Durante gli esordi producono vari EP, tutti debiti di una produzione hardcore/chitarristica con una struttura più libera. Esce nel 2001, per la Troubleman, di nome Cold Hands, via di mezzo tra rumore chitarristico e astrazioni diverse, in una forma cacofonica ma che in alcuni punti sembra ricalcare linee simili a quelle dell’ambient. L’anno dopo ci sarà il grande passo.

Beaches And Canyons

Cover di Beaches And Canyons (2002).

Nel 2002 i Black Dice sono da tempo a New York, e la formazione comprende i fratelli Eric e Bjorn Copeland a voce e chitarra, Hisham Bharoocha (che in aggiunta a quanto detto prima e stato il primo vocalist nei Lighting Bolt) alla batteria e Aaron Wallen al basso che va a sostituire Sebastian Blanck nella formazione originaria. Attraverso un sound astratto e barocco, che evoca immagini naturalistiche e stilizzate, il 29 Luglio i Black Dice pubblicano Beaches And Canyons per la DFA e la Fat Cat Records. Si potrebbe fare un lungo elenco delle contaminazioni di questo disco – da John Coltrane di A Love Supreme e Ascension, passando per Alice Coltrane con Journey In Satchidananda e Ptah, The El Daoud, e Cosmic Music di entrambi, il Miles Davis elettronico, fino al versante minimalista di Terry Riley di A Rainbow In The Curved Air, a Alvin Curran di Canti E Vedute Del Giardino Magnetico, etc. – ma ciò che conta è la sua essenza primordiale, quell’apporto originale che esprime una natura sintetica che prende a modello la realtà. Le distorsioni e le linee richiamano un’amusicalità primitiva, pneuma di quel caos fatto di delay e loop di pattern rotondi e aleatori. Si va da un’introduzione, Seabird, per poi passare a quattro suite strutturate a fuga, attraverso le quali si viaggia in mondi ultraterreni. C’è della matematica nei Black Dice, viene invocata una platonicità morbida in cui si comincia da un canto degli uccelli alieno, per poi sentire l’attrito dei moti dei corpi celesti, ciascuno con la sua consistenza essenziale. Una metabolizzazione dell’hardcore in senso astratto e urbano di Brooklyn, in cui convergono minimalismo e in parte hip hop; una ricerca del loro luogo attraverso un astronomia metropolitana.

Creature Comforts

Cover di Creature Comforts (2004).

Tra il 2002 e ’04, e sulla stessa lunghezza d’onda, abbiamo diverse uscite discografiche, come Cone Toaster, in cui si rinforzano i legami con l’elettronica fine ‘900, in particolare con rave e suoni house; invece per esempio in Miles Of Smiles converge un certo suono magmatico che, quando si esacerba, ricorda nella titletrack Pharoah Sanders (per un suono più analogico e granuloso) e invece nella traccia di dopo (Trip Dude Delay) Smegma o Merzbow (per una maggiore sintesi). Del 28 Luglio 2004 è la volta di Creature Comforts ancora di DFA, in cui converge un sound più incentrato su un suono percussivo e più chitarristico. In questo secondo album è il ritmo ad essere centrale, dove il noise si esprime come oscillazione di riverbero in quelle cadenze sfuggenti, e in suoni di disturbo o bizzarri, all’insegna di un piacere per il brutto. Una creatura che evoca una library music plastica, stereotipata, plasmata da un fauvismo tutto espressionista, dove gli elementi musicali tradizionali vengono ricreati e plasmati dall’io di questi artisti secondo la loro personale concezione estetica. Skeleton ha una staticità in movimento, che ricalca quelle forme volutamente caricaturali che sono state disapprovate da qualcuno. Le chitarre in delay scandiscono in tutto questo il tempo, conferendo una granulosità in senso free jazz e ambient, tutto sommato naturalistica attraverso il dualismo analogico/digitale, dove una polarità invade l’altra.

Successivamente i Black Dice prenderanno una piega più propriamente noise con l’uscita di Bharoocha, in particolar modo con la pubblicazione di Repo nel 2009. Ma inequivocabilmente, di proposito o no, verrà proiettato un elemento della loro storia ai posteri: un maggiore consolidamento tra popular music e elettronica colta.

RIFERIMENTI

  • Valerio Mattioli – NOISERS (2007, Tuttle Edizioni);
  • Andy Beta – Black Dice (1 Giugno 2002, Pitchfork)
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