DANIEL JOHNSTON: LA VIVA ESISTENZA OLTRE IL CANTAUTORATO
di Giovanni Panetta
Discorso su Songs Of Pain
Daniel Johnston, Songs Of Pain

Cover di Songs Of Pain (1981).

Pochi giorni fa dalla pubblicazione di questo articolo (13 Settembre) ricorre il secondo anniversario della morte di Grant Hart, il quale tra hardcore più melodico e artistoide dei tempi della sua militanza negli Hüsker Dü e sperimentazioni più da pop psichedelico contaminato dal paisley underground, caratteristico della sua carriera di leader dei Nova Mob e quella solista, ha scritto una pagina importante nella storia del mondo alternativo; una mente spaziante con una spiccata sensibilità per quello che ha fatto e che con ingegno ha saputo trasmettere calore. Una perdita incommensurabile.

Quasi una settimana fa (11 Settembre) ci ha dato l’addio un altro grande della musica alternativa, con una grande voglia di sperimentare attraverso l’utilizzo viscerale della bassa fedeltà, ma soprattutto anch’egli con un ineccepibile senso della melodia pop, che si manifesta attraverso canzoni tenere e malinconiche, come l’addio di un caro che non vorremmo mai lasciare. Come si evince dal titolo, parliamo dell’autore Daniel Johnston il quale, all’inizio autoprodotto (ed anche autodistribuito) e poi con l’aiuto di qualcuno, ha dimostrato di avere grande estro creativo all’insegna di un minimalismo primitivo e atonale, il quale non è scomparso neanche dopo i suoi lavori con una produzione maggiore. Un estro, quello di Johnston, che ha portato la sua scrittura dei testi, più cantautorale, ad una dimensione di stampo DIY, sia come etica che come emulazione (filtrata) di quelle sonorità.

Ed in particolare ci soffermiamo sul suo esordio Songs of Pain del 1981, anno in cui i ragazzini impazzirono per l’hardcore e per versi più politici come “we are tired of your abuse / try to stop us, it’s no use”; al contrario Johnston che invece di politico ha poco (o almeno nulla di reazionario), e preferisce melodie e testi più improspettivi attraverso ballate blues al pianoforte con accordi scampanellanti che fanno da sfondo, e diverse sono le sfaccettature: nostalgia campestre, nonostante si parli di “politici disonesti” della sua terra natìa, il West Virginia, quella che lui chiama il “paese degli ingenui” (Wild West Virginia); inno alla solitudine e del sentirsi derisi, attraverso un pop incalzante (Like A Monkey In The Zoo); non mancano storie di approcci disperati (I Save Cigarette Butts); missiva ad un mondo senza fede (Wicked World), e elogio alla pigrizia (Lazy). Ma il picco si raggiunge con Living Life un inno tenero alla spensieratezza, che termina con un muro sonoro di pianoforte che si dissona nei picchi.

Un disco che unisce luce e ombra, melodia e dissonanza. Ci chiediamo se lo stesso impeto creativo di Daniel Johnston potrà ripetersi in futuro. Sicuramente porterà di buon auspicio l’ascolto dei suoi lavori, ed anche di Songs of Pain.

Share This