GIACOMO SFERLAZZO, UN URLO ATTRAVERSO IL MEDITERRANEO
di Giovanni Panetta
Intervista a Giacomo Sferlazzo. Sensibilità per il sociale da Lampedusa attraverso il Mediterraneo, con parole di cantastorie e suoni in libertà di genere etnico, free jazz e sample di lavatrici.
Marinmenzu

Cover di Marinmenzu (2021).

Nuovo album per il moderno cantastorie lampedusano Giacomo Sferlazzo. Dopo il precedente lavoro Arrispigghiativi, vicino alla tradizione del suo luogo, Sferlazzo si cimenta in un lavoro eterogeneo, ovvero Marinmenzu, tra impegno sociale, suoni in libertà di matrice free jazz, sample di lavatrici, e sonorità etniche. Numerosi i collaboratori: Jacopo Andreini (bouzouki, percussioni, sax, elettronica, batteria), Daniele Sepe (flauto traverso, sax), Charles Ferris (tromba, trombone), Piero Spitilli (basso), Matteo Bennici (violoncello), Marzouk Mejri (percussioni), Peppe Frana (‘ud elettrico, tar-hu), Antonio Putzu (sciaramedda, clarinetto), Chiara Locardi (percussioni e sample), Gérard Gourmel (che ha tradotto il testo di Lac dall’italiano al francese), Luca Zulu Persico che ha cantato nella traccia Come Un Mare Gravido Di Sogni, Michelangelo Severgnini che ha portato alcune delle testimonianze di ragazzi e ragazze subsahariani prigionieri in Libia, oltre ad aver suonato organo e contrabasso, e lo stesso Giacomo Sferlazzo, alle prese con voce recitata e cantata, chitarra e marranzano. Una musica che non risulta mai derivativa, continuazione in senso fervido del corpus poetico dei cantastorie siciliani, coniugando lotta per i diritti di un Mediterraneo ferito, il cui grido di giustizia ha come epicentro Lampedusa, e si diffonde in Palestina, Libia, Italia e tutto il resto.

Il disco, distribuito in formato CD in duecento copie numerate tramite Edizioni Precarie di Palermo, comprende un booklet con stampe originali, rilegatura a mano con punto giapponese, e un poster riguardante la traccia La Leggenda di Andrea Anfossi, che narra di un personaggio legato alla tradizione storica di Lampedusa.

Di seguito l’intervista a Giacomo Sferlazzo, sulle tracce di Marinmenzu, sui suoi temi tra passato, presente e futuro, attraverso un impegno politico sempre vivo e costante.

Cominciamo dall’ultimo disco, di nome Marinmenzu. Una release molto diversificata che va oltre il concetto di cantautorato, in maniera eterodossa. Ci vuoi parlare di come nasce la release, del suo interessante formato e del relativo concept?

“Io vivo in mezzo al mediterraneo ed i temi cruciali che lo attraversano e lo trapassano mi toccano da vicinissimo. Dalle leggende che uniscono e accomunano i popoli che si affacciano su questa patria liquida fino alle questioni più drammatiche come la militarizzazione, le migrazioni e le politiche neocoloniali.

“Marinmenzu nasce da questa appartenenza e da questa scelta di campo, da questo posizionamento e da questa presa di coscienza di far parte di una classe ben precisa e di una cultura millenaria, ricca di contraddizioni e differenze, di meraviglie e macerie.

“Volevo raccontare un pezzo di mediterraneo.

“Il libretto di Marinmenzu (20x20cm) è stato realizzato nel laboratorio di Edizioni Precarie, con il supporto tipografico della Tipografia dell’Università di Palermo, in tiratura limitata di 200 copie numerate, rilegato a mano con punto giapponese, riproduzioni di stampe fatte a mano con timbri di foglie d’ulivo e alghe, reti da pesca e timbri di pesci. Le carte usate sono due carte grafiche di gran pregio e nate dalle ultime ricerche sul riciclo della carta da parte di cartiere italiane, la Fedrigoni e la Favini, nascono dall’utilizzo di fibre riciclate, addirittura una nasce dal riutilizzo degli scarti della lavorazione del cuoio e hanno entrambe qualità materiche interessanti. A queste carte abbiamo aggiunto una carta usata come imballaggio per alimenti dal colore azzurro, un omaggio al colore del mare, e dal nome comune di carta Pelleaglio, nome poetico che ricorda la qualità al tatto e al suono della pelle dell’aglio, liscia e setosa, dal suono secco e croccante, non potevamo non utilizzare anche un elemento caratteristico del nostro lavoro, le carte povere da imballaggio per alimenti che si usano nei mercati di Palermo. La carta Pelleaglio, in questo lavoro, si accosta alle più pregiate carte grafiche con grande dignità, a ricordare che molto spesso bisogna guardare con occhi diversi la bellezza delle cose più semplici. All’interno del libro ci sarà, ovviamente il cd con l’album e anche un poster (45x45cm) su cui è stampata la Leggenda di Andrea Anfossi, narrata alla maniera dei cantastorie siciliani.”

Giacomo Sferlazzo

Giacomo Sferlazzo.

La Leggenda Di Andrea Anfossi racconta di un rapimento che si risolve tramite un’epifania di matrice religiosa, dove il suono è strutturato a fuga. È centrale il ruolo di Lampedusa quale meta intermedia, permeata da un misticismo rassicurante e ancestrale, con una certa sospensione ieratica nel tramandare un tema meraviglioso, confrontandolo astrattamente con il contesto reale, legato a temi più oscuri quali l’immigrazione dall’Africa. La tragedia del Mediterraneo ormai un vasto cimitero e della popolazione africana che scappa da una dittatura o dalla irrisolvibile miseria in quei posti necessita della spiritualità del luogo storicamente comprovata, mostrando in un certo senso solidarietà per quei viandanti. Come si collega il suono fugace in La Leggenda? Inoltre parlaci di cosa volevi esprimere realmente con il racconto su Andrea Anfossi.

“Sono stato sempre affascinato dai cantastorie e in generale dal mescolarsi delle forme d’arte. Nel cantastorie convivono poesia, musica, pittura e teatro. Il cantastorie ha una sua precisa funzione all’interno delle comunità ed affonda le sue radici negli aedi greci passando per i giullari e i menestrelli medievali fino ad arrivare ai “nostri” con in testa Ciccio Busacca, Orazio Strano e Turi Bella. Il “popolo” voleva sapere, voleva sapere quello che accadeva negli altri paesi, voleva conoscere le leggende e i fatti di cronaca come la storia della Baronessa di Carini. Con Ignazio Buttitta in Sicilia il cantastorie assume una dimensione politica di primo piano, con “Lamentu pi la morti di Turiddu Carnavali”, “Il treno del sole” “La vera storia di Salvatore Giuliano” e altre cantate, nelle piazze siciliane i cantastorie cominciano a toccare tematiche molto difficili come la mafia e il sindacalismo vero che all’epoca come oggi si paga con la morte per mano dei “padroni”. Da queste fascinazioni parto per ritrovarmi a scrivere in ottave di endecasillabi di una leggenda di cui Calvino scrisse “storia in sé bellissima”. Parto ancora una volta dalla mia smania di conoscere la storia dell’isola e puntualmente mi ritrovo a districarmi tra miriadi di lacci e fili che è la storia del Mediterraneo, una storia che mi appare come una grande rete da pesca tutta ammatassata che pazientemente va sistemata sciogliendone i nodi. Mi sono preso la libertà di superare lo schema classico dei cantastorie e cioè pochissimi accordi e una melodia sempre uguale che si ripete in maniera ossessiva e che viene ravvivata dalla capacità interpretativa del cantastorie. Abbiamo costruito degli arrangiamenti e delle sonorità che in qualche modo facessero dei paesaggi sonori e grazie ai grandissimi musicisti che hanno collaborato attraverso quei suoni possiamo intravedere di sfondo l’Egitto, la Tunisia, la Sicilia e ovviamente Lampedusa. Schiavi, eremiti, santi, icone sacre utilizzate come vele, corsari e nobili sono i personaggi che popolano questa storia. Come si usa fare nelle cantate, ho inserito dei temi etici e politici, in particolare l’attaccamento morboso degli uomini per il denaro e le cose terrene e allo stesso tempo la tensione verso il “divino” che abita in ognuno di noi, tensione che può essere anche tradotto, come nel mio caso, in sete di giustizia e richiamo ad una concezione di classe della storia. Qualcuno forse storcerà il naso nell’accostare il marxismo alla spiritualità, lo so, e lo capisco ma io questo sono e sento.”

Come Un Mare Gravido Di Sogni pone meglio la lente d’ingrandimento su una Lampedusa moderna, contraddistinta da un turismo basato sulla materialità, e spesso sul commercio di sostanze illegali, e anche dal razzismo. Esso si realizza attraverso il contributo, in quello che potrebbe essere definito il ritornello, di Luca Persico, in arte O’ Zulu, dall’impostazione più accessibile e che rende la traccia più eterogenea. Il pezzo, sia per contenuti che per sonorità è in contrasto con Andrea Anfossi, dove ciascuno di essi figura come controparte dell’altro e viceversa, seguendo una linea temporale, il dualismo viaggio/immobilità. Come si rapportano passato e presente, leitmotiv di questa prima parte di Marinmenzu, nel tuo concept?

“Subito una precisazione sulle “sostanze” io credo che il tema delle droghe vada inserito nel contesto capitalista e neoliberista dove ogni cosa assume la dimensione del consumo e del profitto. Le droghe potrebbero essere utilizzate molto diversamente e non fossero relegate alla sola sfera dell’intrattenimento e del “divertimento”. Non solo, più di una volta chi detiene il potere ha fermato alcuni movimenti che avevano potenzialità rivoluzionarie proprio immettendo nel mercato grandi quantità di droga, penso all’eroina negli anni settanta e a certo uso di LSD nell’America della beat generation. Non ne faccio una questione di moralismo o di retorica della salute. Purtroppo osservo come a Lampedusa alcune sostanze ed in particolare la cocaina oramai sia di facile accesso a ragazzini sempre più piccoli di età facendo danni incalcolabili. Ci si deve chiedere anche come mai questi ragazzini hanno tutti questi soldi in tasca e non riescano a trovare niente di meglio da fare, come mai non ci siano spazi aggregativi in grado di convogliare l’energia e l’intelligenza di queste generazioni, del resto sull’isola non ci sono mai stati spazi di questo tipo a parte alcuni tentativi ed oggi posso dire con un pizzico di orgoglio PortoM, il nuovo spazio culturale che abbiamo riaperto da poco. Per me passato, presente e futuro convivono e si condizionano. Il passato per me non è passato. Ritorna continuamente. Cosi come il futuro ha una certa dose di già compiuto. Convivono in me la spinta rivoluzionaria e l’accettazione fatalista. Ma non vedo il tempo ed i tempi separati e neanche li concepisco con la classica linea con uno zero che la divide in un prima ed un poi. Per me il tempo e coesistente, il futuro è già qui e il passato anche. Tutto è sempre qui adesso. Sul tempo si aprono mille discorsi e concezioni, può essere inteso come circolare o come lineare, può affondare le sue radici nel Crono/Saturno che divora i suoi figli per paura di perdere il suo potere. Io mi sento un viaggiatore del tempo e spesso mi sono trovato in contatto in maniera concreta con storie e persone lontanissime nel “tempo”. Questo in un certo modo va ad influire anche sulla mia musica.”

Per quanto riguarda Live In Alivi l’attenzione si sposta sulla questione palestinese; un racconto a più immaginari testimoni, contraddistinto da una purezza di espressioni e naivetè nei significati. Un reading strutturato a suite, dove il racconto degli ulivi, che prendono la parola sul sacrificio dei palestinesi da parte delle truppe israeliane, mostra solidarietà con quel luogo contraddistinto dall’avidità della terra, e dall’obnubilazione oscura che si interpone davanti ad un autentico apprezzamento di ciascuno di quei singoli elementi. L’urlo della Palestina si interseca con il tema della desertificazione, non solo della Macchia Mediterranea, ma anche dei valori umani, che caratterizza tutto l’album. In più una sezione strumentale improvvisata che implementa il valore espressivo dell’album. Ma parlaci del valore che dai all’ulivo nel conflitto palestinese; in più come avviene in te questa dicotomia tra parola verbale e musica in libertà?

“L’ulivo è uno dei segni vivi del mediterraneo, uno dei più belli e più importanti. Sono legato a questi alberi e agli alberi in generale in maniera profonda, credo di essere stato un albero. Gli alberi ci danno più di quanto noi riusciamo a comprendere, sembrano immobili ma sono esseri che si muovono di continuo attraversando spazi vastissimi. La Palestina già martoriata per mille motivi si ritrova a subire una delle pratiche più brutali che si possano immaginare e cioè lo sradicamento di ulivi secolari da parte delle forze militari israeliani. Quando ho visto le immagini delle donne attaccate ai tronchi per non farli sradicare mi è una venuta una fitta in pancia, un senso di vomito e rabbia, un senso di impotenza. In una notte ho scritto le parole e poi ho cominciato ad immaginare un concerto in Palestina dove il pubblico erano gli ulivi, ne ho parlato diverse volte con Jacopo Andreini e con altri amici ed amiche ma non c’è stato mai il modo di realizzarlo. Cosi ho pensato di registrarlo e grazie agli straordinari musicisti e a Jacopo Andreini lo abbiamo fatto. La musica e la parola da sempre viaggiano insieme. Non c’è narratore che non abbia con sé un accompagnamento musicale o un rimando alla musica. A volte questa musica ha degli schemi precisi, dei ritmi, una metrica e di conseguenza la musica si adatta in altri casi e qui veniamo al Novecento, le parole lasciano alcuni schemi rigidi e si lasciano cullare o tramortire dall’improvvisazione musicale. In questo album ho voluto sperimentare tutte e due le possibilità.”

Non mancano testimonianze dirette di quel tragico contesto; in Give Me The Oil, Take The Slaves parlano in prima persona quei martiri prigionieri dalle milizie libiche, o in generale schiavizzati in quella terra da una parte della popolazione afroasiatica; attraverso l’intervento di Michelangelo Severgnini (che suona nella traccia organo e contrabbasso) di “Exodus – Fuga dalla Libia”, un progetto che mira a raccogliere messaggi scritti e vocali di quelle vittime provenienti da Whatsapp e Messenger, veniamo a conoscenza di uno scenario claustrofobico, disumanizzato, dove i neri sono ridotti a schiavi, le donne violentate, e dove i più fortunati sono costretti a pagare risarcimenti facendo indebitare le famiglie aldilà del Sahara. Come si colloca nella release il tuo omaggio ad Exodus, e cosa ti hanno trasmesso quelle voci, che sono diventate parte della tua opera?

“Da anni vivo la questione delle migrazioni in maniera diretta. La mia militanza politica e l’esperienza con il collettivo Askavusa mi hanno fatto maturare delle posizioni molto precise. Di solito si tende a schematizzare il discorso sulle migrazioni attraverso due retoriche che sono apparentemente contrapposte ma che in realtà sono due facce della stessa medaglia. Porti aperti contro porti chiusi, pro o contro i migranti, accoglienza o respingimenti. Credo che si dovrebbe fare più di un passo indietro e capire perché sempre più persone decidono di lasciare il proprio paese. È un discorso lunghissimo che dovrebbe partire dal colonialismo e arrivare fino alle guerre contemporanee che siano queste fatte con le bombe, con i freddi numeri della finanza o con l’arroganza delle multinazionali che inquinano, derubano e sfruttano. Perché le persone lasciano il proprio paese? Il lavoro ovviamente è una delle cause principali e ne sappiamo qualcosa noi del Sud Italia. E il lavoro è proprio il nodo che ci porta alla seconda questione e cioè: perché la maggior parte delle persone non può viaggiare in maniera regolare? Pagandosi un biglietto e decidendo dove andare? Se andiamo a vedere le leggi e le politiche decise e attuate su scala globale a partire dalla metà degli anni ottanta si nota chiaramente come si sia favorita la clandestinità piuttosto che annali d’ingresso regolari, questo ha portato all’aumento dei lavoratori extracomunitari senza documenti e dunque sfruttabili e ricattabili. Lavoratori fatti passare prima dalla macchina disumanizzanti della frontiera con i suoi hotspot, il suo filo spinato e le sue innumerevoli divise. Una macchina che qualcuno ancora si ostina a chiamare “accoglienza”. Con Michelangelo ci conoscevamo perché anche lui si è occupato di questi temi e quando abbiamo cominciato a collaborare per il suo ultimo documentario (che ancora deve uscire) io stavo già lavorando a Marinmenzu e cosi gli ho chiesto di continuare a collaborare facendo un brano con gli audio messaggi che gli arrivano dalla Libia per dare spazio a quelle voci. Mi sono trovato spesso in conferenze o manifestazioni dove si parlava di migrazioni ma non c’erano i diretti interessati. Mancavano le loro voci e i loro punti di vista. Questo accade molto spesso. Così abbiamo fatto questo tentativo ed è uscita fuori Give Me The Oil And Take The Slaves di cui abbiamo fatto anche un video.”

L’epilogo Lac è un reading in francese tra suoni distorti di una lavatrice. Il giusto epilogo attraverso la voce recitata di Chiara Locardi. Un pezzo molto originale, che infonde una luce più intensa ma sospesa. Come avviene l’idea per questo pezzo?

“Apprezzo tantissimo Chiara e avevo scritto questa poesia sui confini che non volevo recitare o cantare io e pensavo anche che dovesse essere tradotta in un’altra lingua per dare all’album una dimensione che andasse oltre l’Italia. Avrei voluto che Chiara suonasse il basso in un altro pezzo ma non è stato possibile. Cosi abbiamo cominciato a ragionare sulla possibilità che fosse lei a dare una vita musicale. Chiara ha fatto tradurre la poesia a Gérard Gourmel  e quando mi ha mandato la prima versione ancora grezza con i suoni di lavatrice e la sua voce che sembrava uscisse da una caverna, che per quante ombre aveva tante luci mi è piaciuta tantissimo e sono grato a lei per avermi fatto questo dono. In generale Marinmenzu è un album collettivo in cui io principalmente ho fatto il regista e sono molto contento di questo.”

Parlando del precedente album Arrispigghiativi, c’è un modo di scrivere e suonare più quadrato a livello di concept e strutture dei singoli pezzi, ma con le dovute elasticità del caso; il suono è classico, ma molto diversificato, in cui ancora una volta è protagonista la tua isola che comunica con tutto il Mediterraneo. Parlaci di quest’album, e come si sviluppa il tuo corso verso Marinmenzu.

“Arrispigghiativi arrivava nel momento della perdita di un mio caro amico, Pasquale De Rubeis, a cui è dedicato. Stavo cominciando a scavare nella tradizione popolare siciliana, non solo musicale, ma anche “U cuntu”, l’opera dei pupi e il meraviglioso canto dei carrettieri. Sono canzoni con una struttura più classica, anche se non mancano le fughe verso altri mondi. Diciamo che La Leggenda di Anfossi segue quel percorso ma che in Marinmenzu si incrociano tante altre strade in cui mi sono perso e continuo a perdermi con molta gioia.”

Si può dire che la tua poetica è caratterizzata da un modo puro, da cantastorie, di porsi con il pubblico, e alimentato da un certo idealismo dichiarato nella tua poetica. In questo caso si può fare riferimento al concetto di ingenuità, intesa come purezza di pensiero che non si fa contaminare dal compromesso, nel tuo contesto, sia in senso musicale che ideologico, la cui implicazione è un’attenzione per temi attuali attraverso l’unione tra idealismo propositivo, ragione e considerazione per il reale. Essa incoraggia l’azione politica in ogni occasione, che ha come obiettivo la concretezza degli associati risultati. Facendo luce in  merito, ti chiedo che rapporto hai con l’ingenuità nella tua musica e come attivista, e da cosa scaturisce nel tuo caso?

“Se per ingenuità intendiamo  “purezza di pensiero che non si fa contaminare dal compromesso” allora posso dire che sono molto ingenuo, anche se vorrei spendere due parole sul “compromesso”.  Ci sono alcuni casi in cui il compromesso va preso in considerazione, ma al momento ho rifiutato sempre di compromettere le mie ragioni e le mie posizioni per fare successo o fare soldi ad esempio. A me interessa anche avere successo, amo suonare e recitare di fronte a tante persone ed è una cosa che mi fa stare bene ma non ho mai barattato questo per le mie posizioni. Posizioni che continuo a mettere in discussione se ci sono delle antitesi valide. Ci sono compagni come Fabrizio Fasulo che con i loro ragionamenti mi hanno fatto avanzare, ma devo prendere atto che sono rarissime le persone che basano la loro discussione sulla forza dei propri ragionamenti e che lo fanno in maniera gentile ed educata. Dunque posso risponderti che l’ingenuità così come tu l’hai definita è una parte fondamentale della mia musica e della mia militanza politica. Penso che scaturisca dalla mia ricerca continua, dalla mia curiosità  e dalla considerazione che ho per me stesso. Devo dire anche che la mia famiglia mi ha dato un’educazione e un amore da cui sono stato condizionato per tutta la mia esistenza. Loro mi hanno sempre detto di non cambiare le mie idee e i miei comportamenti per il giudizio degli altri ma allo stesso tempo di rispettarli e di ascoltare tutti. Le idee e le posizioni devono assolutamente essere il presupposto delle azioni e devono coincidere, altrimenti ci areniamo sulla famosa circostanza di chi “predica bene e razzola male”. Le idee si devono incarnare nelle azioni. Non sempre questo è possibile, perché spesso i contesti in cui ci muoviamo non dipendono solo da noi. Per finire io posso dire questo: di avere più di una volta rinunciato a dei benefici personali per cercare di essere coerente con le mie posizioni e le mie affermazioni, sia sul campo artistico che su quello politico (sfere che in realtà non riesco mai a separare del tutto). Per fare un esempio pratico una volta la Open Society ci propose di finanziare l’esperienza di raccolta ed esposizione degli oggetti delle “persone migranti” che come collettivo Askavusa portiamo avanti da anni e abbiamo risposto un secco “No” la rappresentante di Open Society non se lo aspettava e mi disse che era la prima volta che qualcuno rifiutava un loro finanziamento, lo stesso si può dire di una fondazione legata a Benetton che nel 2014 ci propose la stessa cosa attraverso una mail che in seguito fu resa pubblica in cui tra le altre cose dichiaravamo “Il progetto del Museo (Oggi PORTOM) è ancora in itinere e, consapevoli della sua ambiziosità, cerchiamo di definirlo giorno per giorno. Quella che cerchiamo però di tener ferma è l’autonomia che un tale percorso dovrà immancabilmente avere: autonomia finanziaria ed economica (cosa di certo non facile specie in tempi del genere) ma soprattutto autonomia politica.” e ancora “Non riteniamo, con tutto il rispetto, che la fondazione che Lei rappresenta possa dunque divenire un partner per il nostro percorso. Il legame con il Gruppo Benetton già da solo basterebbe a giustificare il nostro rifiuto. Si tratta infatti di una grande multinazionale dell’abbigliamento, grande proprietaria terriera in Argentina, a danno delle popolazioni Mapuche, coinvolta negli strutturali processi di esternalizzazione della produzione laddove il lavoro vivo è più docile e a basso costo. Le stragi come quelle di Dacca, in Bangladesh, sono solo le più evidenti manifestazioni, le più appariscenti e mediaticamente circolanti escrescenze, di uno sfruttamento e di una distruzione quotidiani, costanti, che giorno per giorno i grandi attori del capitalismo mondiale, come Benetton per l’appunto, perpetuano. Le grandi migrazioni di cui Lampedusa è teatro involontario e di cui il Museo vorrebbe essere testimonianza, si originano proprio dall’operato dei tanti Benetton che operano nel mondo. La stessa idea di “responsabilità sociale dell’impresa” riteniamo che sia una, senza dubbio fine ma ipocrita, politica culturale del capitale contemporaneo; con questa politica culturale, con il suo appeal gestito da adeguate strategie di marketing, si provano a legittimare le politiche di perdita di sovranità degli stati e il sempre maggiore ruolo egemonico dei gruppi privati multinazionali nella governance di intere società.”. Avremmo potuto prendere i soldi e fare come fanno la maggior parte delle realtà che si occupano di migrazioni giustificando la nostra scelta in mille modi diversi. Un altro esempio sul piano musicale lo posso fare con la manifestazione organizzata a Lampedusa da Baglioni “O scià” avrei potuto suonare su quel palco insieme a tantissimi musicisti di fama ma non mi sono mai piegato a quelle logiche e al messaggio di normalizzazione e retorica che la manifestazione veicolava. Non nego, specie nelle primissime edizioni, che avrei voluto suonarci, ma quando ci fu, nel 2011, la possibilità di suonarci io feci una critica pubblica a quello che stava accadendo a Lampedusa e delle responsabilità del governo Berlusconi, del Ministro dell’Interno Maroni e di una parte di imprenditori locali (tutti sostenitori della manifestazione e di Baglioni per motivi economici). Un amico che stava provando per suonare in quell’edizione assistette ad una telefonata tra Baglioni ed un altro amico musicista che suonava ad O scià. Baglioni si era innervosito per il mio comunicato. In quell’edizione Baglioni invitò pubblicamente Maroni e Berlusconi a suonare sul palco di O scià e della mia partecipazione non se ne fece niente. Sono orgoglioso che sia finita cosi. Lo stesso ma con altre sfumature accadde con Rosi per Fuocoammare. Potrei raccontare altre cose ma ci vorrebbe un libro.”

Giacomo Sferlazzo

Giacomo Sferlazzo.

Rilevante inoltre è la componente sonora in libertà di Marinmenzu, tra free jazz e etnicismi avvolgenti. Una musica che si lega solenoidalmente in maniera barocca intorno le parole di una razionalità diretta dai diversi colori. “Elastico”, ”libertario”; sono proprio aggettivi con cui descriverei la tua musica, diversa dalla maggior parte dei cantautori-cantastorie più ordinari. Parlaci della cura del suono da parte tua; come ti rapporti con la musica?

“In generale non sono mai soddisfatto al cento per cento. Mi sembra sempre che manchi qualcosa o che qualcosa si poteva fare meglio. Da anni collaboro con Jacopo Andreini che secondo me è uno dei migliori produttori di musica che ci sono in attività e tra le mie idee e le sue riesco ad avere un suono e degli arrangiamenti che migliorano ad ogni lavoro. Per me la musica è fondamentale sia come ascoltatore che come “cantautore”, [e] purtroppo non scrivo la musica ed è una delle cose che mi piacerebbe imparare, di solito compongo in testa o con la chitarra in alcuni casi lascio spazio ai musicisti di fare delle proposte.”

Tra te e Taranto c’è stato un rapporto che non è andato a buon fine. Infatti ti è stato negato di essere ospite al Concerto del Primo Maggio nell’edizione 2016, nel quale avresti parlato della militarizzazione di Lampedusa e della relativa questione delle migrazioni. Possiamo dire che al posto tuo ha parlato l’allora sindaco del comune di Lampedusa e Linosa Giuseppina Maria Nicolini, che ha offerto una visione incantata di isola accogliente, vicina alla politica europea, che mette da parte i dichiarati obiettivi umanitari per quelli economici, o di acquisto delle risorse petrolifere, attraverso la vendita di armi alle milizie libiche, incentivando così lo sfruttamento dei migranti subsahariani. Come interpreti la reale posizione di allora degli organizzatori del festival, e come valuti il loro lavoro in generale?

“In generale credo che il Primo Maggio di Taranto sia una bellissima esperienza e spero che continui. Su altri temi non posso dire molto perché alcune cose non le conosco da vicino ma per quanto riguarda Lampedusa, almeno in quell’occasione credo che si siano fatti trascinare nel vortice mediatico della narrazione ufficiale. Lampedusa è un’isola molto complessa e nel bel mezzo di dinamiche internazionali molto pressanti, specie nella sfera militare, credo che abbiano scelto la via più semplice e rassicurante, ed anche quella che gli dava più visibilità. Io cerco di aprire alla complessità e spesso il mio punto di vista e destabilizzante, specie negli ambienti di “sinistra”. Devo dire che negli anni questa mia “coerenza” che appunto non scambierei per ingenuità, mi ha chiuso diverse porte ma io sto molto bene con me stesso e non [ho] nessun rimpianto.”

Per concludere, dicci quali saranno i tuoi futuri progetti, se per esempio sono previste delle tue date in giro per l’Italia o all’estero.

“Il 2 e il 3 agosto suonerò sulle Madonie per il festival nella valle dei racconti, il 4 a Bagheria al BOCS e il 5 a Palermo al Camus. Abbiamo riaperto PortoM dove oltre all’esposizione permanente degli oggetti appartenuti ai migranti di passaggio sull’isola che abbiamo recuperato e conservato con il collettivo Askavusa, abbiamo dato nuovamente vita al teatro dell’opera dei pupi siciliani e a spettacoli di narrazione musica come Lampemusa in cui racconto la storia dell’isola di Lampedusa con canzoni e racconti. Faccio spettacoli tutti i lunedì, mercoledì e venerdì. Ricordo che il 22 e il 23 agosto sempre a PortoM faremo sue date insieme a O Zulù con lo spettacolo Violentissimi.

“Per il futuro sto preparando un libro sul santuario della Madonna di Porto Salvo di Lampedusa e le sue connessioni con la storia contemporanea, dei nuovi spettacoli coi pupi siciliani e un nuovo album voce e chitarra, in dialetto siciliano, registrato già come uno spettacolo live, nonostante gli annunci da parte di chi detiene il potere siano allucinanti e sembra si vada verso uno sfracelo totale io continuo a pensare, a vivere e a progettare.”

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