CABOTO: PROGRESSI E PROGRESSISMI MUSICALI
di Giovanni Panetta
Intervista a Nazim Comunale

Il Novecento è stato un’epoca di grande fulgore per la cultura giovanile. Le lotte per uno stile di vita meno asfissiante ed una visione del mondo più aperta (e non solo) hanno contraddistinto quell’epoca accompagnato da nuove ed eccitanti forme di intrattenimento, in primis la musica che conquistava in profondità cuore e pancia del suo pubblico. Gli anni ’90, attraverso suoni di diversa estrazione (a volte più oscuri, a volte più solari, ed altre volte si fondevano i due aspetti) chiudeva il corso sonoro di quel secolo rivoluzionario in tutto e per tutto. Nei ’90 in Italia c’era una cultura caustica e distorta nel micromondo indipendente che si opponeva ad un certo imbolsimento nel rock e nel pop più derivativi; attitudini e annaspamenti caratteristici di quegli anni che si rispecchiavano con il degrado di quartieri e provincie, il consumo di sostanze e inconsistenza politica.

Il decennio successivo e quindi l’esordio del nuovo millennio sono stati caratterizzati, rispetto a prima, da un abbassamento di volume degli amplificatori, ovvero un discreto silenzio accompagnato da un fischio nelle orecchie causato dal caos acustico precedente. Ma dischi sferzanti non sono mancati, primi fra tutti Stella degli Uzeda oppure Carboniferous degli Zu. Gruppi che sono stati praticamente un ponte tra il passato e l’attuale, che hanno sublimato quell’energia che ha come retaggio l’hardcore e il post-punk, in qualcosa che ha scardinato quella stessa tradizione, attraverso l’emergere, direttamente o indirettamente elementi dell’avanguardia e quasi antiteticamente del progressive. Corsi e ricorsi che si autoescludono e che piacevolmente stravolgono la storia della musica indipendente, quella vera.

Caboto.

Caboto. In piedi da sinistra a destra: Marcello Petruzzi, Nazim Comunale e Alessandro Gallerani. Seduti da sinistra a destra: Alessio Crotti, Stefano Passino e Marco Bianciardi.

Un gruppo meno noto di Uzeda e Zu, secondo le mie osservazioni, ha contribuito in parte a quella fase di transizione, contaminando l’ala math rock moderno (visto come costola del post-hardcore, come si intende inconsciamente in seguito). I Caboto, gruppo di Bologna degli anni ’00, caratterizzato da un suono cerebrale influenzato dal (free) jazz e strutturato a istanze, nonostante non reciti sotto la voce math rock/post-hardcore (piuttosto a quel qualcosa che molti etichetterebbero come post rock) ha dei tratti in comune con una parte della musica indipendente del dopo. Il primo lavoro Nauta del 2001 presenta ritmi complessi, che consistono in cambi di tempo e pattern di batteria dalle geometrie meditate, ma con un senso della melodia morbido, in cui si esplicano le velleità jazz del gruppo con ovviamente un occhio al contemporaneo. Nel secondo disco, Did You Get Visuals? di due anni dopo, si aggiunge un sassofono e affluiscono nuove idee, ovvero il suono è più elastico, e si creano occasioni per jam di rumore e in generale sperimentazioni free; il loro disco più basato sull’aspetto “anti-melodico”, a volte con parti aritmiche. Atmosfere più notturne in una cornice lisergica si manifestano nell’ultimo Hidden Or Just Gone, del 2006; come timbri e attitudine jazz insieme sembra che si guardi ulteriormente al Miles Davis elettrico, ma c’è una certa convergenza del post rock più etereo (senza perdere la componente chitarristica), con delle venature prog che si fanno maggiormente sentire in questo lavoro. Un gruppo annoverato per le tre efferate first track dei tre album (Afterland , Room 237 e Disarchitecture/Glass Elephant Goes Downtown), incisive e travolgenti, che lanciano l’ascoltatore in un vortice onirico e a suo modo psichedelico; un Davis anni ’70 al timone, per l’appunto, di un suono etereo, melodicamente angoloso e post-hardcore in senso lato.

Abbiamo intervistato Nazim Comunale, autore e piano elettrico dei Caboto, per scoprire qualcosa in più di questo progetto sotterraneo e ormai terminato. Gli abbiamo chiesto anche di altri progetti successivi, in particolare ho posto l’accento sul suo interessante duo con il cantante armonico Patrizio Ligabue, con cui ha inciso il disco Venezia Non Esiste, del 2014. Il lavoro è all’insegna della tradizione orientale, nel quale si sperimenta con la fujara, la koncovka (entrambi strumenti a fiato della tradizione slovacca) e il canto difonico di Ligabue, con l’aggiunta del farfisa, tastiere giocattolo, una tampura elettronica (versione portatile di un liuto tipico della musica indiana), un tubo sonoro e quant’altro da parte di Comunale.

Nell’intervista si farà quindi riferimento alla mia supposizione di una contaminazione da parte dei Caboto sul math rock moderno; infatti non deve stupire in quanto il genere math rock e il suono di gruppi come Tortoise, Slint, Bitch Magnet e quant’altro (trasversalmente è incluso anche il gruppo di Bologna, o almeno ci sono diversi punti si somiglianza tra i quattro gruppi) hanno diverse assonanze per quanto riguarda il ritmo, elemento fondamentale di quel rock matematico, ovvero quello dell’ultimo periodo; una cerebralità nel ritmo che sconfina in cacofonie propriamente noise. I Caboto, anche se non sono stati questo, rispettano in certe linee quello schema, in particolare sulla cadenza e complessità del ritmo e sul suono maggiormente strutturato a fuga, anche nel modo in cui vengono suonate, trasmettendo in sintesi qualcosa a quel corpus sonoro successivo.

Leggiamo quindi le parole di Nazim Comunale che sono molto delucidanti sul suo passato prossimo e più lontano.

Capoto live

Caboto live: da sinistra a destra: Marcello Petruzzi (visibile in parte), Nazim Comunale e Marco Bianciardi.

Parliamo dei Caboto: un progetto praticamente oscuro nel quale mi sono imbattuto negli approfondimenti dei miei ascolti, in particolare del disco Venezia Non Esiste. Mi piacerebbe sapere innanzitutto come nasce e si sviluppa il tuo progetto degli anni ’00 e che trovo molto affascinante.

Nazim Comunale: “Caboto sono esistiti in forma continuativa dal 2000 al 2006, cambiando formazione, allargandosi, per poi sciogliersi dopo 3 dischi , e riformarsi per qualche concerto, in occasione di qualche festival come la celebrazione dell’anniversario di Frigotecniche all’XM 24 di Bologna (che fu anche la nostra sala prove per alcuni anni), Musica Nelle Valli dal grande Tiziano Sgarbi aka Bob Corn, o Red Noise a Reggio Emilia, più un paio di live con i nostri amici Anatrofobia, dei quali sta per uscire il nuovo disco. Abbiamo iniziato come progetto di improvvisazione totale il 1 gennaio del 2000 dopo una notte in mescalina in giro per Bologna: lunghe jam dove capitava quel che capitava. Poi abbiamo deciso di provare a fare dei pezzi, all’inizio in tre, basso (Marcello Petruzzi, poi Franklin Delano e 33ore), batteria (Stefano Passini, prima nei Rose Island Road) e tastiera (io), poi in quattro, con l’ingresso di Alessandro Gallerani alla chitarra. Con quella formazione abbiamo registrato il primo disco, Nauta, pubblicato nel 2001 dalla Scenester Records di San Diego, California. Nel 2003 è stata la volta di Did you get visuals?, con un nuovo assetto a sei, con Alessio Crotti al sax e Marco Bianciardi (Elton Junk, The Somnambulist) alla chitarra, pubblicato da Raving Records. Nel 2006 poi l’ultimo, Hidden or just Gone, con Fratto 9. Un po’ di concerti in giro per l’Italia, molto divertimento, molto sudore, serata infinite (all’Xm i concerti iniziavano ad orari folli, ricordo una volta che salimmo sul palco alle 2 di notte!) molta pazzia. Poi, come è naturale che sia, le strade si separano, l’energia finisce”.

I Caboto, in un certo senso, incarnano l’elemento popular ereditato dagli anni ’90, ma esso non si esplica attraverso un senso attitudinale punk, ma attraverso quello della melodia, manifestandosi attraverso le influenze free jazz e prog, e dando vita ad un genere fresco: un post-hardcore o math rock che detterà le linee guida ad una componente della cultura alternativa dell’avvenire. Un suono a volte ondivago, a volte che si levita in dei picchi sonoramente intensi. Cosa ha reso secondo te unico il sound dei tuoi Caboto, ormai sciolti, e se per caso ritieni il progetto in parte preponderante per la musica italiana dell’avvenire?

Nazim Comunale: “Di post-hardcore sinceramente ne sento poco nella nostra musica; venivamo da ascolti diversi e ascoltavamo tutti parecchia musica, in sala la metodologia era semplice: si improvvisava senza una direzione, e quando trovavamo qualche lampo che ci sembrava buono vedevamo di cristallizzarlo in una composizione, lavorando maniacalmente, con euforia ed una sana ingenuità, sulla struttura dei pezzi. Perdendo di vista probabilmente a volte la fluidità, l’importanza della scrittura della musica. Nei nostri manifesti per i live c’era scritto rock di fuga: l’idea era quella di una musica che portasse da un’altra parte. A Bologna ci eravamo creati una certa fama come gruppo perfetto per fumarsi le canne e farsi dei viaggi ascoltando, sebbene non fossimo un gruppo hippy o psichedelico tout cort. Per quanto riguarda i generi, nessuna preclusione, allora, come ora; esistono solo due tipi di musica, diceva Duke Ellington: la buona e la cattiva. Riascoltando le nostre cose con l’orecchio di poi, abbiamo sicuramente commesso errori di ingenuità , lungaggini e suonato cose che ora mi arrivano vecchie e poco ispirate, ma qualcosa resiste ancora al passare del (tanto) tempo, e ne sono contento, anche se non risuonerei più quei pezzi in quel modo”.

Nazim Comunale

Nazim Comunale al piano elettrico durante un’esibizione con i Caboto.

Quali furono le vostre ispirazioni musicali? Sembra che gruppi come Fugazi, Karate e Rodan abbiano fatto parte dei vostri ascolti, ed anche se i suoni di quelle tre band siano molto differenti da quelli dei Caboto sembrerebbe che da essi abbiate attinto diverse intuizioni. Riferendoci alla domanda precedente, sembrerebbe che una certa vostra complessità del ritmo passi attraverso i primi Fugazi e il math rock washingtoniano. Mi sbaglio per caso?

Nazim Comunale: “L’elenco degli ascolti di quegli anni potrebbe occupare pagine e pagine: Motorpsycho, Mark Hollis, il jazz della Impulse, Gorge Trio, Iceburn (il loro Hephaestus resta ancora un disco mastodontico), il Miles elettrico, la black music in tutte le sue declinazioni. Alcuni di noi erano sintonizzati sulle frequenze dei gruppi che citi ; personalmente li stimo ma non mi definerei un loro fan. Mi occupo di musica da 25 anni oramai in varie forme (radio, giornali – scrivo per Il Manifesto -, blog, webzine – The New Noise -, magazine on line, organizzazione live) e le mie giornate sono consacrate all’ascolto della stessa. Ricordo che un live dei Don Caballero al glorioso Link di Via Fioravanti a Bologna ci diede la voglia di metterci a suonare “sul serio”, così come senz’altro i primi dischi dei Tortoise furono una grandissima folgorazione e forse la band che ci metteva (quasi) tutti d’accordo. Per quanto riguarda il cosiddetto post-rock ho ricordi molto vividi dei Rachel’s, in quegli anni e di un live proprio dei Tortoise ad Amsterdam dove vedere i musicisti scambiarsi gli strumenti in un flusso continuo era stato sicuramente importante come input”.

C’è una possibilità di ripristinare il progetto Caboto? Aveva un grandissimo potenziale e mi meraviglio dello scioglimento. Inoltre c’è la possibilità da parte vostra di pubblicare materiale inedito, come per esempio le improvvisazioni registrate nella vostra veste di Freeboto?

Nazim Comunale: “Caboto credo proprio che oramai appartenga ad un passato che non tornerà: abbiamo già tentato due volte di riaccendere la miccia, ma Marcello, il bassista originario si è chiamato fuori, uno dei due chitarristi vive a Berlino da anni, e gli ultimi concerti li abbiamo fatti con il sassofonista al basso, un nuovo sassofonista ed una sola chitarra: è stato divertente ma lì credo di essermi reso definitivamente conto che era ora di passare ad altro: restano dei bei ricordi, tre dischi, un pezzo inedito che non abbiamo fatto in tempo a registrare e che a questo punto resterà tale, direi”.

Parliamo del progetto che si cela dietro l’album Venezia Non Esiste. Ci vuoi parlare di come nasce la tua collaborazione con Patrizio Ligabue? Tra suoni orientali e il krautrock moderno di The Perfect Funeral Song, il disco ha un che di elegante ed allo stesso tempo di sghembo che lo rendono unico. Un disco che rappresenta un salto dalla musica degli anni ’70 alla cultura contemporanea, ovvero che ha come cardini il progressive rock, e altri gruppi ed artisti come gli Aktuala ed il primo Franco Battiato. Circolarità meditativa attraverso le ance e il canto difonico di Patrizio Ligabue e carnalità più complessa vicina al prog (che appartiene maggiormente al secondo lato del vinile) sono elementi che difficilmente si riscontrano in un disco moderno. Siamo abituati al valore del doppio in musica, ma in questa forma nel senso prima accennato difficilmente l’ho notata. Per caso ci tenevate a trasmettere al pubblico questa dicotomia tra le due facce della cultura alternativa italiana di un tempo?

Nazeem

Nazim Comunale (Nazeem) durante un’esibizione live con Patrizio Ligabue.

Nazim Comunale: “Ho conosciuto Patrizio durante il soundcheck di un concerto che entrambi dovevamo fare con due altre band e, affascinato dal suo didgeridoo di plastica lungo metri e dal suo canto armonico, gli ho chiesto se gli andasse di improvvisare qualcosa durante il nostro concerto. Poi ho fatto un viaggio in Sud Est Asia di tre mesi nel 2013 e tornato a casa ho cercato di conservare qualcosa di quei posti , in particolare della Birmania, creando un drone che mi riportasse in qualche modo là: la musica è uscita in modo molto naturale ho composto e pensato tutto da solo poi lui ha fatto i suoi interventi in Meiktila Loop. Meiktila è giusto una città birmana dove sentivo , per i giorni che ci ho passato, praticamente 24 h il canto dei monaci buddisti: ho cercato di ricreare quella sensazione di trance. The Perfect Funeral Song invece è , didascalicamente,la musica per il mio funerale (mi sono messo avanti, ho solo 44 anni, ma non si sa mai, no?): è uscita in versione originale, più lunga, e con 4 remix, per la Orphanology di Drekka nel 2015 e poi con Patrizio abbiamo fatto un edit in cui lui ha aggiunto i suoi colori. Infine l’ultimo pezzo è una sua idea, un loop di una parte di Meiktila”.

Ci saranno in futuro nuove collaborazioni tra te e Patrizio Ligabue? Se sì, cosa ci dobbiamo aspettare?

Nazim Comunale: “Nel primo disco io ho usato un set molto minimale, qualche flauto, tubi sonori, una melodica, una tampura elettronica, una percussione e una tastiera giocattolo, il tutto filtrato con un delay, ma senza altri effetti. Ora sto provando invece dei loop con la Farfisa, il materiale futuro sarà un po’ meno etereo, forse, vedremo che uscirà quando lo fisserò per poi proporglielo”.

Per concludere, oltre alla collaborazione con P. Ligabue e i Caboto hai anche altri progetti di nota. So che con La Grande Orquestra avete sonorizzato dei film d’autore dal vivo, mentre con Iran ancora una volta si toccano generi diversificati (jazz, suoni mediorientali, kraut, noise). Ti andrebbe di parlarcene più approfonditamente? C’è in cantiere qualche uscita discografica a nome di quei gruppi?

Nazim Comunale:La Grande Orquestra de la Muerte è un progetto nato a Reggio Emilia, la mia città, con altri musicisti coetanei che erano impegnati in altri gruppi (AFA, Stoop, Slugs) e che poi sono confluiti in gruppi come i Julie’s Haircut (Ulisse, il loro batterista, prima suonava con noi). Un collettivo aperto nato per sonorizzare video animati realizzati da uno dei chitarristi, Martino Pompili, e che aveva raggiunto una ottima fama a Reggio. Ci divertivamo molto ed era una bella occasione di esplorare lati diversi della creatività collettiva: gli altri ragazzi venivano da un background più classico se vogliamo del mio, più focalizzato sull’hard rock per banalizzare, ma l’incontro tra la mia tendenza a “farlo strano” e la loro ruggine stoner aveva creato un ibrido interessante. Siamo arrivati ad essere in 8 (!) nella band, era difficile andare avanti e, senza alcun trauma, abbiamo mollato il colpo, dopo aver registrato diverse colonne sonore dei video , che sono reperibili su dvd contattandomi qui: orsoman@gmail.com. Si trovano comunque anche frammenti in rete.
Iran invece è il progetto che porto avanti da qualche tempo, un trio con Andrea Silvestri alla chitarra (Taras Bul’ba) e Roberto Rettura ( fonico de Lo Studio Spaziale di Bologna) alla batteria, con me alle tastiere analogiche, dalle quali mi guardo bene di togliere la polvere, parte integrante del mio(nostro) suono. Il nostro primo disco, Aemilia, registrato con Rodolfo Villani (Lourdes Rebels) alla batteria, uscirà ad inizio autunno per Aagoo Records, un’etichetta del New Jersey, e nel mentre stiamo preparando una versione remix dello stesso con diversi nomi interessanti, ma è troppo presto per aggiungere altro in proposito. Aemilia è composto da sette tracce per circa un’ora di musica: io che recensico decine e decine di dischi non penso sia sano però autodefinire quanto suoniamo. Dopo l’estate il disco sarà fuori e intanto potete seguirci sulla pagina Facebook o scovare qualche video su You Tube https://www.facebook.com/iranband/”.

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