Negli ultimi decenni e rispetto alle altre città della Puglia, la scena barese è quella che ha meglio espresso il suo potenziale pop; un melodismo storto che trova le sue origini nella psichedelìa (That’s All Folks!) e in suoni rumoristi di derivazione jazz (Bz Bz Ueu), per poi svilupparsi in qualcosa di più “arlecchinesco” e allo stesso tempo più nuovo. Nella Lepers Productions il manierismo è di norma, e i vari artisti che l’etichetta ha scritturato esprimono sonorità più disparate, tra consonanza, suoni tenui e rumore.
L’owner della Lepers ovvero Giuseppe Laricchia, alias Superfreak e di origini baresi, ha da poco pubblicato il suo ultimo album, Explain To Me Your Meme. Il lavoro, che oscilla tra un pop sghembo e considerazioni sull’argomento dei meme dell’etere digitale (derivate dalle letture di Lexia, Rivista di Semiotica, la quale ha approfondito quel tema), risulta essere quello che maggiormente ruota intorno ad un punto focale rispetto quelli precedenti di Superfreak; quest’ultimo si è sempre dimostrato un eccellente scrittore di canzoni, tra Daniel Johnston e intuizioni free jazz/no wave, e con un approccio originale. Explain To Me Your Meme risulta essere più scorrevole proprio per essere il più studiato, e grazie all’apporto più marcato di musicisti con pregresse e importanti esperienze: Superfreak, già in Bokassà, Centauri, Arabia Saudade ecc., il quale ha registrato le parti di voce principale, chitarra, basso e tastiera, Jacopo Fiore (HysM?Duo, La Barba Della Montagna) alla batteria e Andrea Caprara (Squacicatrici, Jealousy Party, e collaboratore quasi onnipresente nella scena) al sassofono.
Abbiamo scambiato qualche parola con Giuseppe, sul suo lavoro, e la sua storia tra passato e futuro. Di seguito l’intervista che approfondisce meglio quei temi.
L’ultimo 4 Dicembre hai pubblicato il tuo ultimo album, Explain To Me Your Meme. Era da tempo che non pubblicavi un uscita da solista, ovvero cinque anni dal precedente The Ancient Fish Appreciation Society. Quali desideri ti hanno indotto a tornare a seguire un percorso creativo a nome tuo? E qual è stata la genesi del disco?
“Cavolo, cinque anni! In realtà non ho mai smesso di scrivere e registrare musica per Superfreak solo che ci ho messo un sacco di tempo. Avevo definito un album subito dopo il primo, però Rella/Everest Magma mi fece notare che era troppo simile al precedente e non molto ispirato. Sono ripartito da zero nello scrivere i pezzi cercando però di eliminare il più possibile la chitarra, partendo dalla pianola. Ho buttato giù un paio di bozze, le ho mandate a Rella e Jacopo Fiore (ormai i miei fari) che mi hanno detto di continuare su quella strada. Da lì in poi sono partiti lunghissimi carteggi su whatsapp e una giornata di registrazione al Tracklab di Fasano con Roberto Stomeo e Fabrizio Semeraro“.
Il tema ricorrente dell’album sono per l’appunto la “viralità” e il fenomeno dei meme dell’etere digitale. Complice del fulcro narrativo è Lexia, Rivista Di Semiotica, la quale approfondisce il tema di questa “viralità” attraverso una raccolta di saggi del 2018. Il tuo modo di trattare il tema è contraddistinto da un’ironia leggera e intelligente tipica del tuo songwriting. Ma come mai la scelta come focus dei meme, tra l’altro nell’ordinario ma poco usuali come tema in un album noise pop?
“Diciamo che il tema è arrivato insieme all’idea di partire dalla tastiera. Sono arrivato tardi ai meme e spesso non li capivo, poi ho iniziato a leggere gli articoli di Gabriele Marino sul tema e mi sono reinteressato alle letture universitarie di semiotica, mi sono iscritto a diversi canali su telegram con valanghe di Meme e incredibilmente il tutto si incastrava alla perfezione. Un giorno magari sarò anche io un memista come il signor Silvestri”!
Musicalmente, Explain To Me Your Meme è un disco più compatto; tutte le componenti del suono hanno un’ulteriore completezza, e strutturalmente c’è stato un lavoro di scrittura molto meditato. Si può percepire un tratto derivato dalle precedenti esperienze come Arabia Saudade e Bokassà, ma si possono sentire anche kraut e jazz. Un pop sghembo che come sempre si espande su più stili e generi, attraverso il lavoro magistrale di tutti i collaboratori. Ma detto da te, ci vuoi parlare della forma che volevi dare e hai dato al tuo nuovo lavoro, diverso per molti versi dai precedenti?
“Io volevo fare un bell’album pop da canticchiare un po’ tra Steely Dan e Ariel Pink e che fosse strutturato intorno a basso-batteria-sax-tastiera, penso di esserci riuscito in qualche modo”.
Si sente molto l’apporto dei tuoi musicisti con esperienze di rilievo e abbastanza diverse, e forse la completezza e la compattezza del disco deriva da questo. In ogni modo sarò forse spontaneo se affermo di vedere Explain To Me Your Meme nell’ottica di disco di un supergruppo; quindi, quanto è stato per te peculiare l’apporto creativo degli altri musicisti?
“Sicuramente ho la fortuna di conoscere gente bravissima che mi vuole bene e perde tempo a discutere con me. Jacopo Fiore e Andy Cap sono stati dei cuoricini facendo finta di capire di cosa stessi parlando e restituendomi soluzioni musicali allucinanti! Everest Magma e Lorenzo Incardona hanno mostrato una pazienza infinita rassicurandomi su produzione e teorie semiotiche che ho trattato in maniera un po’ tranchant”.
Parlando dei tuoi precedenti lavori, c’è molta diversificazione; in Since I’m Back In Bari è più presente una maggiore propensione per l’atonalità, mentre in Top Evidences Against Evolution c’è una melodicità più “jangly” (con scappatoie cacofoniche nell’ultima parte), e Love Or Diet è un noise pop eterodosso. Il tema sembra essere quello di unire dissonanza e consonanza, rumore e musica in un unico oggetto indivisibile. Ma secondo quello che è il tuo processo creativo, cosa accomuna i tuoi dischi, e con quale approccio li diversifichi, nonostante quegli elementi che emergono più evidentemente?
“Di sicuro prima di Top Evidence Against the Evolution gli album erano delle raccolte di canzoni sparse e forse poco omogenei. L’idea di fondo è sempre quella di fare delle belle canzoni solo che ora mi prendo più tempo e sono meno immediate: le scrivo, le suono, ne parlo, suono dal vivo degli abbozzi e poi butto giù la scaletta del disco, ne parlo un sacco con gli amici, penso agli arrangiamenti, le registro, riprendo a parlarne un sacco, le mixo e basta. Sono passato dall’istintività alla logorrea: forse il succo del mio processo creativo e parlare con gli amici che è sempre una bellissima cosa”.
Il tuo stile unisce pop a dissonanze che rimandano al free jazz. Soprattutto quando ti sento cantare e suonare mi viene in mente Daniel Johnston, anche se le due vostre poetiche sono molto diverse. Sta di fatto che ti accomuna al cantautore statunitense una certa naïveté che fa splendere i tuoi pezzi di una luce candida e distorta allo stesso tempo. Ma penso che ci saranno altri riferimenti. Quindi ti chiedo, quali sono i modelli musicali a cui guardi?
“Daniel Johnston è stato un faro illuminante e chi se lo scorda più. Oggi non so più quali sono i modelli di riferimento, ma durante la scrittura di questo disco ho ascoltato molto Peter Ivers, Philippe Katerine, Cate Le Bon, Ava Rocha, Plantasia e l’Incredible String Band, però quando ho fatto sentire i primi mix a Nicola Mazzocca dei Klippa Kloppa mi ha detto che era il mio Pet Sound ed effettivamente sono molto belli anche i Beach Boys“.
Speriamo di vederci il prima possibile, ovviamente dopo che alla situazione del COVID-19, abbastanza pesante, si porrà rimedio. Nell’attesa, ci vuoi dare qualche anticipazione sui tuoi futuri progetti sonori?
“Avevo progettato di suonare i pezzi dal vivo con una super band con Matteo Artetetra e Lorenzo dei Djeco a completare la formazione, ma vabbè non è cosa. Ora ho un po’ di progetti in sospeso: un improbabile album hip hop in greco bizantino (già coinvolti per ora i Trrmà, Everest Magma e Luigi Monteanni) e un album da completare con gli Arabia Saudade. Ci sono tanti progetti in embrione che però mi daranno l’opportunità di rinsaldare legami, conoscere nuove persone e vivere nuovi e fantastici momenti. Evviva”!