Alessandro Adelio Rossi è un musicista ed artista grafico di Bergamo, che rende proprio un suono tecnicamente progressivo meditato con finalità meramente espressionistiche. Il suo album Òpare, per la svizzera DDDD, manifesta un suono armonicamente complesso con dettagli barocchi, in cui la copertina, che ritrae una sua opera, esprime al meglio il suddetto concept musicale, in cui vediamo un piatto dal colore perlaceo in cui si diramano tante micro-crepe, in maniera vagamente browniana (come se tale intelaiatura fosse metaforicamente generata da più particelle che si muovono con moto browniano all’interno di un liquido per via del pattern quasi-stocastico) quasi a simulare un’idea di profondità tridimensionale; come nel visual, in Òpare il dettaglio dell’ordine di grandezza più ridimensionato è funzionale al pattern – grafico o musicale – nella sua totalità, in cui vediamo il senso dell’opera intelligente e complessa in una visione in cui il tutto è più grande della somma di più parti. L’opera riflette diversi stati empatici dell’autore, che si muovono in una granularità e organicità di dettaglio di cui accennavamo, ripercorrendo una settimana lavorativa all’insegna dell’emotività derivata dal quotidiano espressa in creatività musicale.
Di seguito l’intervista a Alessandro Adelio Rossi in cui si rilascia la sua testimonianza sulle sue origini artistiche e l’ultima uscita Òpare a suo nome.
Alessandro, parlaci di come è nato il tuo approccio alla musica, con quali intenzioni e come si è sviluppato.
“Il primo approccio alla musica è avvenuto da bambino, frequentando la chiesa. La mia famiglia di origine non ascoltava musica in casa, quindi per tutta la giovinezza l’organo e i cori liturgici sono stati gli unici suoni che mi hanno accompagnato fino all’adolescenza. In un momento preciso a 13 anni ho scoperto nuova musica e abbandonato la chiesa. Da quel momento in poi ho cercato di riprodurre i suoni che mi piaceva ascoltare, in particolare sonorità inglesi dei primi ‘70. A partire dalla seconda metà degli anni ‘90 con la mia prima formazione rock progressive con un disco pubblicato dalla storica Mellow Records, poi con i Bancale, un trio industrial blues spoken words, i Verbal che proponevano un math rock psichedelico. In parallelo, negli anni, una serie di collaborazioni con altri gruppi o cantautori, e una produzione mia in solitaria.”
Parliamo de La Bicicletta e il Badile, colonna sonora dell’omonimo film girato da Maurizio Panseri e Alberto Valtellina, tratto dal romanzo “È Buio sul Ghiaccio” di Hermann Buhl, a tema alpinistico. Qui la poetica è permeata da una certa sospensione elettronica, in cui si dà spazio ad una narrazione ieratica e onirica, e in cui aleggia la volontà a risalire non solo alture ma anche traguardi più concettuali. Non mancano elementi più terrei come drum machine, batterie sintetiche (ad opera di Fabrizio Colombi) e chitarre, come ad affermare una diffusione più estesa dei suoni a livello non solo pratico ma anche emozionale, rispondendo ad un più vasto pattern di attitudini. Parlaci di come è nata questa collaborazione a carattere cinematografico.
“Fare musica per immagini è una delle cose che preferisco e vorrei accadesse sempre più spesso. Con Alberto Valtellina c’è ormai un sodalizio che dura da anni. Insieme abbiamo collaborato a diversi suoi film e documentari. In questo caso le musiche sono nate insieme alle immagini, durante le riprese e il montaggio. La frequentazione della montagna è una mia grande passione, quindi è stato un grande piacere lavorare su quelle immagini eccezionali. Le musiche sono raggruppabili in tre momenti abbastanza distinti per timbro e sensazione. C’è una parte elettroacustica, ambienti e soundscape generati con chitarra elettrica; una parte folk, quadretti fingerpicking con qualche incursione elettrica. Infine c’è la sezione elettronica che culmina con il finale e i titoli di coda, in una lunga cavalcata elettro kraut con moog, synth modulari è una sezione ritmica ad opera di Fabrizio Colombi (Bancale, The Infarto Scheisse). Al momento con Alberto stiamo lavorando ad altri due documentari e il 24 maggio uscirà un documentario “Abbecedario naturale” di un altro regista, per il quale ho curato la colonna sonora.”
Òpare, album per l’etichetta DDDD, offre un concept minimale ed organico allo stesso tempo. Il suono ha una struttura scarna, essenziale, in cui paradossalmente dominano dettagli più netti la cui eccezionale comparsa li rende centrali e protagonisti. Parlaci di come si sono sviluppate le idee dietro Òpare.
“Òpare è frutto di un lavoro iniziato nel 2020. Sette composizioni che hanno preso forma suonando un vecchio Fender Rhodes che mi accompagna da una ventina di anni. I brani sono nati suonando in modo libero e improvvisando sulla tastiera per giorni e giorni. Ogni composizione è il risultato di un processo di distillazione della frase suonata è risuonata decine, centinaia di volte, fino a raggiungere una sua completezza e uno stato d’animo modellate durante l’esecuzione. Suonando e risuonando mi sono accorto della corrispondenza emozionale delle linee tracciate sulla tastiera, con momenti precisi della settimana, caratterizzati da più o meno calma, drammaticità, malinconia, gioia. In questo modo ha preso forma il disco, sia dal punto di vista compositivo che concettuale. Una volta raggiunta l’essenza delle singole parti, le ho trascritte, reimparate, registrate in lunghi loop e filtrate, cercando una scomposizione granulare del suono. Òpare potrebbe definirsi un grande loop, un cerchio di suono in assenza di tempo.”
Come si può osservare, in Òpare si scorrono momenti di una ipotetica settimana, immortalando emozioni del momento. In Martedì Mattina una certa sospensione e rarefazione sono protagoniste, generando un effetto materico, di musica incentrata sulla contemplazione delle sensazioni. Parlaci dei sentimenti racchiusi in questo pezzo.
“Martedì mattina è forse il brano più enigmatico del disco. Il sentimento prevalente è di sospensione e abbandono alla solitudine. Ho immaginato un percorso nel deserto, nel quale si cerca una strada, una via, un modo per accettare qualsiasi cosa, la vita, la solitudine, le avversità di ogni tipo. Poi a metà brano circa succede qualcosa, si stacca un pezzo di materia, se ne va via, insieme all’ego. E la mente si libera.”
In Venerdì Pomeriggio un flusso sognante si sviluppa in maniera ondivaga. Ad un certo punto dei sample di canti popolari si accompagnano a synth krautrock e al tempo stesso ballabili, semplici ma dall’impatto più forte, un fulmine a ciel sereno. Il pezzo sembra rappresentare pensieri oziosi in cui prorompono elementi esterni che interrompono il flusso cerebrale. Quali idee volevi effettivamente richiamare con questo pezzo?
“Il venerdì pomeriggio è un momento speciale per noi piccoli umani. Si allenta piano piano la morsa del dovere, delle responsabilità, del ciclo produttivo, la centrifuga degli automatismi e si avverte una sensazione di liberazione che monta piano piano durante il giorno, si vede la luce in modo diverso, si avvertono suoni occultati nei giorni precedenti e l’aria che si alleggerisce. Il brano tenta di descrivere questo crescendo, fino all’illusoria esplosione vitale finale. È il brano più umano, punteggiato dai momenti didascalici dei field recording dallo sterminato archivio dell’etnomusicologo Alan Lomax, con canti festanti ripresi in giro per il mondo, su una base ritmica techno che cresce sempre più su un tappeto di arpeggi modulari. Illusoria vitalità, una cosa del tutto umana, che trova il suo compimento un attimo prima della sua inesorabile dissoluzione.”
Nella successiva Venerdì Sera la quiete ritorna, attraverso timbri più compatti e metallici, e un’atmosfera attraversata da un telaio di onde armonicamente disegnate. L’album infonde un certo minimalismo rappacificante, epilogo idoneo per il suono più barocco e allo stesso tenue di Sabato Mattina, la cui organicità termina doverosamente il disco. Parlaci di questa idea di epilogo nel tuo lavoro.
“Dopo l’illusoria attesa del tutto umana, di Venerdi pomeriggio, aspettativa di qualcosa che ci porti via, nello stordimento, arriva la malinconia della festa, dove niente è come la si immaginava, ma anzi è un processo malinconico di accettazione del reale, sino alla pace di Sabato mattina, un loop breve che muta le sue cellule piano piano, ad ogni ciclo, si sgrana e poi si ricompone. Il tempo è un’invenzione umana e siamo abituati a vivere in questa linearità temporale. Con questo disco ho provato invece a descrivere la sospensione e la circolarità del tempo, come di qualsiasi altra cosa, anche la materia.”