
Cover di Branes.
Giovanni Di Domenico è un pianista italiano residente a Bruxells, dalla produzione discografica in continuo ed intenso sviluppo, formata da più di 80 produzioni soliste e collaborative. Giovanni sperimenta sia con l’acustica che con l’elettronica, sviluppando un suono minimale ma al tempo stesso dinamico e dall’impatto fisico, realizzando in musica l’idea fervida e più che personale di “stasi in movimento”.
Tra le numerose collaborazioni di Di Domenico abbiamo il Mo(ve)ments Ensemble, un collettivo che l’autore e pianista di origine italiana dirige, il quale ha portato alla luce un primo album nel 2010, intitolato Terra Che Cammina, per la label belga Scopus; mentre nel 2023 pubblica insieme all’etichetta di ricerca pugliese Canti Magnetici Branes, un disco dalla manipolazione del suono più plastica e diversificata, nonché da una scrittura che naviga tra molteplici concetti astratti. Il Mo(ve)ments Ensemble è formato dai seguenti elementi: Ananta Roosens (viola verticale, tromba), Quentin Manfroy (flauto, flauto basso), Niels Van Heertum (eufonio), Stan Maris (fisarmonica), Kalle Moberg (fisarmonica), Manolo Cabras (contrabbasso) e Giovanni Di Domenico.
Inoltre Giovanni Di Domenico recentemente ha pubblicato anche un altro disco di collaborazioni (questa volta più datate, le cui registrazioni risalgono a più di dieci anni fa), ovvero Duos with Guitar, in cui partecipano tre autori e chitarristi, ovvero Norberto Lobo, Tetuzi Akiyama e Jim O’Rourke, tra cui uno mancato presente però nelle idealizzazioni musicali di Di Domenico, Hans Reichel, artista d’avanguardia deceduto nel 2011, sperimentatore che utilizzava strumenti e timbri diversi con un approccio sempre innovativo.
Per ulteriori informazioni su Giovanni Di Domenico potete approfondire leggendo quest’intervista pubblicata nel 2020, inerente alla sua uscita ISASOLO!, altra produzione per Canti Magnetici. Di seguito invece un’altra intervista rivolta allo stesso autore incentrata sui suoi ultimi album: Branes, Autothysis e Duos With Guitar.
Il primo tuo lavoro con Mo(ve)ments Ensemble, Terra Che Cammina, riproduce pattern sonori più compatti ed ordinati. Il debito è nettamente riconoscente ad una composizione legata alla musica contemporanea, in cui il concept si basa nel comprendere essenzialmente ritmo, melodia ed armonia. Parlaci di come nasce il progetto e le idee al suo principio.
“Terra che cammina fu ispirato da un paio di viaggi importanti, di quelli che “cambiano la vita”, in Asia e America Latina. E più in particolare da alcuni meravigliosi alberi conosciuti in quei viaggi. Dagli alberi al legno come elemento: mi è venuta voglia di montare un gruppo dove il legno fosse l’elemento principale (quindi essenzialmente archi e il clarinetto, oltre al piano anche se non è fatto solo di legno) e scrivere musica per esso.
“Stilisticamente è “giovane”, nel senso che io ero più giovane e la mia cultura musicale si stava formando (non che abbia smesso di formarsi, ma la consapevolezza adesso ha un ruolo certamente più importante di allora, dove la naiveté della scoperta era il tratto più preponderante), ero molto attratto dall’aspetto impressionistico/cameristico, dalle sottili architetture sonore che ensemble del genere potevano offrire a un compositore e da una fusione di tutto ciò con aspetti più improvvisativi che venivano dal jazz (e molto dal jazz europeo d’impronta ECM). Sono molto affezionato a quel disco perché è stato un punto di svolta per me, soprattutto a livello di scrittura.”
Con Branes sonorità più dilatate diventano centrali, attraverso un focus su una musica non solo basata sulla scrittura meditata, ma anche sull’associato effetto o resa, in particolare sui timbri. Parlaci del percorso che ti ha portato da Terra che Cammina a quest’ultimo lavoro.
“Dopo tanti anni ho voluto ritornare a quel gioco di scrittura cameristica che ancora mi attirava, ma passati più di 10 anni, con scoperte musicali fondamentali e con una veduta d’insieme molto più ampia, ho provato a tradurre in una nuova sonorità queste nuove scoperte/influenze, e certamente l’aspetto timbrico era fondamentale: il gruppo è più eterogeneo perché questa volta ci sono strumenti aerofoni (non uno ma due fisarmoniche, e un flauto, anche basso) e ottoni, oltre ai soliti archi e….il piano certo. Adesso sono molto attratto da armonie spettrali e aspetti compositivi più liberi, anche proprio lasciando più libertà ai musicisti coinvolti (l’improvvisazione libera, oltre a quella di idioma jazz, l’ho sempre fatta, ma a partire dagli anni 2010 è diventata molto importante per me): per questo gruppo i musicisti scelti hanno una personalità più spiccata e sono stati scelti in funzione. In generale sento che Branes è un disco molto più maturo (e ci mancherebbe, sennò che si cresce a fare!) e l’ispirazione (e il concetto) languidamente romantica ha lasciato il posto a una ricerca più intellettuale, più precisa e esigente.”
Il pezzo Moment Form è un fluire eterogeneo di diverse istanze sonore. Nell’introduzione ogni strumento prende la parola attraverso un dialogo monotonale, intermezzati dal piano. Il pezzo vero e proprio prende vita attraverso linee ondivaghe sempre del pianoforte che sormontano scambi di frasi tra i vari strumentisti. I suoni sembrano provenire da diversi generi e strutture compositive, tra rumore ed elementi di consonanza, o più largamente un suono che ha la funzione di descrivere concetti. Parlaci di questo brano e delle sue peculiari idee che introducono l’album.
“Moment Form è proprio un intro: un introduzione dei musicisti presenti sul disco e una presentazione delle “possibilità” che questo disco offrirà. Avevo scritto quelle mini frasi al piano e poi mi son detto che sarebbero state benissimo come interludi alla presentazione degli strumenti e dei loro suonatori. La seconda parte è invece come un condensato: le frasi del piano, del contrabbasso e di una delle fisarmoniche sono il tappeto magico su cui gli altri strumenti volano/volteggiano. Se la prima parte è piano VS tutti gli altri, singolarmente, la seconda è una battaglia più equa, con l’ensemble diviso a metà.”
Branes#1 e Branes#2 sono intermezzi più sospesi, costituiti da suoni più netti ed acuti immersi tra tappeti stocastici del piano e degli altri strumenti. Qui il tuo strumento a tasti sembra delineare spesso un paesaggio urbano, per via delle note sempre diverse che si susseguono, oppure tintinnii di cristallerie con modelli dalle forme più disparate. Parlaci della funzione di questi brani incentrati soprattutto nel descrivere elementi secondari.
“Proprio come dici tu: questi sono due brani “secondari”, nel senso che il disco è stato pensato principalmente con i due altri pezzi, lunghi e strutturati: però quei due pezzi insieme erano un po’ troppo poco per un disco, quindi durante le sessioni di registrazione abbiamo anche registrato qualche pezzo meno strutturato, dove avevo solo dato un paio di indicazioni (modo di suonare/altezza dei suoni/dinamica, ecc, ecc) e lasciato più libertà ai musicisti, poi io ho scelto/editato e mixato anche in un modo che fosse richiesto dalla musica, cercando ancora di più di far uscire la sospensione sonora, come due nuvolette (Branes#1 e#2) che ti portano a spasso tra valli e montagne enormi (gli altri due pezzi).”

Giovanni Di Domenico, foto di Andrea Messana.
Tema con variazioni entrambe disomogenee, il pezzo Ridendo e Scherzando è basato su una libera composizione nel vincolo dello schema imposto. Armonicamente la scrittura è contemporanea, in cui si susseguono asimmetrie nello svolgersi dell’esecuzione, secondo una imprevedibilità frutto di una volontà dai molteplici stimoli. Parlaci di come avviene la sua ambivalenza.
“Per Ridendo E Scherzando ho voluto lavorare con due concetti fondamentali, sia di scrittura che di interpretazione: il primo, di natura compositiva, è la contrapposizione tra fluire (la figura che piano/violino/flauto suonano) e stasi (gli accordi lunghi degli altri strumenti), il secondo concetto è la libertà interpretativa: la figura “fluente” di piano/violino/flauto è fluente perché i musicisti potevano liberamente dare il loro respiro alla pulsazione, al ritmo… mi spiego: ho scritto le note (l’altezza delle note) e un indicazione della pulsazione ritmica, ma il vero respiro lo decidevano a piacere gli strumentisti. Questo crea una “sospensione in movimento” perché ognuno agisce/reagisce in maniera personale a quello che sente fare agli altri, come in una passeggiata tra amici in montagna, ogni tanto qualcuno va avanti, qualcun altro resta indietro a pensare o guardare il paesaggio… Il tutto è “legato” dal contrabbasso di Manolo Cabras, musicista sardo con cui suono ormai da quasi 25 anni, lui ha libertà totale in questo pezzo, contribuisce in maniera fondamentale a creare questo “paesaggio” montagnoso, o del tipo che si preferisce, tra cui questi amici stanno passeggiando… In generale l’idea di “stasi movimentata” mi affascina molto, la si trova in tanti aspetti empirici della vita ma ancora di più in pensieri/sogni/epifanie… e la musica è perfetta per tradurre un concetto del genere.”
Autothysis è un album uscito in parallelo a Branes per la Granny Records. Il disco predilige l’utilizzo di microtoni in forma sintetica, delineando geometrie sghembe, similmente all’artwork della copertina. Infatti osservare la cover non solo permette di anticipare le suddette asimmetrie non euclidee, ma anche l’armonia quasi serialista, in cui si prefigura metaforicamente la suddetta non-delimitazione per quanti musicali, e un’entità totem che si manifesta liberamente su un piano continuo bidimensionale. Come nasce questo lavoro e la sua netta distinguibilità dal contemporaneo Branes?
“Autothysis è stato interamente registrato in uno studio di sintetizzatori e altre macchine elettroniche a Rotterdam. Uno di questi sintetizzatori è un KORG della fine degli anni 70 che è meraviglioso e che mi ha dato molta gioia suonare. La sua particolarità (che ne fa uno dei più rari e….costosi!) è che ha 12 oscillatori tutti intonabili, cosa molto rara all’epoca: hopassato giorni in quello studio a suonare quella bestia (e altre più o meno bestie), divertendomi come un matto anche a inventarmi le mie intonazioni, niente di concettuale o storico o quant’altro, solo fidandomi delle mie orecchie e di come suonava al momento. A me piace molto studiare, ma ancor più mi piace sperimentare, uno strumento come quel KORG mi dà un sacco di idee nel mentre li sto usando e ho bisogno veramente di avere le mani impegnate, non sono molto laptop o cose simili…”
Duos With Guitar è il tuo lavoro registrato tra il 2011 e 2013, in collaborazione con Norberto Lobo, Tetuzi Akiyama e Jim O’Rourke, e quella mancata di Hans Reichel (scomparso verso la fine del 2011), a cui è dedicato il lavoro. Il disco è in formato doppio LP, in cui ogni lato tranne uno è dedicato ad una specifica collaborazione.
In più, esaminando il contributo che collaborano in Duos With Guitar, la chitarra di Lobo appare fibrosa, dinamicamente magmatica nel segno del suo stile che più lo caratterizza. Qui attraverso il tuo tratto all’elettronica e al piano si palesa una silhouette sonora più distesa. Tale prima parte rivela un artigianato più plastico e libero, esprimendo un’espressività più rumorista e moderna. Con Akiyama l’esecuzione compositiva del piano si fa più astratta e dinamica, la quale si armonizza con il tratto aleatorio ed imprevedibile del chitarrista giapponese, in cui si cerca di dare spazio alle due parti dalle impostazioni in musica che vivono sostanzialmente di climi differenti. Con Jim O’Rourke hai una stretta corrispondenza artistica, e dalla sua storia c’è molto da imparare. Con la sua scrittura sempre diversa si trasmettono polarità opposte spesso combinate tra loro in maniera più netta od omogenea. Nel terzo lato del disco, in cui O’Rourke collabora, la sua componente costituita da feedback dronizzate si affiancano a parti di chitarra omogenee, un paesaggio spesso più familiare del tuo piano, disteso e maggiormente consonante.
Hans Reichel è stata una figura fondamentale nella musica d’avanguardia o più generalmente nel corso del tempo a partire dagli anni ‘70, con lavori sempre eterogenei tra loro ed innovativi, a partire dall’invenzione di strumenti che hanno reso tra l’altro il suo suono innovativo ed irripetibile. Il suo contributo in Duos With Guitar doveva essere un valore aggiunto, e sarebbe stato interessante quale tuo stile si dovesse combinare con il suo apporto solitamente granulare e dalle forme microtonalmente nette.
Parlaci di come è nato l’idea del concept e come si è sviluppata nel corso del tempo.
“La chitarra è uno dei miei strumenti preferiti, il primo che ho suonato da bimbo e uno che tutt’ora mi appassiona (nei suoi tanti usi musicali). Quindi qualche anno fa ho avuto voglia di fare un disco con solo chitarristi (anche se “solo” è riduttivo, specialmente se si parla di Jim O’Rourke e Hans Reichel…): avendo avuto la fortuna di conoscere prima Norberto Lobo e in seguito, dopo aver cominciato ad andare in Giappone spesso, anche Tetuzi Akiyama e Jim O’Rourke, mi son detto di chiedere se volessero farlo e hanno accettato.
“Con Norberto Lobo si è andati naturalmente verso un suono abbastanza folk, acido e quasi bluesy, con Tetuzi (l’unico di questi duo a essere registrato da “remoto”, gli ho inviato le tracce di piano e lui ci ha aggiunto la sua chitarra preparata) mi interessava il lato iper-minimalista, molto giapponese (quindi non il minimalismo americano), molto preciso e puntuale, con Jim era la prima sessione di registrazione che abbiamo fatto insieme e non sapevo molto cosa aspettarmi, mi ricordo il mare di armonici nello studio alla fine della take, quasi in sospeso nell’aria…
“Hans Reichel è sempre stato uno dei miei miti e purtroppo è venuto a mancare giorni prima che potessi chiedergli di partecipare… non ho mai avuto l’occasione di incontrarlo purtroppo, adoro i suoi dischi, soprattutto quelli con le sue chitarre custom-made (quindi “Bonobo” e “The Death Of The Rare Bird Ymir” su tutti) e me li sono ascoltati incessantemente, non avevo nessuna idea preconcetta (ancor meno che con gli altri “duos”), stavo solo sperando che fosse possibile e ci avrei messo tutta la passione e felicità nel fare qualcosa con lui.”