Marco Paltrinieri, sound artist residente a Milano, a seguito della esperienza in gruppo con To The Ansaphone e come art creator con il collettivo Discipula, proietta in avanti la sua identità culturale con due lavori per Canti Magnetici, ovvero The Weaver (2020) e Minimi Ripari (2024). Se The Weaver risente del suo passato più prossimo, Marco conferisce una direzione più analogica ed ambientale a Ripari Minimi, in cui si percepisce una recondita o inconscia influenza del suo precedente progetto To The Ansaphone, quintetto in cui suona la chitarra e in collaborazione con Federico Seghi, Mirko Smerdel, Tommaso Tanini e Bruno Zamborlin, e che unisce sonorità dello spettro del post-punk quanto più disparate.
Inoltre, nel mentre dei due album solisti compaiono altri due lavori, ovvero il digital single L’Altra Parte, sempre per l’etichetta pugliese Canti Magnetici, e la soundtrack per il radiodramma Untitled (an adecdote), quest’ultimo commissionato dal Centre for Contemporary Arts di Glasgow; altri esempi in cui lo spoken word di Lucie Page (voce narrante in The Weaver) ha un valore estetico, dalla narrazione intima e distopica allo stesso tempo, incentrata nella percezione sensoriale e solipsistica della realtà, e che converge in una emotività neurochimica.
Una preziosa testimonianza di The Weaver e Ripari Minimi (e non solo) ci viene offerta da Marco Paltrinieri. Di seguito l’intervista all’autore che si focalizzerà sui temi citati.
Cominciamo dal precedente The Weaver; quest’ultimo, attraverso trame stocastiche e dilatate, in cui i pattern si sviluppano in maniera inaspettata, parla dell’invasività della tecnologia, di come generi un sentimento claustrofobico e di alienazione in noi spesso indulgenti spettatori. Parlaci di come è nato il concept più che mai iconico in questo nostro Antropocene.
“Il concept attorno a The Weaver non nasce nell’alveo della pratica musicale ma bensì in quelle delle arti visive e a tal proposito è forse necessario fare qualche passo indietro, visto che proprio The Weaver rappresenta il primo passo di quella che potrei definire la mia seconda vita musicale. Ad inizio 2000 ho fatto parte per alcuni anni di una band che si chiamava To The Ansaphone con la quale suonavo qualcosa a cavallo tra post punk e cose più sperimentali. Quella esperienza si concluse nel 2007 dopo aver prodotto un 7” (Heroine Record), un CD (Heartfelt Records) ed un 10” (Holidays Records). Da quel momento non ho più toccato uno strumento musicale fino al 2019. Con due membri dei To The Ansaphone intorno al 2011 ho invece fondato un collettivo di ricerca visiva che si chiamava Discipula sciolto poi nel 2020. Discipula era un laboratorio all’interno del quale esaminare attraverso varie strategie (produzioni editoriali, installazioni, performance) i meccanismi alla base del ruolo dominante delle immagini nella nostra epoca. Uno dei nostri ultimi lavori si chiamava Trasmissione e consisteva in una serie di performance a cavallo tra una lecture e un live set dove accompagnato da video e sulla musica di Nicola Ratti (che ha collaborato poi più volte con Discipula), leggevo dei testi che speculavano in chiave distopico-fantascientifica sul futuro delle immagini. E’ stato all’interno di Trasmissione che ho scritto le bozze che poi sono diventate i testi di The Weaver. Questa esperienza performativa e le frequentazioni con Ratti e con tutta la scena elettronica attorno a Standards qui a Milano (vecchia location nella capitale lombarda, chiusa nel 2022, in cui si organizzavano eventi nell’ottica della musica sperimentale, tra cui live set e workshop, anche in orario mattutino, ndr) hanno poi riacceso in me il desiderio di tornare a lavorare con il suono.
“La mia idea dunque, per tornare alla tua domanda, è stata molto semplicemente quella di creare dei paesaggi sonori che potessero dialogare con i miei testi. Fino al giorno prima di iniziare a registrare The Weaver non avevo mai utilizzato nessun software di produzione musicale dunque ho deciso di lavorare con il minor numero di strumenti possibile (i VST di Ableton Live, un microfono e una tastiera MIDI) affidandomi alla mia visione come ad una sorta di bussola e il disco è uscito abbastanza spontaneamente in tre mesi circa di lavoro notturno.”
L’esplorazione artistica del tema di The Weaver assume sfumature di profondità concettuale. In The Valley si tratta la percezione di una realtà-simulacro, in cui dominano emozioni fine a sé stesse, che non rimandano a nient’altro; in Analogon il virtuale è un unicum, senza interno ed esterno, davanti e dietro, proprio come un nastro di Moebius. Mentre la conclusiva The Other Body II simboleggia il manifesto distopico del domani, l’affiliazione al mondo-che-non-esiste. Centrale l’ispirazione a Ti Con Zero di Italo Calvino in Infinite Being, in cui la realtà (pregressa) si annichilisce in un punto. Parlaci dell’esplorazione di questi temi e come hanno preso vita attraverso lo spoken word di Lucie Page.
“Trovo le tue osservazioni intorno ai pezzi che citi molto accurate. Realtà come simulacro, l’incapacità di distinguere tra reale e virtuale e la metaforica, ma neanche poi così tanto, rinuncia al nostro corpo in favore di una iperconnettività assoluta erano tutte questioni che mi ronzavano in testa nel momento della scrittura. Ricordo che all’epoca leggevo molti articoli intorno a questi temi ed uno in particolare mi aveva colpito. Raccontava di una ragazza che soffriva di una forma molto grave di depressione e che riusciva a trovare pace e serenità solo costruendo paesaggi virtuali su Second Life. Quell’articolo è diventato poi il punto di partenza per The Valley.
“Ad ogni modo, quello che ho cercato di fare nel disco, rispetto al mio lavoro con Discipula, è stato provare a rendere la scrittura la meno saggistica possibile in favore di un approccio più aperto e in qualche modo poetico. A tal proposito è stato naturale immergersi in molta letteratura, di genere e non, e certamente le sperimentazioni di Calvino, che ad un certo punto nel disco cito direttamente, erano molto in alto nella lista delle mie suggestioni.
“La collaborazione con Lucie, che tra l’altro è anche la mia compagna nella vita, è nata molto spontaneamente. In origine avevo provato io stesso a leggere i testi ma i risultati erano catastrofici, dunque mi sono ricordato della bella voce di Lucie che ci aveva dato già una mano ai tempi di Discipula. Lucie non è una interprete, ha solo un bel timbro naturale ma è esattamente ciò di cui avevo bisogno visto che immaginavo una voce che navigasse i testi e le musiche con un tono un po’ assente, monocorde. La collaborazione con Lucie è durata poi con “L’Altra Parte”, brano uscito sempre su Canti Magnetici quasi in contemporanea a The Weaver, e infine con Untitled (an anecdote), una sorta di radiodramma commissionatomi dal festival Radiophrenia organizzato dal Centro di Arte Contemporanea di Glasgow nel 2022.”
Ripari Minimi, il tuo secondo album per Canti Magneti, si muove verso una direzione più propriamente ambient, con elementi generalmente post-punk o post-rock attraverso il suono del synth e della chitarra; quest’ultima conferisce un suono più classico, più compatto e consonante, creando il vero leitmotiv elettro-acustico dell’album. Parlaci dell’album, di come nasce e del ruolo centrale dello strumento a sei corde.
“La genesi di Ripari Minimi è stata antitetica a quella di The Weaver. Se con The Weaver avevo in testa un concept chiarissimo, con Ripari Minimi tutto quello che sapevo è che volevo e in qualche modo dovevo perdermi. Inoltre nel tempo intercorso tra i due dischi è cresciuta esponenzialmente in me la voglia di suonare, nell’accezione più dinamica possibile del termine. Insomma, creare collage sul computer mi sembrava limitante e soprattutto noioso. La sfida dunque è presto diventata: suonare si, ma cosa e come? Tra l’altro quando ho iniziato a lavorare a Ripari Minimi la mia chitarra era ancora a Londra (dove ho vissuto dal 2007 al 2016) a casa di un amico ed è entrata in scena solo in corso d’opera. Ho così iniziato a sperimentare con tastiere MIDI, sequencer, etc, etc. Sulla spinta del desiderio di suonare è poi venuto spontaneo pensare all’idea di canzone come template all’interno del quale sperimentare e così piano piano i pezzi hanno preso forma. Mi piaceva questa idea di creare canzoni imperfette, in qualche modo sbagliate, dove c’è sempre una tensione irrisolta tra la forma delle melodie e il magma informe ad esse sottostante. Ma devo dire che è stato un processo lungo, complesso, faticoso, dove mi sono sentito strattonato tra il tentativo di mantenere una coerenza di fondo tra le tracce e la vastità di possibilità che la tecnologia mi offriva (dopo The Weaver avevo notevolmente allargato l’arsenale di VST ed effetti a mia disposizione). L’arrivo della chitarra, e la successiva riscoperta di uno strumento che pensavo non avesse più niente da dirmi, mi ha infine aiutato a risolvere diverse questioni di scrittura e di “colore” dei pezzi ma soprattutto mi ha suggerito un approccio e una visione che adesso sto esplorando con molta più chiarezza ed essenzialità e che è al centro della mia pratica attuale. Se devo essere onesto sono legato a Ripari Minimi più per il processo e per dove mi ha faticosamente portato piuttosto che per il puro risultato sonoro ed estetico. A tutto questo aggiungo che l’arco di produzione del disco corrisponde ad un periodo per me esistenzialmente complesso, fatto di incertezze e dubbi che hanno trovato sicuramente una loro controparte nella genesi del disco.”
La Tana ha un’impostazione più astratta con campioni di voci distorte, un’idea molto simile che rimanda al precedente The Weaver. Essa è il preambolo di Insetti, dalla struttura ondivaga con elementi simil-clubbing; l’andamento spettrale e a tratti magmatico crea un’idea di suono in divenire, in cui si attraversano stati mentali proiettati verso qualcosa di estraneo, da cui un ideale tema del viaggio ricorrente in questo tuo lavoro. Parlaci di come si sono sviluppati i pezzi citati.
“Se Ripari Minimi ha un tema dominante, sicuramente si tratta della famiglia e delle complesse dinamiche psicologiche che si attuano all’interno di essa. La cosa interessante è che questo soggetto non era originariamente nei miei piani ma è piuttosto emerso in maniera più o meno subcosciente durante la produzione. In altre parole, solo quando il disco era concluso ho realizzato che: “OK, ho fatto un disco sulla famiglia”. Ma la cosa è tutto sommato naturale: sono padre di due bambini piccoli con i quali passo molto tempo assieme, il mio studio è in casa e il disco è stato registrato nel 2022, quando gli effetti del COVID e le sue costrizioni si facevano ancora sentire. Aggiungo inoltre come gli effetti della paternità abbiamo lavorato profondamente sulla mia psiche in questi anni: pensieri su fragilità, mortalità, responsabilità e temi simili sono diventati elementi molto presenti nel mio paesaggio mentale. Credo che tutti questi elementi abbiano quindi trovato modo di emergere spontaneamente sulla superficie dei brani caratterizzandoli in varie forme: nelle versioni finali di molte tracce ho deciso ad esempio di integrare suoni casalinghi entrati più o meno casualmente nei microfoni durante le registrazioni. Oppure La Tana, che è poco più di uno sketch ma che per me è molto importante nell’economia del disco, è stata costruita sulla base di una registrazione effettuata mentre i bambini guardavano un episodio di Spongebob. Infine le caratteristiche di un brano appunto come Insetti, la sospensione tra strati di suono di varia natura o quell’andamento un po’ stralunato che ritrovo un po’ ovunque nel disco, credo che rispecchino abbastanza fedelmente quello che era il mio stato d’animo nel momento delle registrazioni tra ancoraggio al presente e alle mie responsabilità e il desiderio di una fuga verso un altrove tuttavia astratto e vago.”
Ripari Minimi assume uno sviluppo compositivo che rimanda ad un meditato stile soundtrack. Un’opera che mi ha fatto tornare in mente il monumentale manifesto dedicato agli anni ‘70 di Aldo Moro Se Ci Fosse La Luce Sarebbe Bellissimo di Blak Sagaan (Maple Death, Kakakids, 2021). In particolare le ultime tre tracce (Conrad, Ermes, Il Primo Giorno) possiedono una struttura organica, fatta di suoni compatti in cui si ha un’idea armonia più classica ed elegante, in un’ottica propriamente cinematic. L’ultima Il Primo Giorno ha un finale tronco, in cui si alternano rumori sintetici in disarmonia, quasi a simboleggiare un viaggio incompiuto in cui si giunge ad una meta incerta. Parlaci dell’idea di questo finale e dell’effettivo o meno influsso della poetica soundtrack.
“Il Primo Giorno è un pezzo che mi piace molto e che per certi aspetti svela, da qui il titolo, la direzione in cui mi sto muovendo in questo momento: pochi suoni, minimali, ripetitivi e comunque caldi. E’ comunque interessante come ogni singola volta che mi trovo ad avere una conversazione con qualcuno o su un mio disco o sui miei live emerga sistematicamente la questione della poetica soundtrack o comunque di una qualità in qualche modo “cinematica” della mia musica. Quello che posso dire è che fino a qui non ho mai pensato o voluto intenzionalmente realizzare dei pezzi che fossero esplicitamente cinematografici o legati ad una estetica propriamente “soundtrack” (sebbene l’amore per parecchi autori del genere) ma da un po’ ho tuttavia dovuto riconoscere, a me stesso in primis, come questa cifra sia connaturata nella mia estetica sonora. Posso spiegarmi questa tendenza con da una parte un chiaro senso narrativo al quale faccio molta fatica a rinunciare: non riesco infatti a non pensare ad un disco o ad un live se non in termini di un arco narrativo. Dall’altro devo dire che penso spesso in maniera sinestetica. Quando lavoravo nel visivo la musica era la prima delle mie suggestioni e ora che lavoro con il suono moltissimi dei miei riferimenti arrivano ad esempio dalla pittura e dalla scultura. Riconosciuto e accettato questo tratto del mio suono ciò che comunque mi interessa adesso è provare a decostruirlo ed è qualcosa che in qualche modo sta succedendo con differenti modalità sia nelle mie cose nuove, molto più minimali rispetto a Ripari Minimi, che in un progetto nuovo assieme a Lucie dove, questa volta consapevolmente, proviamo a giocare con l’estetica di certo cinema e colonne sonore dei 60 e 70 per raccontare in maniera aperta e astratta le inquietudini di una famiglia di affittuari (la nostra) in una città come Milano.”