LO STONER LIQUIDO DEI LITTLE BOY LOST
di Giovanni Panetta
Intervista allla band dalla provincia di Padova
Little Boy Lost, Edy Cabrele, Andrea Saggion, Andrea Zandarin Erika Filippin

Immagine dei Little Boy Lost scattata da Erika Filippin.

Dopo i Raìse, Nikilzine rimane in territorio veneto, questa volta padovano, oltrepassando il confine del localismo che solitamente diffonde. A riguardo, similmente agli IONIO, duo elettrico le cui metà provengono da due città bagnate dal mare a cui fa riferimento (ovvero Taranto e Siracusa), e che sfoggiano uno stoner rock “sui generis”, i Little Boy Lost, precisamente di Curtarolo (PD), sono fedeli a questa descrizione. Il gruppo, che ha esordito come duo nel 2005 con la formazione Andrea Saggion (chitarra) e Edy Cabrele (batteria), sviluppandosi con qualche cambio di formazione e collaborazioni con eventuali bassisti, per poi, negli ultimi anni, integrare in pianta stabile nel progetto Andrea Zandarin al basso, ha saputo evolversi a partire da un suono minimale e cavernoso, per poi proseguire in una poetica più progressiva e, come da titolo, più fluida, attraverso un riempimento di vuoti che sorprende piacevolmente grazie all’apporto del nuovo arrivato Zandarin, ma di questo ne parleranno meglio Edy e l’altro Andrea, che molto gentilmente hanno accolto la nostra proposta di un’intervista.
Tornando a prima, e facendo un paragone tra nord e sud italo-musicale, mentre le trame degli IONIO sono più intricate e oscure, la musica dei Little Boy Lost è uno stoner più limpido, cristallino, un minimalismo dello spettro punk che va compenetrato e ascoltato con attenzione. E ne danno prova in Jaunt pubblicato a Marzo dell’anno scorso per l’etichetta locale È Un Brutto Posto Dove Vivere, il primo con Zandarin e che vede tra l’altro tutti i brani del precedente EP @_@ (“chiocciola trattino chiocciola”, uscito nel Gennaio 2015) trasmutati in una forma diversa, e nel quale il gruppo supera sé stesso per quanto già detto.
Approfondiamo quindi l’argomento con l’Andrea chitarrista ed Edy i quali, in quanto diretti interessati, ci sveleranno i dietro le quinte della loro avventura musicale.

Little Boy Lost, Jaunt

Cover di Jaunt (2019)

Allora, l’anno scorso è uscito il vostro ultimo album Jaunt, dopo un po’ di tempo da quando fu pubblicato il vostro EP @_@ nel 2015. Ci volete parlare un po’ di questo intenso periodo di lavorazione, da come si può evincere ascoltando la vostra più recente fatica?

“Ciao Giovanni, sì, l’anno scorso abbiamo pubblicato il nostro terzo album ufficiale, che è sostanzialmente la definitiva evoluzione di ciò che nel 2015 è stato @_@ e, prima ancora, Sim (2012) e Suisound (2007). Il percorso di lavorazione all’album è partito ancora nel tardo 2016, ci abbiamo fatto una gran pre-produzione nel 2017 e abbiamo cominciato le registrazioni ufficiali solo nel tardo 2018. Come mai così tanto tempo? Avere una band e mantenerla attiva non è proprio una passeggiata e si tratta fondamentalmente di problemi di budget. Chiunque nel settore può benissimo capire che, o hai i finanziamenti pronti di default, o devi sbatterti per far saltar fuori il necessario per cominciare un progetto dispendioso come quello musicale. Veniamo tutti e tre da famiglie completamente avverse alla musica o in generale ad ogni forma d’arte quindi, a differenza della stra-grande maggioranza delle band, non siamo cresciuti con una chitarra fiammante in mano o con dei parenti supporter, tutt’altro. I nostri lavori partono da centinaia di ore in sala prove ad arrangiare e sistemare le canzoni, poi si prova a registrare i brani in casa, li si ascolta e infine se ne fa una scrematura per arrivare alle dieci, dodici canzoni che comporranno l’album prossimo. Jaunt, in particolar modo, è l’album che ha richiesto più cura nei dettagli, è il primo album ufficiale con un bassista pro, Andrea Zandarin, il quale è stato coinvolto completamente nella stesura dei brani. Un lavoro a tre teste, non un album solista mascherato da band”.

Ricollegandoci a prima, ho notato che Jaunt segna un’evoluzione del vostro sound. Con l’aggiunta di Andrea Zandarin, i ruoli di chitarra e basso vengono spesso ribaltati, sfondando la barriera tra componente ritmica e solistica. Questo amplifica un possente sound smussato, pieno di riverberi e dissonanze. Invece ascoltando i precedenti lavori ho notato una maggiore propensione per uno stoner minimalista comunque degno di nota, invece con @_@ c’è un netto cambio di rotta, in cui convergono intuizioni più sghembe; infine, con Jaunt avete raggiunto l’apice proprio per quanto detto, e vi auguro di continuare su questa strada.
Sonorità e attitudini che si sono sviluppate nel corso del tempo, ma vi chiedo, com’è nata questa ambivalenza fluida tra ritmo e melodia nella vostra recente formazione? È nata spontaneamente o di proposito?

“Andrea Zandarin, the Bassman, ha portato appunto una gran quantità di freschezza e fluidità sonora ma, soprattutto, ha portato se stesso. Nei precedenti lavori, Suisound in particolar modo ma anche @_@, tutte le canzoni erano composte da me e Edy, chitarra e batteria. Essendo il progetto nato principalmente come power duo il discorso era piuttosto immediato: riffone di chitarra, traccia di batteria, traccia vocale ed il più delle volte tanto ci bastava. Già nella lavorazione di Sim però decidemmo di arruolare un bassista per darci quella pasta sonora e quella tranquillità mentale nei live che prima ci mancava. Non fu un disastro ma sicuramente un’esperienza orrenda, dovuta principalmente dal fatto di non aver trovato la persona giusta, ma probabilmente la più sbagliata in assoluto. Con Andrea Zandarin le cose si sono ribaltate, sarà stata la sua profonda conoscenza della teoria musicale e del suo strumento o chissà ma abbiamo cominciato ad avere fiducia in un terzo componente, tanto da dargli completamente carta bianca nelle sue parti. Possiamo dunque affermare che questa fluidità di cui ci chiedi sia nata di proposito. Abbiamo voluto arrivare a questo e Zanda ci ha aiutati moltissimo. Cercavamo uno come lui e, grazie a noi, l’abbiamo trovato”.

Andrea, so che hai studiato letteratura inglese all’università. Ci vuoi parlare in che modo utilizzi le tue conoscenze nella scrittura dei testi? In più in Dabstep sonorizzate un discorso di John Fitzgerald Kennedy; quindi in che modo vi sentite legati a quella figura storica?

“Sì, mi sono laureato in Lingue e Culture moderne nel 2008 e, ben presto, mi ritrovai nel bel mezzo di un cataclisma economico e culturale che ci ha portati alla situazione attuale. Ammetto di non avere sfruttato forse il periodo migliore della mia vita, avrei forse dovuto cominciare a lavorare prima, questo mi ha causato non pochi problemi personali. All’improvviso tutto quello che avevo fatto o creduto fino a quel momento si era rivelato inutile, a volte dannoso persino, quindi ebbi un momento in cui dovevo assolutamente decidere che fare della mia vita. Decisi di continuare in tutt’altro settore e di riservare quel poco che avevo imparato all’università, o a scuola come mi piace chiamarla, alla musica e all’arte in generale. Principalmente in Sim si affrontano alcune tematiche classiche del pensiero occidentale, in quell’album ho proprio colto l’occasione per poter fornire la mia versione personale sulla vita e l’arte.
Per quanto riguarda Dabstep di Jaunt e la sua correlazione con Kennedy devi sapere che è stato tutto piuttosto casuale. Nel novembre del 2018 eravamo in studio, avevamo la versione strumentale completa della canzone quando, tutto ad un tratto, Franz, il nostro produttore, ci chiese se avremmo voluto inserire qualche traccia vocale o qualche parte di qualche discorso famoso, giusto per rendere la canzone più appetibile. D’istinto proposi il discorso di Kennedy a Berlino. Kennedy a Berlino: un presidente americano che viene accolto come un eroe in una Germania ancora devastata dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. E’ un discorso famosissimo e analizzato in ogni suo aspetto dagli storici, con la metrica della canzone ci stava bene e l’inserimento in essa si risolse piuttosto velocemente. Non ci sentiamo legati a Kennedy in particolar modo ma bisogna ammettere che la sua storia è stata veramente incredibile, per come è si è svolta e per come si è conclusa. Un vero eroe americano”.

Parliamo delle vostre ispirazioni: quali sono i vostri punti di riferimento musicali? Per quanto riguarda lo stoner, secondo me, oltre un po’ ai Kyuss e QOTSA, in diverse parti di vecchie tracce vi ricollegate agli Sleep, mentre nei lavori più recenti applicate la stessa formula seppur in maniera differente dei rapsodici Fatso Jetson. Voi cosa ne pensate?

“Tutta la musica del deserto americana ci ha influenzati, è innegabile. Però abbiamo cominciato ad ascoltare i Kyuss solo nel 2006, dopo aver già pubblicato e composto diverso materiale, le somiglianze e le affinità c’erano in effetti, ma la vera influenza da loro esercitata su di noi è stata quella di averci trasmesso la convinzione che musica come la nostra si poteva davvero fare e addirittura pubblicare. Pazzesco. Poi il punk, se non fosse per il punk probabilmente non avremmo mai osato accelerare alcuni pezzi”.

Per quanto riguarda la vostra formazione a due, mi colpisce molto quella scarnità di suono, ma non in senso dispregiativo. Penso che il minimalismo, a tutti i livelli, sia una caratteristica che dovrebbe essere contemplata più spesso dai musicisti. Inoltre il vostro duo chitarra/batteria si abbina bene con il vostro stoner cavernoso, nonostante apprezzi di più il vostro ultimo sound, che esalta la vostra impostazione succitata. Ma nei precedenti anni, come vi siete trovati o adattati nella versione a due voi Andrea e Edy, senza la colonna portante di un bassista? Come vedete il vostro passato?

“Il nostro passato è importantissimo. Abbiamo pubblicato Suisound che io avevo 23 anni, il batterista 20, là è racchiusa tutta nostra giovinezza, tutte le nostre speranze e i nostri sogni. Tutto quello che è venuto dopo è solo l’inevitabile voglia di riuscire a rivivere quelle emozioni, di cercare di capire come diavolo avessimo fatto a fare una band di sole due persone e creare un progetto che funzionasse nonostante appunto la propria minimalità e, fondamentalmente, genuinità. Era dura già allora ma c’era molto più entusiasmo. Adesso, quando la depressione sale e batte forte, cerchiamo di ricordare quei tempi e cerchiamo di ritrovare i motivi che ci spinsero ad intraprendere questa e quella battaglia. Siamo come delle persone che non ci vedono, cercano nell’oscurità finché non riescono ad impugnare saldamente il loro bastone che li ha aiutati a spingersi fino a qui. E si cammina di nuovo. Il passato è la prova che hai avuto la tua occasione, che c’eri e sei esistito, pensiamo sia molto importante, visto come andrà sicuramente a finire”.

Arriviamo all’ultima domanda: ci volete parlare dei vostri problemi futuri, interrotti presumibilmente per l’epidemia Covid-19? In ogni caso vi auguro buona fortuna per tutto.

“Progetti futuri al momento sono tutti in stand by. Abbiamo avuto la fortuna di riuscire a finire il tour di Jaunt prima dell’esplosione di questa epidemia di Coronavirus ed è già tanto. Siamo stati fortunati. Adesso siamo tutti barricati in casa e l’unica cosa che si può fare è stare a casa e lavorare dal computer. Abbiamo già diverse tracce nuove pronte da suonare in sala prove ma non sappiamo proprio quando e se si sistemerà tutto”.

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