Allora, io odio fare i classici discorsi nostalgici sulla musica datata e che “erano meglio quelli di prima” e che “come si facevano le cose una volta non si fanno più” – ma, vi giuro, a parlare dell’ultimo album dei Cabaret Voltaire (o meglio, di Richard H. Kirk, che dopo 26 anni torna ad usare l’alias del gruppo per pubblicare un album) mi riesce difficile. Non è in realtà l’album che ho ascoltato di più quest’anno, né probabilmente quello che ritengo migliore, però è sicuramente l’album che più mi ha colpito, stupito, piacevolmente sorpreso.
Se riavvolgiamo il nastro su tutte le direzioni che Kirk ha seguito nella sua carriera, il senso di stupore aumenta sempre di più: dal 1973 fino agli anni ‘90 assieme ai Cabaret è stato fondamentale per lo sviluppo di generi come l’industrial, il synth-pop a tinte dark, la techno, l’house e giù di lì; ha infuocato i dancefloor di mezzo mondo con la bleep techno di Sweet Exorcist, in casa Warp Records; da solo, ancora, già nel 1983 nell’album Time High Fiction aveva mischiato fra loro elementi dub, proto-house, dark ed echi elettronici sperimentali, e avanti così sotto miliardi di alias (Electronic Eye, Sandoz, Terrificante…): insomma ci aveva visto lunghissimo sin dall’inizio e ha continuato riuscendo in qualsiasi genere egli esplorasse.
Domanda: arrivati al 2020 è mai possibile che Kirk possa ancora avere delle idee sorprendenti ed entusiasmanti?
Risposta: ovviamente sì. La prova è appunto Shadow Of Fear, edito dalla Mute Records, un album che ci sputa violentemente in faccia quanto masticato negli ultimi 40 anni da Richard. Pur essendo a tutti gli effetti un disco solista di Kirk, è un album MOLTO Cabaret Voltaire e dev’essere per questo che il nome della band è stato riportato alla luce dopo 26 anni (esclusi i live): il disco si apre con Be Free, una sorta di, boh?, mambo industrial, con questi tastieroni e questi vocioni sinistri che si trascinano su un ritmo ballerino, tutto congas sintetiche e cowbell – e va be’, perfetto per calarti in quell’atmosfera da euforia mista ad angoscia tipica del suono Voltaire, che all’inizio dell’album ha ancora bisogno di qualche secondo per ingranare.
Ecco, cercate di immaginare quest’album come un giro da soli in macchina alle 3 di notte, fra le vie vuote della città e i neon delle farmacie che ti urlano che si è fatto tardi. Arrivati alla elegante marcetta rumorista The Power (Of Their Knowledge), abbiamo solo ingranato la seconda.
Con l’attacco della Roland 808 su Night Of The Jackal, con quel groove così early house (un po’ à la Problem #13), il basso tondo tondo ed essenziale, iniziamo ad aumentare i giri, iniziamo a muovere il piede, anzi, iniziamo proprio a ballare. E non stiamo ballando su un revival anni ’80/90, stiamo proprio ballando sul 2020, perché non c’è MAI – in tutto il disco – quell’olezzo vintage, quella sensazione di vecchio-che-vuole-suonare-contemporaneo. Lo spirito dei Cabaret Voltaire c’è, l’album è coerente e ha reminiscenze dei migliori episodi della loro carriera, ma si sviluppa qui ed ora, è originale, inedito, e soprattutto (che è quello che conta, al di là di discorsi su presente, passato e futuro) suona da Dio. La cura dei suoni è veramente appagante, il modo in cui si amalgamano e si bilanciano pure, la coesione dei pezzi fra loro è assoluta, pur avendo matrici ritmiche e sonore molto diverse.
Ad ogni modo sulla BoardsOfCanadiana Microscopic Flesh Fragment e su Papa Nine Zero Delta United (molto da film, non sfigurerebbe in mezzo alla colonna sonora di Dark o Stranger Things) si continua a sviaggiare evitando le buche più dure, finché Kirk non decide di farci ribaltare con l’incredibile Universal Energy. Basso un po’ italo/wave, drum machine nervosissime, disturbi sonori qua e là e tornano i vocioni tremanti, la tensione è al massimo, io sto ballando di brutto mentre scrivo, insomma siamo davanti a un pezzone EBM/new beat con tutti i crismi. Non sfigurerebbe su un impianto da club anzi manderebbe fuori di testa chiunque; dura 11 minuti ma è multiforme, a un certo punto entrano di prepotenza delle percussioni afrocubane micidiali, il beat incede instancabilmente – OK, probabilmente sto esagerando, ma come avrete capito è il mio pezzo preferito dell’album, è coinvolgente, entusiasmante, accattivante. Decisamente l’acme di Shadows Of Fear.
Si continua con la techno abruzzese di Vasto (c’è chi sostiene che si chiami così proprio perché qualche anno fa i Cabaret Voltaire suonarono al Siren Festival, nell’omonima cittadina adriatica, ed è bello pensare che sia così). Bassi e kick belli rotondi e sotterranei rimbalzano tra di loro portando avanti un groove spinto, il quale ormai ha deciso di squarciare la nostra autovettura e di gettarla in mezzo alle fiamme. E quindi l’album si chiude così, lasciandoci alle spalle le esplosioni, mentre camminiamo e ondeggiamo sull’ultimo brano, un dub kraut dalle influenze funk con tanto di fiati e numerosi sample vocali, mentre Kirk stesso ci chiede: What’s Goin’ On? Be’, non sappiamo bene cosa stia succedendo, ma sicuramente i Cabaret Voltaire ci regalano dopo anni un album bello, ricco di spunti e momenti topici, e lo fanno in un periodo in cui l’interesse verso l’EBM e il post-punk nella scena clubbing è ormai cresciuto a dismisura e in cui quindi la loro eredità artistica rivive e verrà, speriamo, approfondita e presa a modello.
Sicuramente un album del 2020 che rimarrà in riproduzione anche nell’anno venturo, magari nei club, quando verranno riaperti. Personalmente, rimane una profonda e sana invidia verso Kirk, un ragazzo di 64 anni è capace di plasmare dischi di musica elettronica totali, affascinanti e mai banali.