
Cover di Aquarius de Il Cloro. Artwork di Alberto Toti.
Il Cloro è un duo ravennate formato da Fabrizio Baldoni (basso, synth, elettronica, clarinetto) e Enzo Maria Ginexi (batteria, percussioni, sassofono), che ha attraversato nel suo percorso diverse categorie di sonorità. Dopo il navigare lungo suoni no wave, col precedente progetto Bon Ton per poi confluire per l’appunto ne Il Cloro con l’esordio VHS Punk & Paste, con l’album Sponga si contempla un nuovo approccio all’insegna di groove esotici, con il proseguimento verso un apparto più urbano e lateralmente avanguardistico (in associazione ad un’attitudine spontanea) grazie ad Aquarius, uscito per l’etichetta fiorentina UR Suoni nel 2023.
Parliamo degli associati temi con Maurizio Baldoni nella seguente intervista.
Cominciamo dagli inizi; come nasce il progetto de Il Cloro e con quali intenzioni?
“Il Progetto nasce come naturale evoluzione di una precedente band dal nome Bon Ton (Lemming Records). Eravamo un trio e facevamo un post punk noise disordinato. Io ed Enzo facevamo parte di quella band e decidemmo poi di tentare l’esperienza in duo. Comprai un campionatore che aggiungemmo alla chitarra, alla batteria e al sax. Così nacque il progetto Il Cloro.”
Il primo album VHS Punk & Paste (Lepers Produtcion, 2016) è un letterale collage di diverse sonorità, dalla no wave, al free jazz per passare poi attraverso un rumorismo à la Smegma. Parlateci di come avviene questo vostro esordio e l’associato stocasticismo.
“Scrivemmo quei pezzi in maniera molto veloce e libera senza preoccuparci tanto dell’identità e della compattezza del disco. Mi accorgo ora di alcune somiglianze con gli Smegma ma in generale ci piaceva i rumorismo libero e poco pretenzioso, ci piacevano gli Harry Pussy, anche se poi prendemmo una diversa strada. Il disco usci per la Lepers Produtcion, con una cassetta inserita in una confezione sottovuoto.”
Sponga (Lepers Produtcion, UR Suoni, 2019) si direziona in territori più concettuali, in cui si prefigura più del primo lavoro un suono afro ma con una valenza più atonale e lateralmente ieratica. I pezzi seguono geometrie essenziali, concetti immersi in un mezzo rarefatto ma espressi con precisione e senso di simmetria. Come avviene questo cambio di poetica?
“Sì, il cambio di sonorità è significativo. Abbandonammo le chitarre che sostituimmo per cosi dire con synth FX e grandi quantità di campioni. Nello specifico pezzi di gamelan indonesiano, ma anche campioni dal disco “afro” Moshi di Barney Wilen. Cosi ci avvicinammo alla world music ma più come ascolto di suoni provenienti da ogni parte del mondo che come competenza specifica del genere. Con un approccio poco tradizionale e anche un po’ posticcio aggiungemmo layer di suoni anche molto diversi tra loro, provando a tenere il tutto in una forma compiuta.”
Parlateci di Aquarius, il vostro album che esplora sonorità esotiche su uno sfondo urban e sperimentale. Un album ancora una volta diverso dagli altri, in cui questa volta un’atmosfera da clubbing ma in senso eterodosso avvolge il tutto. Il disco, pubblicato di nuovo da UR Suoni, riflette l’attitudine dell’etichetta fiorentina nella contemplazione di sonorità eclettiche e non occidentalizzate, in maniera diretta o meno. Ci volete parlare anche di questo legame?
“Giuseppe Laricchia della Lepers Produtcion ci disse che il primo disco (VHS Punk And Paste) era piaciuto a Federico Fragasso della UR Suoni. Federico ci organizzò qualche concerto a Firenze e quindi il secondo disco (Sponga) usci con entrambe le etichette con la Lepers Produtcion in cassetta e con la UR Suoni in CD. L’ultimo disco Aquarius è in linea con le uscite dell’etichetta e sposa appieno l’amore anche nostro per i suoni poco occidentali. Apprezziamo i lavori che escono per l’etichetta e condividiamo con Federico stima e amicizia. In merito ad Aquarius il disco è volto almeno come idea iniziale alle sonorità esotiche e tropicali. È il primo disco scritto via PC, usando sia suoni digitali sia suoni campionati da strumenti veri.”
L’intro di Waq Waq appare come l’ingresso ad un luogo di estrema e aliena vegetazione dalla consistenza astratta, i cui pattern grafici, che si fanno musica, sono strutturati secondo strutture euclidee che si esprimono in dettagli a grappoli. Un suono patinato ma che guarda alla complessità stocastica della mutant disco, sebbene in una versione più elettronica. Parlateci dell’idea dietro l’introduzione al vostro album.
“La tua immagine del brano è molto bella e con molti brani sono proprio le immagini o i film che ci spingono a seguire/creare un atmosfera particolare. Come dicevo l’idea iniziale era legata ad un immaginario tropicale ed esotico, anche se in una visione estetica lontana dal cliché di genere. Waq waq è uno dei primi brani scritti e rispetta appieno le nostre intenzioni. L’idea era anche di non cedere al fascino della complessità e dell’acerbo per tentare una via più diretta e compiuta.
“Il titolo del brano non significa nulla ma poi con il tempo ho scoperto che dei suoni sembrano “cantare” qualcosa di simile a waq waq. Ecco quello che proviamo a fare in realtà e farci sorprendere dalla musica, riuscire a fare qualcosa che ci sorprenda e che si discosta dalle cose che abbiamo fatto, o che sono più nelle nostre corde. Il pezzo è accompagnato da un video estratto da un documentario di Charles Fairbanks “Flexing Muscles” (2012) dove due lottatori di wrestling messicano combattono riprendendosi con una go pro.”
Il suono atonale di Bacurau prefigura, all’interno del simbolismo associato all’ascolto, paesaggi cubisti per via dei movimenti quasi serialisti dei suoni dal timbro rotondo e metallico. Il pezzo ha un’impostazione lisergica, più rarefatta, con pattern ritmici complessi da contrappunto. Parlateci di questo tuo stile più astratto, con una composizione di fondo consonante.
“Il pezzo è ispirato dall’omonimo film del regista brasiliano Kleber Mendonça Filho (2019). E’ un film che in Brasile ha fatto molto successo è una sorta di film western, politico, splatter, corale e bizzarro. Nella composizione del disco mi affascinava l’idea di scrivere una ipotetica e fantasiosa colonna sonora del film o meglio riuscire a rendere in musica le sensazioni e i paesaggi del film. I brani hanno poi preso altre direzioni, tranne in questo pezzo, prendendo cosi lo stesso nome del film. Successivamente all’uscita del disco abbiamo scritto altri pezzi più scuri, simili nello stile a Bacurau, tra questi c’è un pezzo dal titolo Urcionio, uscito via QR code con il libro di Gianni Romano dal titolo “Vergogna”, ascoltabile nel Bandcamp di UR Suoni, o acquistando appunto il libro.”
Aquarius, la titletrack, caratterizzata da sonorità funk e dub in senso barocco, conferisce all’album uno stile più familiare e con una dose massiccia di groove. Il formato potrebbe essere quello di una hit, nell’ottica di un’attitudine a dipingere schemi intimi ed espressionisti. Parlateci delle intenzioni dietro questo pezzo.
“Aquarius non nasce come titletrack, era in realtà un pezzo molto diverso e scuro che non riuscivo a chiudere. In quel periodo ascoltavo molta musica boogie e slow disco così ho tentato di dargli un po’ quella veste happy. Bassi quasi funk hanno tirato su l’umore del brano portandolo ad una forma molto barocca.”
Policarpo Manes si pone come un tappeto synth ambient che delinea dune di un deserto, con inserti dai pitch che compaiono più nettamente. Una chiusura che rassicura dal magma psichedelico e cosmopolita che caratterizza l’album, un chiaro omaggio non solo a sonorità più funk o jazz derivate dalla no wave newyorkese, ma anche dalla library music europea. Come avviene questa chiusura?
“Molti brani partono con un intenzione distensiva e rassicurante, ma poi dopo molto poco diventano spesso inquieti e ritmati. Ecco in questo caso mi sono fermato quasi subito e sono riuscito a mantenere un suono aperto che ritenevo valido per la chiusura del disco. Policarpo Manes è il nome di una via di Termoli e dopo tutti riferimenti cosmopoliti presenti nel disco, mi piace pensare che questo brano abbia qualcosa di mediterraneo, una sorta di come back home.”