DAFT PUNK: FISICA, CHIMICA E ALTRI ELEMENTI
di Michele Ruggiero
Storia del duo parigino e del perché la loro fine ha destato così tanto rumore.

L’annuncio del divorzio dei Daft Punk ha dato a tantissimi appassionati di musica l’opportunità di riflettere e valutare una volta per tutte il peso e l’impatto che i due robottoni parigini hanno avuto sui nostri gusti, percorsi, abitudini d’ascolto. Tra i pensieri più ricorrenti, il solito: “termina così la mia adolescenza”, abusatissimo a ogni morte d’artista, ma che in questa circostanza assume un significato molto più forte e vero. Uno scioglimento del genere desta così tanto clamore e così tanto dispiacere perché per più di qualche generazione i Daft Punk sono stati una porta verso mille altri mondi differenti, sono stati scoperta e curiosità, finestra sul futuro, primo approccio corporeo, fisico a un certo tipo di musica, a un ascolto pronto all’imprevedibile.
Quest’articolo, sicuramente non l’unico e non il più esaustivo sulla faccenda, oltre a ripercorrerne la carriera, cerca di capire perché una notizia del genere non vale come le altre, quale impatto ha avuto su chi ha vissuto sulla pelle e nei club nascita, ascesa e declino di Thomas e Guy-Man e su chi invece ci è arrivato qualche anno più tardi, grazie ad Internet.
Cosa li ha resi così importanti agli occhi di tutti?

DAFT PUNK: FISICA E CHIMICA

La storia del duo parigino nasce nel modo più romantico possibile: sui banchi del Lycée Carnot, nel 1987, Thomas Bangalter e Guy-Manuel De Homem-Christo si scoprono entrambi avidi di musica, divorano Beach Boys, My Bloody Valentine, Stooges a quintali, mettono su una band assieme a Laurent Brancowitz (futuro membro dei Phoenix): i Darlin’. Il DNA musicomane scorre nelle loro vene da sempre, soprattutto in Thomas, avendo ereditato l’estro e le abilità tecniche del padre Daniel Vangarde – produttore di hit disco negli anni ’70, in Italia noto per aver composto la sigla del TG L’Una sulla Rai nel ’77.
Tra il 1993 e il 1995 i Darlin’ pubblicano solo 4 brani, pochi, ma buoni per: a) capire gli elementi fondamentali del modo di comporre dei Daft (attitudine punk, suoni aggressivi ma avvolgenti, melodie, melodie, melodie); b) capire come siano riusciti a virare da un garage rock intensamente anni ’60 a una miscela caustica di house, techno, funk – insomma, il loro suono; c) accaparrarsi quella recensione storica sulla rivista Melody Maker, la quale definì la loro musica “a daft punky thrash”, robetta un po’ cretina e nulla di più.
Se nei primi pezzi la continuità Darlin/Daft Punk è difficile da intuire, diventa evidente in Untitled 18, del 1995: il travestimento è saltato, Thomas, Guy e Laurent hanno iniziato a giocare esplicitamente con quel suono screamadelico proveniente da oltreconfine, con quel ritmo incessante, con quei sample d’altri tempi, che poi diventeranno il marchio di fabbrica dei Daft (che ci fa il riff di Starman in un pezzo house?!).

In realtà, già due anni prima Thomas e Guy, stregati dal fervore che si spargeva in città attorno a club come il Rex, o figure come Laurent Garnier e Motorbass, si erano armati di drum machine Roland, filtri, dischi e campionatori e avevano iniziato a produrre la loro di techno, molto cupa, graffiante, incazzata – grezza sì ma efficace. Bastò infatti una cassettina-demo di The New Wave EP, passata sottobanco a una festa a Disneyland Paris nelle mani degli scozzesi Slam – fuoriclasse dell’elettronica made in UK – per convincere la Soma Records (etichetta degli Slam stessi) a mettere i due sotto contratto.
Nel 1995 gli scozzesi incitano Guy e Thomas a portare a termine e pubblicare “that funky one”, a.k.a. Da Funk: da quel momento in poi, non si capisce più nulla. Da Funk è un brano anomalo, è lento ma ha una potenza incontestabile, è hip-hop, ma va oltre Dr.Dre, è un funk burroso à la Parliament, ma li sorpassa a destra, è house ma non c’entra nulla con Chicago, ha un tiro techno, ma non è la techno che sfuria in Europa in quegli anni. Da Funk è un unicum ed è perfetta nei suoni, nella cassa che da un momento all’altro raddoppia e bombarda il riff di sintetizzatore che avanza ubriaco in loop, nella dinamica dei break e dei ““ritornelli””. Un brano così perfettamente costruito non poteva che esplodere nelle mani dei DJ di mezzo mondo, anche di generi diversi come Richie Hawtin. Viene commissionato un discreto numero di un remix ai due, i quali danno sfogo finalmente alla loro creatività: rimaneggiano a modo loro pezzi di Ian Pooley, Chemical Brothers, I:Cube e lo fanno mischiando chitarre funky a tastieroni acid jazz e deep house, 909 impazzite e linee di basso già magistrali, omaggiando le capitali della house, ora Chicago, ora New York, elevando gli elementi di entrambe in dancefloor-fillers tutt’ora perfettamente funzionanti nei club.

Daft Punk senza casco.

Daft Punk live al festival Tribal Gathering, UK, 26/06/1996.

Con questi remix, più l’uscita di Indo Silver Club e Burnin’, i Daft Punk fanno pregustare i sapori del loro primo album, Homework, del 1997. È il primo dei numerosi album/omaggio di Thomas e Guy-Man, in questo caso alla stessa elettronica che li aveva stregati qualche anno prima, impreziosita però da elementi estranei. Homework è un viaggio in auto, sintonizzati sulle frequenze di WDPK 83.7 FM, la radio fittizia di Thomas e Guy in cui passa di tutto: ci sono briciole di disco anni ’70 su tovaglie techno (Phoenix), spadellate industriali (Alive), smetallate Spastik-inspired (Rollin’ & Scratchin’), ma soprattutto un carosello di ritmi house accoppiati a bassline funky che parlano da sole (Around The World e Burnin’ su tutte) e momenti spudoratamente hip-hop/p-funk come Teachers. È un disco che brucia, è il compito a casa svolto dopo esser stati a lezione e a cui i “Teachers” non possono che dare 10 e Lode.

Negli anni immediatamente successivi, il successo dei due trascina con sé anche tutto ciò che gravita attorno a Parigi, è la french touch, mon ami, e alla ribalta ci salgono anche figure come Etienne De Crecy, i Cassius, Romanthony, Benjamin Diamond, Bob Sinclar, Modjo, e giù di lì. Il suono Daft, integrato dalle carriere parallele con le etichette Roulé e Crydamoure, si diffonde a macchia d’olio e diventa praticamente pop. Grazie a loro si perfeziona ed esplode la disco house (seppur già anticipata da artisti come Daniel Wang, Armand Van Helden, Todd Terry), la quale produrrà numerosi successi nei primi 2000, che però non riusciranno mai a clonare esattamente la chimica creata dal duo parigino. In Homework infatti il mix di elettronica e sample disco/funk dà vita a una musica corporea, fisica, sudata e selvaggia. In questo emerge l’attitudine punk, straight-in-the-face, quella spontaneità e naturalezza che manca invece in quasi tutte le altre hit costruite ad arte di quel periodo.

Dicevamo, chimica. Dicevamo, pop. L’intesa tra Thomas e Guy-Man decide di andare oltre i cloni e di giocare al loro gioco, estremizzandolo. Nel 2001 i Daft Punk pubblicano Discovery. Se già in Homework l’approccio mischia-tutto aveva già emesso i primi vagiti, in Discovery diventa l’elemento essenziale dell’album e lo fa in un’ottica volutamente e esageratamente pop. In questo album tutti i “pleasures”, guilty e non, dei due, vengono rivendicati con orgoglio e rimescolati in canzoni vere e proprie in cui i ritornelli cantati si alternano alla grande a ritornelli strumentali, ad esempio la voce orgasmica di Romanthony che annuncia la sirena di One More Time, o ancora l’ingresso delle chitarrone heavy tapped di Aerodynamic e Digital Love. Se nell’album precedente rientravano solo gli ascolti più strettamente black e “ballabili”, in Discovery le influenze arrivano TUTTE insieme: Beach Boys, Van Halen, Giorgio Moroder (Veridis Quo riprende addirittura il Moroder pre-I Feel Love di Tears) – i sample selezionati diventano centrali, non servono più ad arricchire una struttura, ma diventano la struttura stessa, solo dopo esser stati maneggiati e perfezionati in maniera chirurgica e meccanica dai due (Harder, Better, Faster, Stronger).
Ovvio che sia così: dal 9/9/99 infatti i Daft Punk non sono più umani, sono diventati robot, senza volto, coi caschi, sono macchine da guerra e la loro sensibilità pop diventa l’arma più affilata. L’idea è quella di sottrarre la propria immagine per far parlare la musica e basta. Ma ad agevolare il loro passaggio da talenti underground a star mondiali è proprio questo: la creazione di un mito, un immaginario, un’estetica ben precisa che sa ancora di futuro scintillante e romantico, mai distopico. Anche nelle immagini i due robot si divertono a mettere in mezzo qualsiasi loro influenza, dai Rockets ai Kraftwerk (agevolati musicalmente dall’uso spasmodico del vocoder), perfino i cartoni animati giapponesi come Capitan Harlock e Goldrake: il film-anime capolavoro Interstella 5555, ideato assieme a Leiji Matsumoto, privo di dialoghi e accompagnamento visivo dell’album, ne è la piena realizzazione. (L’attenzione all’immagine era già un aspetto dominante anche in era pre-robotica: i videoclip realizzati nel 1997 per i singoli di Homework vennero girati da maestri come Spike Jonze e Michel Gondry, e fecero scuola.)

Daft Club

Copertina di Daft Club, album di remix tratti da Homework e Discovery.

Proprio quando però ci si aspetta un’ulteriore mossa in senso pop da loro, questi si sottraggono ancora, al perfezionismo dettagliato di Discovery segue un album scarno, violento, realizzato in sei settimane; alle luci scintillanti e colorate segue la fioca luce bianca e asettica di un televisore scassato: segue Human After All.
Belli i robot, bello il futuro, ma siamo umani, dopotutto, e proviamo angoscia anche noi. I brani sono ripetitivi e ossessivi, volutamente fastidiosi e poco strutturati. In Technologic, ad esempio, una vocina stridula ripete azioni meccaniche da realizzare velocemente, seguendo il beat, in maniera alienante. Sono comandi, verbi all’imperativo ordinati in un loop senza fine. Nel video c’è una bambola robot terrificante che cambia espressione tra il sereno e il minaccioso, aumentando il senso d’inquietudine. Questo sentimento di diffidenza verso l’immaginario televisivo e tecnologico (che loro stessi hanno creato) permea tutto il disco, lo senti nei lamenti alitati di Steam Machine, nei power chord esagerati di Robot Rock, nel mantra di Television Rules The Nation o nella glam-rockiana The Prime Time Of Your Life (che suona come un “ehi, perché non te la stai godendo? È il prime time della tua vita, devi andare in scena!” mentre il mondo ti sta crollando addosso e la tua vita è una spirale di paranoia).
L’album viene bocciato dalla critica, definito noioso e superficiale. In realtà proprio nella paranoia trasmessa sta il valore di Human After All. Nel suo essere ancora una volta punk, fastidioso, eppure comunque da classifica (Technologic veniva usata nelle pubblicità e suonata nei lidi estivi, per dire).

Alive 2007

La piramide futuristica di Alive 2007.

L’intera carriera dei Daft Punk si caratterizza come un ottovolante tra esagerazione pop e scarnezza e schifezza punk. È un continuo flirtare con entrambi gli estremi. È corporeità da un lato, fisica, e spiritualità e romanticismo dall’altro, chimica.
Difatti, dopo un album come Human After All, arriva una mossa esagerata: Alive 2007. Non un concerto, non un dj set, non un semplice spettacolo, ma tutto insieme. Con Alive 2007 il mondo capì le potenzialità spettacolari della musica elettronica al di fuori dei club. Una piramide di luce sincronizzata al suono, due robot ai controlli della navicella, Ableton Live, controller MIDI, Moog, sintetizzatori vari e un team scheletrico (circa 10 persone) per uno spettacolo gigante. Mash-up appositamente realizzati per far impazzire la folla, mischiando di tutto e creando un livello di intensità mai eguagliato da nessun’altro artista del genere. Ascoltando l’album live, ma anche guardando le centinaia di filmati tratti dal tour, si comprende una cosa: nessuna registrazione potrebbe mai restituire un’unghia dell’intensità trasmessa al pubblico in quel momento. Chi c’era ne parla come di un tour mitologico, inaudito, e chi non c’era si mangia le mani, oggi a maggior ragione.

Arrivati all’apice della loro carriera, l’ottovolante non sa bene quale direzione prendere. La Disney affida al duo la colonna sonora di un film futuristico come TRON:Legacy, i due mettono da parte i chitarroni per riabbracciare l’elettronica più “pura” e soprattutto si confrontano per la prima volta con un’orchestra. In quegli anni però la loro eredità si inizia a far sentire in giro prepotentemente: sta esplodendo l’EDM, i festival-oni come Tomorrowland, l’Ultra, arriva Skrillex – insomma, il mondo si accorge che l’elettronica da ballo funziona anche negli stadi ed è il mezzo preferito dal pubblico per farsi, artificiosamente, trascinare.

Thomas e Guy decidono dunque di fare un passo indietro, di chiudere il cerchio, di abbandonare campionatori e attitudine “da cameretta” ed entrare in studio, organizzare una band, un’orchestra e (ovviamente) omaggiare quel mondo sonoro da cui avevano attinto per più di 20 anni, moltiplicando strumenti e strumentisti da manovrare nelle registrazioni. Nessuno sapeva effettivamente cosa aspettarsi, qualcuno sperava in un “ritorno” al french touch, quello che effettivamente arriva è Random Access Memories, un album fuori dal tempo e anche complesso, ma, ovviamente, di estremo successo. Non si bada a spese, si riguarda agli anni ’70, si chiamano in studio Nile Rodgers degli Chic, Giorgio Moroder, Omar Hakim e Nathan East (turnisti di Miles Davis, Madonna, Toto, Micheal Jackson, ma anche Pino Daniele), si organizzano jam sessions, arrivano anche Pharrell Williams e Julian Casablancas degli Strokes, Chilly Gonzales degli Animal Collective, così come vecchie conoscenze quali Todd Edwards e DJ Falcon.
Il risultato è un album spiazzante, complesso, ispirato tanto alla disco degli Chic quanto al prog e al soft rock di Fleetwood Mac e Steely Dan. Get Lucky, Instant Crush, Lose Yourself To Dance, Giorgio By Moroder, diventano delle hit e degli instant classic, stavolta da radio e da ascolto, più che da club o da festival: nessun tour infatti è stato mai organizzato a supporto di RAM.
La loro mano si sente comunque, nella composizione, nell’uso sapiente della ripetitività (Lose Yourself To Dance), ma anche nel fare slalom tra suggestioni diversissime (lo space rock di Contact, l’electro-soul di Doin’ It Right e le atmosfere vagamente jazzate di The Game Of Love o Motherboard), il risultato è un album che ti seduce con singoloni ultra-appiccicosi e ti porta verso angoli e atmosfere oscure, eleganti, ma intricate.

A parte alcuni episodi con The Weeknd, lo slancio compositivo dei Daft Punk termina con RAM. Ed è anche giusto e coerente che sia così: appunto, un cerchio che si chiude. Quello che però rimane, e per cui il loro scioglimento è stato accolto come un manifesto funebre, è una “legacy” importantissima.

DAFT PUNK: ENCICLOPEDIA

Chi si avvicina ai Daft Punk è difficile che non ne rimanga in qualche modo colpito. Se lo fa in età adolescenziale, anche meglio: sono una porta su decine di mondi diversi, un mini glossario di tanta tanta musica del tardo Novecento.
C’è un motivo per cui spesso anche chi non è avvezzo al clubbing riconosce e apprezza i brani dei Daft: perché questi han saputo adattare al meglio la primitività e l’immediatezza di generi come techno e house ai linguaggi più disparati ed eterogenei. Nei loro album c’è una vena hip-hop, ma c’è anche una vena rock, un’altra funk, ancora soul, pop, disco, e tutte confluiscono in un unico cuore. Avevano trovato quella formula magica che rendeva pienamente intellegibile e universale un linguaggio che difficilmente avrebbe fatto breccia, tanto nelle nicchie “altre”, quanto nelle grandi masse – così come in precedenza avevano fatto i Kraftwerk, o, con le dovute distinzioni, Franco Battiato.
Chi si avvicina al mondo Daft, è difficile che non ne rimanga pungolato. “Ah quindi questo è un pezzo campionato? Andiamo a vedere da chi”: e ti si apre un mondo, e riscopri pezzoni come Release The Beast dei Breakwater, o autori fenomenali come Edwin Birdsong. Leggi il testo di Teachers e hai davanti un’enciclopedia della house music, e te li spizzi ad uno ad uno, Paul Johnson, Armando, DJ Pierre, Dr. Dre, Jammin’ Gerald… Vedi Giorgio By Moroder e vai ad approfondire la sua figura, i suoi lavori passati, cerchi di capire cosa ha influenzato chi e come. Assieme a loro scopri i Cassius, gli Air, St. Germain, i Justice

È importante che ci siano artisti-chiave, che facciano venire voglia di scavare, cercare altro, approfondire, e i Daft Punk provocavano esattamente questo: la discovery, la scoperta, e sono stati per moltissimi il primo contatto con un mondo, quello dell’elettronica (e non solo), in cui è davvero facile e avvincente perdersi. Un disco come RAM, ad esempio, obbliga alla complessità, o quantomeno ad approcciarvisi: per arrivare a Get Lucky si passa prima per pezzi alieni, decisamente non radiofonici – per chi è “nella nicchia” è una cosa banale, per chi muove i primi passi nel mondo della musica invece no, è stupore, meraviglia ed emozione. È la sorpresa di trovare strade differenti da percorrere, strade personali, uniche ed irripetibili, e i Daft Punk sono la bussola.

Quello che li ha resi semi-dei in Terra è stato soprattutto l’immaginario mitologico creatosi attorno a loro e alimentatosi con l’avanzare delle generazioni.

DAFT PUNK: MITOLOGIA

È il 2010. Sei alle medie, torni a casa, Deejay TV passa un pezzo che ripete a macchinetta “around the world, around the word”. È sexy, trascinante, si incolla nella testa e non si stacca mica. Cerchi le parole su Google e scopri i Daft Punk: ma cos’è? Scopri che sono due robot, hanno i caschi che si illuminano, i loro volti reali non li ha visti mai nessuno. Non sono americani, né inglesi, sono francesi, di Parigi. Da lì in poi è un continuo ascoltare quello che trovi nei correlati di YouTube, e vai di One More Time, Technologic (ma dai! questa la conosco!), Da Funk. C’è un anime galattico che va visto in parallelo a un loro album, c’è un live rimasto nella storia, era 3 anni fa ed era gratis, in Italia, a Torino: che figata, se ricapita, ci andrai sicuramente – intanto aspetti nuova musica perché quella che hai ascoltato sinora è molto, molto bella.

I Daft Punk sono forse stati l’ultima finestra vera, sognante e romantica verso il futuro, lo spazio, la fantascienza. Ascoltarli e scoprirli era come sentirsi su una navicella spaziale, o una macchina del tempo che schizza verso il futuro (pur essendo loro grandi rielaboratori del passato). Guardarli voleva dire pensare a due robot capaci di creare una musica che sembrava perfetta, irresistibile e utile al piacere umano, tutto lì. Una sensazione di armonia pura con la tecnologia.

Ciò che accomuna qualsiasi fan di Thomas e Guy-Man è questo: il rimanere tremendamente affascinati dalla loro mitologia, dall’immagine e dal messaggio trasmesso. I caschi, l’incidente del 9/9/99, i videoclip, il film Electroma, ma anche il loro addio, l’Epilogue, laconico, muto e allo stesso tempo maledettamente eloquente. Ovviamente, le canzoni, immortali, e gli album: e si moriva dall’hype quando doveva uscire un album nuovo e si era contenti se su RTL per caso passavano la tua canzone preferita.
E poi, be’, ovviamente Alive 2007. Alive 2007, caspita! Chi c’era lo ricorderà per sempre come qualcosa di irripetibile, rimasto nel mito e impresso nella memoria, chi non c’era, lo penserà inarrivabile, altrettanto leggendario e sconvolgente.
Ad ogni modo, sia esso vissuto contemporaneamente o a posteriori, il percorso-Daft-Punk verrà comunque ricordato come un momento essenziale di scoperta e accesso a un mondo ricco e infinito, affascinante, dai mille spunti e dalle mille facce.
Intanto, oh, basta parlarne: ritorniamo a ballare…

Si ringraziano Jerry Colli e Christian Zingales per gli spunti forniti.

 

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