
Cover di Frenton Cantolay, Artwork di Baiu Baiu (Riccardo Redeghieri).
Mondoriviera, ovvero Lorenzo Camera, è un artista di Ravenna che esplora un’elettronica ambient o generalmente dilatata secondo intuizioni legate ai canoni dell’estetica post-internet o internet 2.0. Rispetto alle altre uscite associate di Artetetra – per cui è uscito il suo Frenton Cantolay nel 2023 – includendo altre etichette DIY associate come Communion, Clam e Pampsychia, la release citata descrive paesaggi sempre policromati, quasi fiabeschi, ma attenendosi ad una liminalità più evidente caratteristica del nostro tempo, per mezzo di un’acidità glaciale e monotona, in maniera distensiva nell’espressione dei colori sonori. Dopo il precedente disco Il Tempio Degli Uomini Granchio, uscito nel 2020 per Riforma, etichetta sempre legata ai fermenti più recenti della cultura digitale più urbana, si conclude lo stesso discorso in maniera più coesa e centrale, sebbene il modus operandi rimanga comunque spontaneo. Frenton Cantolay è una concretizzazione di un pensiero astratto elaborato in tempo reale, ovvero una organicità fugace secondo una rivisitazione della semantica punk.
Discorso a parte è la OST immaginaria di Nott Longa (un EP uscito sempre per Artetetra nel 2021), in cui un videogioco che emana pitch digitali microtonali e angoscianti si materializza in occasione di ogni ascolto. La release, per la sua valenza oscura e d’impatto, rappresenta un outlier all’interno della finora breve discografia di Mondoriviera, dove l’aspetto fake si unisce ad un’adrenalinica virtualità che trasporta in una realtà isolata in contrapposizione con le luci caleidoscopiche di Frenton Cantolay e Il Tempio Degli Uomini Granchio.
Parliamo di Frenton Cantolay nella seguente intervista rivolta a Mondoriviera.
L’immaginario evocato dalla copertina realizzata da Riccardo Redeghieri (Baiu Baiu), permea nella forma il suono dell’album Frenton Cantolay, in particolar modo la prima traccia Compax; un percorso tra luoghi caleidoscopici e fantastici, secondo pattern metallici e luccicanti. Infatti l’accesso all’ascolto di questa release si prefigura più accogliente, verso sonorità liriche dall’estetica vagamente epica. Come avviene tale incipit nell’album?
“Sì, la parte iniziale di quel brano mi ha sempre dato un’idea di accoglienza celebrativa. Ho sempre pensato alla scena di Dreams (film di Akira Kurosawa del 1990, nda), dove gli spiriti del pescheto si presentano al bambino. C’è da dire che per la peculiarità della traccia non avrei saputo metterla in nessun’altra parte del disco.”
In Greko la struttura assume un aspetto più grown-up e urbano, in cui parti di beat articolate e a più voci accompagnano una melodia più semplice e di leggero impatto. Il disco qui assume un aspetto più ondivago tra due polarità opposte, in cui ci si introduce alla titletrack, più easy listening e vagamente titanica nella componente melodica. Come avvengono queste declinazioni verso un’accentuata eterodossia?
“Quello di accostare più tracce molto diverse tra loro è una cosa di cui davvero non posso fare a meno. Soffro molto di questo mio limite e nel vedere che altri musicisti riescono ad avere un’idea compatta con stile per un intero album, e invidio molto questa dote. Mi è comunque sempre stato faticoso ascoltare dischi per intero, quindi non voglio forzare troppo questa tendenza a fare dischi che hanno molte cose diverse all’interno. Mi fa piacere che la titletrack venga definita easy listening, mi ha sempre preoccupato molto come brano ma mi è piaciuta tanto, tra l’altro mi sono tolto un sacco di denti nel farla.”
Plutonium Baby Shower rimanda alle caratteristiche descritte nella precedente domanda, ma con un approccio più dilatato, non tradendo come sempre l’elemento metropolitano. L’estetica fiabesca rappresentata dal lavoro assume sembianze sempre più non-umane e dalla prevedibilità poco spontanea nello sviluppo di intuizioni sonore, in cui si slitta verso una sperimentazione sempre più estranea. È come se, dilatando il suono, da quella rarefazione si dia spazio ad una intuizione nietzschiana, un modo coraggioso sia per lo sviluppo di creatività che per la contemporaneità di elementi contrastanti. Dilatazione, netta istanza di un dualismo; come si combinano tali elementi nella tua poetica?
“Anche Plutonium era tra le mie preferite proprio per questo sentimento che mi ha sempre evocato la melodia portante e cioè di “tutto è già stato distrutto, tendenzialmente non c’è più nulla da fare, puoi provare a ricostruire e a mettere insieme i pezzi ma ti prego, non avere aspettative”. Riguardo al combinare questi elementi in una mia poetica non saprei bene cosa rispondere, il modo in cui escono i brani è molto basato sulla forza delle immagini che evocano. Io quando ascoltavo questa melodia mi immaginavo un gigante stanco che si trascina in una valle dimenticata da milioni di anni e mi funzionava in qualche modo. Mi piacerebbe che ci fosse un’idea profonda dietro ad ogni pezzo ma la realtà è che mi diverto molto a usare gli strumenti che ho e a emulare quello che mi piace. Penso che il 90% della mia musica sia spirito di emulazione e credo che sia ok.”
Dopo la techno/dub mesmerizzante di Barrisisi, la successiva Marzabotto è un flusso più delineato, in cui si dipingono pattern platonici fatti in maniera altalenante di glitch e timbri più netti. Nella seconda metà vortici di colori si delineano nel panorama, in cui il suono massivo permea forme plastiche e aerobiche. Come nasce questa stasi dallo spettro della familiarità per convergere verso un iperuranio creativo?
“Questi brani che sono in qualche modo gemelli, nella mia testa sono nati da un altro grande problema che ho e cioè: ogni tanto mi affeziono a degli strumenti fino a considerarli l’Excalibur della mia vita e a pensare cose come “questo strumento me lo porterò nella tomba”, anche se a volte magari sono dei software. Questo contribuisce nel bene e nel male a fare brani che non si somigliano per niente e alimentano quelle diversità in un disco. Ora sto più o meno trovando una quadra legata più allo che stile mi piace anziché al quanto mi diverte usare lo strumento. Lo trovo più sano sia per la mia psiche e sia per la mia musica. Comunque quello era il mio periodo VCV Rack, e volevo usarlo a tutti i costi, però sono i due brani che skippo ascoltando il disco diciamo.”
In merito alla domanda di prima, non mancano sonorità all’insegna della musica leggera, come in Feel The Rain, in cui un suono ambient appare ipnotico e spettrale, anche nel suo essere un pastiche di un noto pezzo pop; un simile discorso risulta valido anche per G.I.R.L., dalla struttura più dinamica e ritmica. Come avviene questa associazione tra istanza di tensione e pop?
“Sì, quella è una corrente che mi piace molto. In qualche modo è una forma di brano che mi ricorda che Justin Bieber è il codice di Hammurabi e viceversa, è proprio quel marchio di fabbrica di noi umani a spasso nel tempo. Credo che questo emerga di più in G.I.R.L. per gli archi synth che potrebbero essere magari la colonna sonora di quando Sodoma viene colonizzata dagli alieni. Feel The Rain a sua volta mi ha sempre dato delle emozioni più emo, però ho sempre amato il finale di quel pezzo, sembra quasi che sia un cyber battesimo di qualche cyber setta angelica appena dopo aver vissuto un’esperienza di cyber abbandono in mezzo a una cyber pioggia.”
In conclusione, volevo sapere se Riccardo Redeghieri di cui sopra è stato predisposto di alcune indicazioni per la copertina, in quanto, come prima accennavo, rimanda perfettamente ai colori e forme lateralmente liriche in senso alieno della musica che introduce. Pensi dal tuo punto di vista che ci sia un effettivo parallelismo tra elemento grafico e sonoro?
“No, non gli è stata data alcuna indicazione o reference. Ha fatto semplicemente il panico. Ha rotto il beat. Ha sfondato la quarta parete. Matteo Pennesi di Artetetra mi ha mandato una preview di come stava venendo l’artwork e io ero mega contento e tutt’ora credo sia la migliore copertina per quella cassetta. Tra l’altro esiste un poster gigante di quella grafica tipo 90×90. Assurdo. Baiu Baiu è completo.”