L’OVADA RECORDS, STORIA DI UNA PICCOLA ETICHETTA OSCURA
di Giovanni Panetta
Filo d'Arianna nei '90 DIY tarantini e non solo
Veronika Voss, Frantic, So What

Cover del singolo dei Veronika Voss Frantic/So What (1995).

La musica, si sa, è un flusso di coscienza attraverso il quale viaggiano idee, parole, emozioni (quelle tante), persone, storie piccole e grandi. Spesso però per molti risulta soporifero ascoltare qualcuno che ci spiega l’origine di una canzone, o la storia di un artista, anche se a volte proprio questo non ha alcuna importanza (fino ad un certo punto); per molti altri invece è eccitante tracciare, per l’appunto, un filo d’Arianna in tutti gli aspetti della musica. In contesto “localista” questo atteggiamento diventa ancora più prezioso, sia per il valore di quelle produzioni (anche se parliamo di lavori in piccola quantità), sia per schematizzare una porzione di storia giovanile (parliamo pur sempre di rock alternativo). Si parla dell’Ovada Records, etichetta in attività tra il ’95 e ’96 e fondata da Vittorio Amodio, ritirato ormai da quell’universo musicale, e in passato direttore della rivista Urlo (nata a Settembre nel 1983 come Urlowave, e per la quale uscivano già dei dischi come inserto). Passando per qualche banchetto dei vinili nel tarantino ti imbatti nell’esistenza di dischi pubblicati per questa misteriosa etichetta, come Frantic/So What dei Veronika Voss oppure l’EP Don’t Wanna Grow Up (…Like You) degli SFC (So Fuckin’ Confused): lavori risucchiati in un oblio che tutti conoscono e nessuno vuole dimenticare; il primo disco un pop noise oltre il suo tempo, il secondo un hardcore punk oltre ogni definizione e ortodossia. Di lì a poco nascerà un movimento più sensibile alla causa DIY, tra nuove etichette e gruppi che senza la comparsa dell’Ovada non esisterebbero, come gli stessi protagonisti ammettono. L’intervista approfondisce questo aspetto sotterraneo, chiamando all’appello, oltre Vittorio Amodio, anche gli artisti che in questa occasione fanno da portavoce, ovvero Vanni Sardiello, batterista dei Veronika Voss, e successivamente anche in gruppi come Mind Vortex, Fujiko e Lillayell, e il cantante e bassista Enrico De Vincentiis degli ancora attivi SFC. Ringrazio quindi chi ha partecipato a quest’intervista, nella speranza di indagare e far indagare su quell’effetto farfalla che ha generato la scena a venire e che ha dato i suoi ottimi frutti per tutti noi appassionati.

Vittorio, parlaci dell’Ovada: come nasce questa piccola etichetta discografica oscura, e quali ambizioni avevi per essa? Volevi promuovere solo gruppi locali o anche nomi al di fuori della provincia magnogreca? Come si doveva estendere la sua distribuzione? Inoltre, come mai ha avuto vita breve?

Vittorio Amodio: Era il 1995, e a quel tempo scrivevo per le testate specializzate (adesso non ricordo quale, ma ho scritto in ordine per il Mucchio, Velvet, Rockerilla, Rockstar, Blow Up, Buscadero…) oltre che produrre la fanzine Urlo. E proprio con Urlo da tempo pubblicavamo in allegato singoli di gruppi rock italiani. Inoltre curavo la direzione di Primavera Radio e fu in quel contesto che conobbi i Veronika Voss. Fui subito affascinato dalla loro musica, e non perché fossero di Taranto… erano bravi… attuali… dal vivo spaccavano. Così decidemmo di riservare a loro lo split con i Mirabilia uscito in quell’anno con due brani tratti dal loro primo demo registrato l’anno precedente. Ci accorgemmo che l’interesse intorno alla band cresceva così fu naturale pensare ad un nuovo singolo. Da lì nacque l’idea di Ovada Records. Nessun progetto particolare. Nessuna intenzione di promuovere un genere o gruppi simili. Ci serviva fare quel singolo. La stessa situazione capitò l’anno successivo. I SFC mi portarono un loro demo, frequentavano la radio… ed anche in quel caso mi accorsi che spaccavano. Erano diversi dai sonici Veronika Voss, hardcore veloce e potente. Una furia. Due singoli stampati in 1000 copie (che a l’epoca era il minimo sindacale per le stampe indipendenti, altri tempi, oggi si stampano 100/200 copie) e vendute prevalentemente dai gruppi ai concerti e per corrispondenza tramite Urlo. Un gran bella rassegna stampa… Ha avuto vita breve perché non è scattata con altri la stessa scintilla. Né io avevo intenzione di occuparmi di una etichetta .

SFC, So Fuckin' Confused, Don't Wanna Grow Up,

Cover dell’EP degli SFC Don’t Wanna Grow Up (… Like You) (1996).

Enrico, Vanni, all’epoca in una porzione di paese come il Sud Italia era difficile trovare un’etichetta che potesse diffondere la propria musica al di fuori delle logiche di mercato. I vostri rispettivi gruppi avevano già fatto stampare diversi demo, e quindi la creatività non mancava; penso che sentivate la necessità di far conoscere a molti la faccia indipendente ionica. Ce ne volete parlare? Qual era cioè lo spirito nel pubblicare per un’etichetta provinciale come l’Ovada?

Vanni Sardiello: In realtà successe tutto abbastanza all’improvviso, dato che di fatto, l’attenzione sui Veronika Voss da parte del pubblico, fu abbastanza immediata sin dai primi concerti. Pertanto, subito dopo il secondo demo, che capitò tra le mani di Vittorio Amodio, boss di Urlo, fu egli stesso a proporci, prima di uscire con un 7″ allegato alla nota rivista bimestrale, e successivamente di stampare un 7″ con una etichetta indipendente, da lui stesso fondata, la Ovada Records appunto. In questo caso, parteciparono in termini economici alla produzione degli amici di Grottaglie, sotto il nome di Delirum Tremens Records. Non ci è stato mai chiesto nulla se non quello di fare quello che sapevamo fare, il nostro miscuglio molto pop di noise e post-punk. Dunque totale libertà di espressione, come era all’epoca la logica delle etichette indipendenti. Non ci siamo mai sentiti propriamente parte di una scena ionica, abbiamo sempre avuto un piglio “internazionale”. Ovviamente però era a Taranto che ci muovevamo, probabilmente l’appartenenza ad un microcosmo fatto da persone figlie di operai del siderurgico o di manovali del porto, ha avuto la sua influenza su di noi. Ma in maniera inconscia. Di sicuro eravamo più influenzati dal cinema underground. Era il 1995 e qualcuno ci chiese se i Placebo si fossero ispirati a noi.

Enrico De Vincentiis: La collaborazione con Ovada è scaturita da due fattori: essere di casa a Primavera Radio (diventata nel 2007 Radio Pop Salento) ed avere in Vittorio Amodio un punto di riferimento critico e organizzativo. Infatti è vero che avevamo già fatto uscire tre demo tape ma nello stesso tempo eravamo completamente acerbi in quanto a distribuzione e produzione vinilica. Abbiamo imparato tutto da noi e Vittorio è stato uno dei tanti fratelli maggiori della generazione antecedente la nostra che ci ha aiutato con contatti e consigli, in più lui si è esposto personalmente perché credo che vedesse in noi e nei Veronika Voss il germoglio di qualcosa che non doveva rimanere sepolto. Nonostante la nostra un esperienza ci ha fatto commettere molti errori. I risultati da quel momento in poi sono stati enormi, e il disco è stato distribuito davvero worldwide dall’Argentina al Giappone, ha girato molto più del successivo LP Prigioni che, anche se prodotto da un etichetta più conosciuta come la Aaarrgh Rec di Modena, non ha varcato se non raramente i confini della vecchia Europa. Per concludere la risposta alla tua prima domanda, abbiamo risentito molto l’essere nati nei primissimi ’90 e cresciuti in una città come Taranto che non aveva per niente una scena particolarmente creativa. C’era un fermento è vero, ma strettamente da fruitori, noi ci siamo affacciati e interfacciati con una città che credeva di essere la Firenze del Sud a livello musicale ma che in realtà se non avesse vissuto gli anni del centro sociale Città Vekkia non avrebbe mai conosciuto una reale attitudine DIY e underground, cosa che altri posti avevano già da una decina d’ anni. Considera che tolto lo split di Urlo, Kina/Act, le uscite di SFC e Veronika Voss per l’Ovada sono i primi vinili della storia underground ionica e siamo già nel ’95. Questo dà da pensare, non credi?

Veronika Voss, 1996

Veronika Voss nel 1996, da sinistra a destra: Claudio Vozza, Vanni Sardiello, Gemma Lanzo, Gipsy Lonoce. Foto scattata da Augusto Petruzzi.

Vanni, penso che Frantic/So What sia una delle prove tangibili che il rock alternativo pugliese può confrontarsi con gruppi nazionali come gli Uzeda, o molto spesso anche con altri protagonisti del noise mondiale come Sonic Youth, Butthole Surfers, Archers Of Loaf, Treepeople e altri… Un suono che deve molto alle intuizioni atonali di quei gruppi, associato al suono particolare della tua batteria. In Frantic scandisci un beat bel calcolato, azzarderei a dire quasi motorik, per poi deviare nella seconda parte in un free noise completamente caotico, insieme a suoni in libertà del chitarrista Gipsy Lonoce e del bassista Claudio Vozza. So What è giocata su pieni e vuoti che si alternano in una sfuriata di matrice punk, per poi trovare momenti di equilibrio attraverso tempi più rilassati, e la batteria in tutto questo gioca un ruolo di colonna portante, con la consueta cornice rumorista. Penso quindi che potevate raggiungere la stessa fama dei già citati Uzeda, con cui tra l’altro avete suonato una volta intorno al periodo della pubblicazione di Frantic/So What, senonché i Veronika Voss si sciolsero subito dopo quel periodo. Nonostante questo e visto il potenziale, come fu accolto il singolo da critica e pubblico? E qual era la vostra percezione di questo 7″?

Vanni Sardiello: Quel 7″ a cui fai riferimento e di cui avevo già parlato prima, era semplicemente composto dalle due canzoni che in quel momento ci rappresentavano maggiormente. Da un lato il taglio sonico e pavementiano di So What, dall’altro la furia noise di Frantic, ispirata nel suo incedere ad un brutto incidente automobilistico che avemmo nell’ottobre del ’94, mi pare. Il singolo fu accolto molto bene sia in termini di recensioni sulle riviste specializzate (ricordo con enorme piacere un sonoro 8 su Rumore), sia dal nostro pubblico. Sicuramente ci permise di farci conoscere anche al di fuori della Puglia grazie anche ad una rete fittissima di scambi ai banchetti delle autoproduzioni, cosa molto frequente ai concerti dell’epoca. Ti ringrazio per i tuoi particolarissimi appunti sul mio modo di suonare, in effetti io non sono mai stato un virtuoso, non lo sono nemmeno ora nonostante i quasi 30 anni dietro lo strumento. Di sicuro suono con il cuore e con tutta l’intensità che posso esprimere con le bacchette fra le dita. Penso che la musica non debba necessariamente sinonimo di virtuosismo, il ritmo frenetico e costante, nella mia testa, deve servire principalmente a scandirne le intenzioni e le tensioni. In questo sicuramente gli Uzeda sono stati per noi maestri, abbiamo cominciato questa avventura praticamente suonando per caso di spalla a loro, a Taranto nel 1992. Siamo rimasti letteralmente folgorati dai 5 catanesi e all’epoca tutti noi decidemmo che avremmo voluto seguirne in qualche modo le orme… È poi capitato di fare nuovamente un concerto con loro, a Potenza nel 1995, probabilmente nel momento di massimo splendore per noi. E poi di recente, nella reunion estemporanea che abbiamo improvvisato nell’estate del 2018. Un concerto meraviglioso, sicuramente per partecipazione di pubblico… eravate davvero in tantissimi.

Enrico, l’EP Don’t Wanna Grow Up ha un suono godibilissimo: un lavoro melodic hardcore, che gioca con intuizioni più metal, e vicino a gruppi anni ’80 come Screeching Weasel e Descendents (questi ultimi più nella forma che nella sostanza); in particolare si sente un tocco più meditato, aldilà al mero senso melodico: tempi che si distendono e si addensano, sonorità più distorte una volta e più accoglienti subito dopo. Dal mio punto di vista una pianificazione del suono che funziona per tanti ascoltatori di musica cosiddetta “altra”. Penso che le ispirazioni nel vostro caso siano tante, ma parlaci del contesto locale; com’è stato suonare quel tipo di punk in quegli anni a Taranto? E com’è stato accolto in quel periodo Don’t Wanna Grow Up da ascoltatori prossimi e non (cioè che responso ha avuto in altre città)?

Enrico De Vincentiis: So Fuckin’ Confused rispecchia pienamente nella musica il senso del suo nome. Abbiamo da sempre mischiato hardcore primigenio, punk rock, ritmi in levare, e bordate metal, senza mai definirci crossover ma solo ed unicamente punk hardcore, “Jonico hc” per l’esattezza; un’etichetta che poi avrebbe definito un vero e proprio sottogenere con Hobophobic, Sud Disorder e tanti altri. Rispetto a questo punto invito all’ascolto della compilation Taranto Hardcore A’ Use’ Nuestr’, uscita nel 2014. Siamo praticamente nati e ci siamo consolidati e rafforzati tra le mura del centro sociale. Da lì traevamo ispirazione e per un periodo oltre ai concerti abbiamo anche suonato lì in una saletta “autocostruita”… Lì dentro siamo diventati quattro, quando inizialmente eravamo un trio e quella è la formazione del 7″ Ovada e di Prigioni. Per i dischi successivi ci saranno cambi ulteriori di line-up, ma a mio parere quella di quei due dischi è la formazione più solida e che ci restituisce al mondo per quello che eravamo in maniera trasparente. Il fatto di avere due metal kid con esperienza nel gruppo (Graziano Convertino era stato la “lead guitar” dei Disease, mentre Geni (Giacinto Solito [ndr]) la ritmica dei Dagger, due gruppi fondanti del metal Tarantino degli ’80/’90) ha donato al 7″ quelle intuizioni di cui parli, che, coadiuvate dal lavoro eccelso in studio di due fonici come Alessandro Paolucci e Ovi Sportelli del West Link, hanno dato a quelle canzoni che avevano un ossatura di hardcore melodico un tocco unico e facilmente riconoscibile. Suonare punk hardcore a Taranto in quegli anni era anche quella un’esperienza unica. Particolarmente unica aggiungerei, soprattutto considerando cosa sarebbe successo negli anni a venire, con la nostra città che diventa una delle roccaforti del sud per la musica autoprodotta e per l’hardcore in particolare. Era un’esperienza unica perché in pochi capivano quello che stavamo facendo, sta di fatto che piaceva non poco. Per quanto riguarda il responso che ha avuto il 7″ e poi l’LP in Italia prima e in Europa poi, ti posso dire che città come Firenze, Milano, Torino,Ventimiglia, Regensburg, Cheimnitz ci hanno praticamente adottato e ci sono stati alcuni concerti che sono ancora nella memoria e nelle ossa rotte di un sacco tra ragazze e ragazzi di età differenti. Abbiamo suonato tantissimo e in molte città nell’arco di questi trent’anni. Negli anni abbiamo continuato, e abbiamo fatto uscire Try Harder nel 2003, lo split con gli Hobophobic nel 2007, e il nostro ultimo lavoro, Bad News From Jonio Waste nel 2017. Nel mezzo tante partecipazioni la Compila Benefit (compilation del 2007 [ndr]) e una raccolta dei primi lavori e di inediti chiamata Ancora Prigioni nel 2012. Nel 2018 abbiamo suonato dalla Grecia a Berlino e ancora una volta è stata un’esperienza fortissima. Il futuro è solo dietro l’angolo e abbiamo canzoni nuove da suonare e persone da incontrare, nonostante la brutta aria che tira politicamente e socialmente tutta intorno a noi.

Vittorio, ci sono state altre occasioni di ripristinare l’Ovada, anche solo per ristampare quei dischi? E domando ai musicisti, avete come progetto di ripubblicare anche con un’altra etichetta i vostri lavori succitati?

Vittorio Amodio: No. Ma se lo volessero fare non mi opporrei certamente.

Vanni Sardiello: Se solo riuscissimo a vederci un po’ più frequentemente, avremmo l’intenzione di tornare in studio e registrare un po’ di cose rimaste orfane di registrazione all’epoca, e magari risuonare qualche vecchio brano, per poter fare il disco di lunga durata, che negli anni ’90 – purtroppo – non siamo mai riusciti a realizzare. Abbiamo avuto delle offerte in merito, chissà…

Enrico De Vincentiis: Non credo che ristamperemo mai Don’t Wanna Grow Up, certo se qualcuno me lo proponesse lo farei di corsa perchè odio la copertina di quel disco. Non ho seguito quel particolare passaggio grafico perchè non ero a Taranto in quei mesi. Mi piacerebbe rifare la copertina ed inserire i testi che in un disco punk hardcore per me non dovrebbero mancare e che invece sono assenti.

Dopo l’Ovada sono nate e si sono sviluppate diverse etichette più durature: la Psychotica, la Lemming, la HysM?… promuovendo artisti di fama nazionale e non solo come Beirut, Logan, Lillayell, HysM?Duo, Makhno, Bogong In Action, Mushroom, Virus, Dots, etc… Chiedo a voi tutti, sentite di aver influenzato quel filone alternativo con il vostro spirito “do it yourself”, dal momento che molti di quei gruppi sono di Taranto?

Vittorio Amodio: Non credo che ci sia un legame tra il nostro lavoro e il loro. Del resto se lo chiedi penso che neanche ci conoscono. Io ho smesso da tempo di occuparmi in prima persona di musica. Anche Urlo che ha avuto una lunghissima vita era realizzato a Taranto ma poteva nascere anche a Canicattì. Non c’era un vero e proprio legame con la città. Magari la radio di più… Io personalmente oltre ai due gruppi pubblicati su Ovada avevo avuto un interesse solo per un paio di altre band locali: i Panama Studio (ma parliamo del 1983) e successivamente gli Act. No, non credo di aver lavorato molto per la scena locale.

SFC live

SFC live al Bubuse7te di Firenze nel 1995. Da sinistra a destra: Giacinto Solito, Guido e Enrico De Vincentiis, Graziano Convertino. Foto di Elena Manni.

Enrico De Vincentiis: Considera che alcune fra le etichette che hai menzionato, come del resto certi gruppi, sono frutto di una mente geniale come quella di Gaspare Sammartano (owner della Lemming e batterista dei Bogong In Action [ndr]), che ha condiviso molte volte il palco con SFC e sicuramente apprezza e conosce bene il nostro percorso, le canzoni e l’ attitudine, ma non credo sia stato particolarmente influenzato dal gruppo in sé, mentre dall’atmosfera e dal circuito creato dall’hardcore targato Taranto sicuramente. Come lo sono stati writer come Nocci o giovani rapper. E ovviamente Fido (Guido De Vincentiis, fratello di Enrico [ndr]), che di SFC è stato fondatore, batterista e chitarrista e che ha organizzato insieme ad altri moltissime situazioni punk DIY tra i ’90 e ’00 prima di intraprendere il suo cammino in solitaria nel mondo reggae, ragga e dancehall. (preciso che il lunghissimo tour del 2018 ha visto di nuovo Guido dietro la batteria e che spesso partecipa ai concerti di SFC cantando le canzoni scritte da lui). Per meglio rispondere alla tua domanda credo che gli SFC abbiano influenzato più gruppi della provincia, la città molto meno. Basti pensare a paesi come Crispiano, Massafra e Grottaglie su tutti dal ’98 in poi hanno sfornato moltissimi gruppi (quasi tutti presenti nella compilation A’ Use’ Nuestr’, che ho citato prima) che hanno seguito il tracciato quantomeno attitudinale e alcuni anche stilistico dei Confused.

Vanni Sardiello: Beh, nei Lillayell ci suonavo la batteria, è stata la mia più bella esperienza dopo i Veronika Voss (e prima dei miei due nuovi progetti, Comfy Pigs e Crampo Eighteen), per quanto molto mutevole nel corso degli anni 1999 – 2006 in quel di Pisa. Michele Maglio, che aveva messo in piedi questa bellissima etichetta (Psychotica Records), inizialmente per stampare i suoi lavori con i meravigliosi Logan, di seguito ci prese gusto e offrì la possibilità di pubblicare dischi a tantissime bands di piglio noise provenienti da tutta Italia. Non so bene quale siano state le motivazioni per spingerlo poi a chiudere questa parentesi, anche se immagino possa aver investito più soldi di quelli che gli sono effettivamente rientrati. La scena indipendente, a livello di vendita di dischi, non può prescindere da uno scambio continuo di contatti con persone di tutta Europa e non solo. Sono dischi che riesci a vendere quando suoni dal vivo… negli anni 2000 era già cominciata la stagione delle cover band, e ricordo che non era così facile organizzare un tour per suonare e promuovere la tua musica e quella dei tuoi compagni di etichetta. Però ricordo con enorme piacere concerti fatti insieme ad alcune delle band che hai citato. In particolare sono molto affezionato ai Beirut, bellissime persone…

Per concludere, uno scorcio sul domani: tra riviste specializzate moderne o gruppi attivi e appena nati come vedete il futuro italiano sonoro? E soprattutto pensate che a Taranto possano svilupparsi simili circostanze coinvolgenti e ricche, almeno per una buona fetta di pubblico, di cui voi stessi siete stati testimoni?

Vittorio Amodio: Guarda, seguo poco la scena ma credo che scavando c’è sempre del buono. Sulle riviste stendo un velo pietoso: su carta salvo solo Blow Up, mentre ho apprezzato tantissimo Sottoterra che però ha cessato le pubblicazioni. Del resto se anche Maximumrocknroll ha smesso di uscire su carta ci sarà un perché. Sul web non ne seguo. Non riesco a leggere sul monitor. Per Taranto boh… ogni tanto qualche iniziativa merita attenzione come ora il lavoro live del Caffè Letterario, di Tabir e più recentemente il Mercato Nuovo. Ci siamo divertiti con le reunion dei Veronika Voss o degli Act o quando capita di vedere live gli SFC sempre in attività. Non voglio dire che di nuovo non c’è nulla… ma solo che va trovato. Magari nelle cantine ci sono ottimi suoni.

Enrico De Vincentiis: Credo che la situazione per quanto riguarda il circuito DIY sia più che mai parcellizzata. Ci sono realtà in Italia, più o meno piccole che prosperano o in qualche modo resistono ed altre che sono sospese in un limbo senza prospettive. La nostra è una di queste, purtroppo. I “nuovi” gruppi, quei pochi che ci sono, di nuovo non hanno nulla. Sono infatti composti dalle stesse persone dei decenni precedenti. Non c’è stato ricambio generazionale e questa cosa, alla lunga, la paghi cara. Quindi, che dire, mi pare una situazione inerte e non proattiva. Forse solo nel Barese in questi ultimi anni ho constatato un fermento vero, con giovani che si mettono in gioco e lottano senza aspettare imboccate dalle solite vecchie glorie, ma anzi, tirandole/tirandoci in ballo, rinnovando energie sopite o quantomeno stanche. La nostra città, la nostra provincia e anche il Salento e il brindisino (che in un passato non troppo remoto erano diventate una fucina per gruppi, etichette e situazioni) vivono un momento di totale stanca, una secca creativa e propositiva che non fa sperare nulla di buono. Magari mi sbaglio. Magari. Ma non vedo luci all’orizzonte, solo riflessi di un passato sempre più lontano…

Vanni Sardiello: Troppo difficile fare previsioni, considerando quanto le cose si muovano velocemente e siano un po’ effimere ora. In Italia ci sarà sempre ottima musica proveniente dall’underground e com’è normale che sia, qualcuno riuscirà ad emergere, qualcuno no. Sicuramente c’è ancora più forte che in passato la tendenza al cantare in italiano, che in ambito rock può risultare davvero interessante ma anche molto ostico, a meno di non cadere nella banalità come (ma questo è un mio parere del tutto personale) nella maggior parte di ciò che ora viene comunemente chiamato “indie”. Taranto ha sempre avuto ottime potenzialità, spesso la musica nasce dal disagio e dall’esigenza di sottrarsi ad una routine fatta sempre dalle solite cose. Negli anni ’90, i Veronika Voss, pur senza alcuna pianificazione, furono un vero e proprio punto di rottura rispetto a ciò che esisteva sul territorio. Quel modo così atipico di suonare la chitarra di Gipsy, sicuramente influenzato dalla gioventù sonica, unita alle melodie e una certa facilità nella scrittura di canzoni “pop”, fecero sì che fummo ben presto sulla bocca dei ragazzini attenti a ciò che succedeva nel rock internazionale. E poi c’era Gemma (Lanzo [ndr]) alla voce, forse una cantante in una rock band dal suono dissonante, non si era ancora mai vista a Taranto. E nacquero ben presto tanti gruppi che dichiararono esplicitamente di ispirarsi a noi. Nacque una vera e propria scena. Mi viene difficile pensare che una cosa del genere si possa ripetere ora, ma magari mi sbaglio.

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