I Cowards e il garage psichedelico de Le Marche rivisitato
di Giovanni Panetta
Intervista ai Cowards sulla loro ultima uscita God Hates Cowards, pubblicata per Bloody Sound. Si ripercorre la fase creativa relativa all'album nonché le origini.
God Hates Cowards

Cover di God Hates Cowards, artwork di Iaia.

Composti da Giulia Tanoni (voce, basso), Luca Piccinini (voce, chitarra) e Michele Prosperi (batteria), i Cowards trova la formula giusta tra sonorità garage punk e più di rilievo influenze indie rock americano, con tracce più evidenti degli Hüsker Dü di Zen Arcade o i Sonic Youth di Daydream Nation o Sister, strizzando l’occhio anche ai Cocteau Twins. Navigando tra suoni più disparati, i quali attraversano stili spesso in contrapposizione, il progetto rivisita il garage rock krautizzato caratteristico de Le Marche in una forma più chiara e lineare secondo una formula legata al post punk attraverso ritmi ossessivi e il melodismo etereo dello shoegaze.

Nel 2025 esce per Bloody Sound l’album God Hates Cowards, su cui focalizzeremo la seguente intervista rivolta al trio marchigiano, delucidativa della associata fase creativa.

Cominciamo dagli inizi. Dal vostro primo lavoro omonimo del 2022 si evince la vostra energia che ancora non trapela del tutto, in cui la batteria di Peppe Carella ha un’impronta più tradizionale e eterogenea (rispetto la periodicità d’impatto di Michele), in un sottofondo di sonorità tra il garage rock in generale, l’indie rock americano (Supersonic) e uno psychobilly più rettilineo (Lose My Mind). Come avvengono tale esordio e le associate caratteristiche di suono?

“L’esordio è avvenuto con queste sonorità forse perché in fondo la nostra città ha sempre avuto una scena garage/rock’n’roll molto forte. Però quello che hai dentro e ti emoziona davvero prima o poi viene fuori! In alcuni brani si presagiva già (lo shoegaze, il post-punk e chiaramente il noise) ma eravamo ancora in esplorazione di noi come band e del nostro sound.”

God Hates Cowards è il vostro primo album nel segno di una esaustiva compiutezza, in cui si uniscono il sound originario con tendenze ossessive nell’esecuzione in cui si infonde un senso di dilatazione e maturità in senso più sperimentale, in cui la vostra musica non comunica direttamente solo con il suono nella sua fisicità o le parole. Parlateci di questo processo creativo.

“L’album è stato scritto in vari momenti anche molto discontinui. C’è da dire che di sicuro siamo molto discontinui perché molto impulsivi e poi un pezzo o va subito o non va. Per cui magari anche la ritmica a volte rispecchia questa immediatezza dettato dal momento in cui il pezzo è stato scritto. Poi le dinamiche, i momenti di vuoto e pieno, le doppie voci sono limature che facciamo risuonando il brano più volte in base alle emozioni inaspettate che ci trasmette.”

The Cowards

The Cowards, foto di Costanza Giorgetti.

Stay Away parla dell’intimo desiderio di allontanarsi da tutto, in cui è esplicativo il paragone tra suoni caustici e oscurità della notte, elementi legati secondo accezioni diverse ad una privazione di qualcosa. Un flusso monotono di parole cadenzate in senso ritmico caratterizza il cantato di Giulia all’inizio, delineando un vortice sullo sfondo della parte strumentale. Qual è l’effettivo significato del pezzo e l’ispirazione per quella interessante disposizione di accenti?

“Il pezzo scorre parlando con una calma decisamente rassegnata e cosciente del perché fuggire da qualcosa che ci logora diventa necessario e sempre più incalzante. Dagli occhi di chi non vuole che tu te ne vada è sempre apparso come una scappatoia facile, affascinante. In realtà è l’unica soluzione possibile che trova la sua profonda ragione nel momento più buio, dove tutto, nonostante l’amarezza, diventa più chiaro. Questa successione di accenti probabilmente rispecchia il fluttuare tra il restare e l’andare che c’è prima della vera decisione così come una sorta di cantilena per dover ancora giustificare qualcosa di evidente.”

Dystopian City sembra rimandare alla quotidianità delle ipocrisie di una città nascoste dalle mura domestiche, nell’ottica di una congeniale metafora. Il pezzo si muove tra garage e post-punk in maniera parallela, in cui uno spirito in pieno stile Sonic Youth e Husker Du, metabolizzando nel testo anche un certo sentimento della no wave proveniente direttamente dal Lower East Side che prende forse il sopravvento in maniera inconscia. Ci volete parlare dell’effettiva interpretazione che avete assegnato a questo pezzo?

“Il brano descrive un mondo distopico e più nello specifico una città distopica dove cammini e ci sono sguardi negativi e non ti senti al sicuro. Non ti ci senti soprattutto perché non sai nemmeno tu chi sei, e quindi hai ancora più paura dell’esterno. La diffidenza ti caratterizza e tiri dritto per la tua strada perché non sai di chi fidarti. Abbiamo cercato anche tramite i rumori, e non solo il testo, di indurre questa immagine che avevamo in testa.”

About A Friend, una ballata malinconica, racconta sinceramente la scomparsa di Peppe, in termini più diretti e personali, in cui si parla della sua storia e della vostra amicizia. Il pezzo è nell’ottica di un post rock dalle tinte eteree associate, con una certa componente ritmica che coinvolge la parte più melodica. La vostra intenzione era quella di creare una ballad intima, più dilatata ma nel vostro stile?

“Non c’è stata nessuna premeditazione, è stato un modo per mettere in musica il dramma che abbiamo vissuto. Ed il pezzo è venuto quasi da sé.
Se l’hai appellata come malinconica, forse quest’ emozione l’abbiamo trasmessa…”

3020 è uno dei vostri pezzi più incisivi, un pezzo kraut dalla frequenza e stile lapidari. Il drumming di Michele è in tutto e per tutto fulmineo e periodico, un kraut alla Klaus Dinger garagizzato, con una linea principale di basso di Giulia à la Devo di Q: Are We Not Men? A: We Are Devo!. Come nasce questa attitudine tra ritmi groovosi e monotoni?

“A dire il vero in questo caso il basso e la chitarra sono scambiati (Giulia chitarra e Luca basso). Di sicuro Michele al comando dell’autotreno stimola ritmiche che catturano e mandano in loop. Pochi cambi, si tira dritto. Questo brano è un ottimo connubio tra i nostri generi preferiti tra cui il noise in cui la chitarra viaggia da sola, a volte anche con dissonanze evidenti. Non ci interessa molto questo, l’importante è quello che ci comunica appena lo sentiamo. È il brano a cui abbiamo fatto meno ritocchi e probabilmente è coerente con l’impressione che trasmette.”

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