Apocalypso Disco e l’universo breakcore-gabber di DJ Balli
di Giovanni Panetta
Intervista a DJ Balli. Si parla di Apocalypso Disco e le sue uscite (Boyscout-Ravers Must Die!, Bally Corgan, The Definitive Music To Make Human Pyramids With e Polka Bolognoise Vol. 2).
Dj Balli live a Taranto

DJ Balli live a Taranto. Flyer realizzato da Alex Palmieri.

Il 28 Aprile 2023 DJ Balli dell’etichetta breakcore/gabber (e di generi affini) Sonic Belligeranza è stato ospite a Taranto da Mexico 70 per due set – un concerto con i Game Boy e un DJ-set in stile chopped & screw (hit degli anni ’80-’90 rallentate). Le sue esibizioni sono state ben accolte, e hanno dimostrato, ancora una volta, quanto suoni in tutto e per tutto urbani possono essere metabolizzati molto bene nella provincia italiana. Nonostante qualche inconveniente tecnico, il set con i Game Boy è stato fruito con entusiasmo, il quale ha visto la partecipazione di altrettanto incuriosito pubblico, le cui discussioni, incentrate sulla presentazione del libro Apocalypso Disco da parte di DJ Balli, si sono incentrate sul fenomeno post-rave attuale.

Privatamente, in quell’occasione, abbiamo scambiato due parole con DJ Balli, un percorso che ha attraversato il succitato libro (per l’appunto Apocalypso Disco, uscito per Agenzia X nel 2013) oltre ad una parte delle sue uscite discografiche. Di seguito l’intervista.

Apocalypso Disco approfondisce il tema dell’innovazione della musica e arte attraverso le potenzialità della EDM; attraverso racconti, saggi brevi ed interviste, il tutto permeato da una tagliente ironia accattivante, vengono presentati innovazioni in corso del genere che si evolve tramite il breakcore sparso in Europa, l’extratone e l’8-bit music, nonché la controparte grafica della scena. Descrivici in sintesi i temi che più ti sono cari nel libro, o magari qualche aneddoto.

Apocalypso Disco

Apocalypso Disco (Agenzia X, 2013).

“Di base Apocalypso Disco si occupa, come recita il sottotitolo del libro, della “Rave-o-luzione della post-techno”, nello specifico di tutto ciò che è il suono post-rave, ovvero tutto quello che è successo successivamente a quando quella bomba atomica chiamata techno è stata lanciata sul pianeta Terra, probabilmente a Detroit o a Chicago. Dopo questa esplosione i rivoli della detonazione, ovvero il suono post-rave, hanno iniziato a diffondersi un po’ in giro su tutto il globo, e Apocalypso Disco indaga per l’appunto proprio questi rivoli, analizzando scene che hanno avuto un pubblico numeroso come quella della psy-trance o goa, o della dubstep, la bass music, ovvero generi famosi nel contesto della musica elettronica da ballo; vengono trattati anche generi minoritari, come extratone, la musica sopra i 1000 bpm, il breakcore, un genere di cui in parte si occupa la mia etichetta Sonic Belligeranza, che nasce dall’unione di ritmiche nere velocizzate e suoni industriali della tradizione bianca e della musica colta contemporanea. Il libro indaga tutti questi microsuoni e macrosuoni succeduti allo scoppio della bomba techno, e lo fa attraverso racconti orali, in prima persona e biografici, saggistica, interviste – un vero Zibaldone – e lo fa attraverso anche il remix letterario, che è una forma o un’idea a cui in parte ho voluto dare un’inclinazione mia personale, in cui, partendo dal remix, in ambito di DJ-ing, ho voluto applicare la stessa tecnica, lo stesso concetto alla letteratura, prendere dei testi letterari e remixarli.

“Un esempio di remix letterario presente in Apocalypso Disco, che nasce dall’esigenza di presentare gli stili di strada e i suoni delle tribù post-techno e post-rave, è l’incipit di un romanzo di Philip K. Dick (lo scrittore di “Ubik”, “La Svastica Sul Sole”, “Le Tre Stimmate di Palmer Eldritch”, ma anche di “Ma Gli Androidi Sognano Pecore Elettriche?”, da cui è stato tratto il film Blade Runner di Ridley Scott, ndr), che è “Follia Per Sette Clan”, un romanzo minore molto interessante, in cui si ipotizza che sulla luna alphana venissero deportati i malati di mente dal pianeta Terra, i quali si organizzano secondo delle tribù i cui riti o comportamenti sono collegati alla patologia in oggetto; ci sono gli skiz (gli schizofrenici, ndr), i dep (i depressi, ndr), i para (i paranoici, ndr), con tutte le caratteristiche che la malattia causa; ad esempio i paranoici, prima di andare in una sala d’incontro, mandano un droide per vedere se non c’è una bomba – e questa cosa mi sembrava che risuonasse molto con l’universo delle tribù post-rave e sottogeneri. Non voglio dire che chi ascolta queste tipologie di suoni sia un matto, ma quello che voglio far intendere è che in tali contesti vi sono delle aggregazioni e affiliazioni tipo tribù, in cui il suono elettronico struttura il brain-frame, la capacità di conoscere la realtà e interpretarla. Quindi abbiamo il minimal, la cui musica è ripetitiva e legata alla techno, che ripete più volte la stessa frase in una conversazione; poi abbiamo il gabber che è rissoso, l’ambient che è mellifluo e pacificante, il goa-trance latamente fricchettone e via dicendo. Con questo ho inaugurato la mia pratica da “scrittore” per quanto riguarda il remix letterario poi perseguita in tutti i miei libri successivi.”

Nel capitolo “Come si cura un gabber” poni una riflessione di come rendere stimolante una musica più conservativa dal tratto machista quale la gabber, ovvero di come apportare elementi eterodossi ispirati da più generi. Potresti spiegarci meglio a livello di impatto socioculturale il motivo di queste scelte stilistiche. Cosa ti colpisce positivamente della musica gabber?

Sbrang Gabba Gang

Sbrang Gabba Gang (Agenzia X, 2019).

“A me della musica gabber colpisce molto l’aggressività e l’aspetto violento, e ho apprezzato che vi sia stato un ritorno della gabber negli ultimi tempi, anche su altre prospettive legate agli interessi del mondo dell’arte contemporanea, delle riviste di moda, che per l’appunto hanno puntato molto sull’abbigliamento gabber. C’è stato un ritorno di attenzione per la musica gabber, che ha dei pro e dei contro. I pro sono che ha portato sul dancefloor una musica aggressiva, è tornata ad essere in auge la possibilità che musica dance possa “spaccare”. In un certo senso potremmo dire che la gabber sta alla techno, come il punk sta al rock, o volendo essere più specifici ed incisivi come il punk oi sta al rock. E qui introduco il discorso ideologico – mi sono occupato della gabber in una monografia, ovvero Sbrang Gabba Gang (per Agenzia X, ndr), un libro successivo che è uscito nel 2019, sottotitolato “Ricostruzione Gabber Dell’Universo” – ma in Apocalypso Disco mi occupo molto dell’aspetto ideologico e cerco di decostruire una credenza attualmente molto sfatata anche da questo ritorno della gabber negli anni ’10, ovvero che la gabber sia la musica dei nazi. È vero che la gabber ha una percentuale di interesse da parte di gente che si dichiara di destra, però non è una musica esclusivamente di destra, è una musica totalmente apolitica, puntata ad un edonismo sfrenato, in cui sul dancefloor si confrontano faune diversissime e dalle ideologie altrettanto diverse ma non ben chiare. Un movimento molto eterogeneo e molto interessante. Nel capitolo, “Come si cura un gabber” in Apocalypso Disco vengono chiariti gli aspetti ideologici che stanno dietro la musica gabber.”

Viene citato in diversi punti Venetian Snares nel libro, in rapporto al genere breakcore. Penso che il suo contributo sia stato vitale nel genere e sia andato oltre per via di un approccio rigorosamente complesso e ritmicamente massimalista. Un esempio di come il genere dancefloor, seppur spesso additato come conservatore, può generare fervide situazioni. Pensi che ci stiamo avvicinando sempre di più ad un abbattimento dei muri tra i generi musicali?

“In parte sì, però ci si sta muovendo in questa direzione, ovvero verso lo sfondamento di tutti i generi musicali inteso come un nuovo genere musicale, quello del non avere generi, ma che ultimamente viene inteso però come un genere musicale; mi riferisco ad etichette che io non ho mai amato come la Warp Records, che comunque sono state ispiratrici al contrario, nel senso che mi sono sempre mosso in netta opposizione ad esse. Se queste label tiravano fuori l’intelligent dance music, a me piaceva la “stupid dance music”, nel senso di una musica che non rivaluta il cervello ma lo manda in cortocircuito stabilendo la superiorità dei corpi che vibrano a frequenze dinamiche, ciò che rende la musica dance “sperimentale” è il fatto che il sound si muove “in cospirazione” con il modo di vestirsi, il modo di parlare, il modo di muovere il proprio corpo dando vita ad un nuovo linguaggio di strada, folklore metropolitano. In questa fusione sta la cifra innovativa della musica dance, che dà qualcosa di nuovo rispetto al mondo della cosiddetta sperimentale, che rischia di rimanere ancorato in un solipsismo un po’ fuori dalla reale innovazione.

“Tornando alla Warp, recentemente si è proposta come etichetta post-genere, e in generale adesso il post-genere è diventato un genere, e non c’è niente di più negativo per me nei confronti di chi, come i produttori di breakcore, che avevano fatto a pezzi tutti i generi per poi creare un nuovo genere prima del post-genere. In questo senso io sono molto critico nei confronti del cosiddetto post-club, oppure il deconstructed club o la conceptronics – la musica dance ha bisogno ogni tanto di nuove etichette per vendere i propri prodotti, i propri festival, i propri dischi, digitali o non. Dietro il post-club penso che ci sia un tentativo di creare una nuova scena, che è un ri-masticamento di cose che già esistevano. Quindi questa mancanza di genere, questo sconfinamento dei generi penso che sia una cosa positiva, anche se rilevo che attualmente sia una cosa limitante perché viene codificato come un genere. Un genere che non fa ballare, che si ferma in un intellettualismo, in una rimasticatura dell’IDM anni ’90, che già non era la mia cup of tea come dicono gli inglesi. Comunque all’IDM o brain dance riconosco una specificità di linguaggio che non è il mio ma che apprezzo, mentre con il post-club abbiamo una musica che è cervellotica ma non, utilizzando un termine inglese, it doesn’t deliver, non arriva al dunque, non arriva al dancefloor…”

Non arrivano all’empatia, alle emozioni…

“Sì, diciamo che la scena si pone esteticamente come non empatica, da cui il trionfo della macchina, dell’anti-umano, che è in realtà però è una proiezione fobica molto umana e semplicistica…”

Infatti il tutto è permeato da immagini forti…

“… Forse questa è un’immagine un po’ scontata di anti-umano. Invece come ti dicevo credo che la musica abbia il potere attraverso la incorporizzazione e la corto-circuitazione della razionalità di creare in combutta con il modo di abbigliarsi, il modo di parlare e di muoversi uno stile che è veramente sperimentale; questa è la grandezza della musica dance. In questo senso la musica post-club non è una musica dance che secondo me non lascerà un segno particolarmente innovativo.”

Parliamo delle uscite discografiche. Boyscout-Ravers Must Die! È un turbine di cacofonie tra rave scadente e disorganizzata e musica suonata dalla comunità boyscout. Il concept allude all’analogia tra rave-party e accampamenti scout, entrambi localizzati fuori i centri urbani per obiettivi poco contemplabili o lusinghieri nel nome della musica sperimentale. Il movimento rave in quegli anni (la release è stata pubblicata nel 2007) stava vivendo un momento di decadenza, complice probabilmente l’utilizzo non solo di ecstasy ma anche di droghe pesanti come cocaina ed eroina. Raccontaci del tuo pensiero dietro questo disco. In più ci vuoi parlare dei sample presenti di talk televisivi/radiofonici, in cui compare il bizzarro personaggio RC Collins?

“Il disco nasce da un episodio che mi è successo. Innanzitutto io ho cominciato a fare breakcore in Italia in tempi non sospetti dal 1996, da quando sono tornato da Londra, e ho sempre suonato questa musica che non veniva molto bene intesa. All’epoca andava di moda la jungle e la drum ‘n’ bass, e quando mettevo qualche disco breakcore qualcuno mi diceva “Ma che è, era rovinato il vinile?”. Andavo a suonare anche ai rave, e una volta capitai a suonare in questo rave degli Hazard forse il soundsystem più aperto nel nostro paese in termini di generi che lasciavano suonare; lì avevo 30, 40 seguaci – la zona era quella di Verona – più un migliaio di raver. Comincio a suonare drum ‘n’ noize, break e cassa gabber velocissime e dopo qualche decina di minuti una raver, che non ne poteva più, a cui probabilmente stavo rovinando la festa e la pastiglia che calava, mi lancia una secchiata d’acqua. Io continuo a suonare sostenuto dai miei Lancillotti e riesco a finire il mio set continuando a suonare breakcore. Da lì l’idea di canzonare bonariamente i raver; come ti dicevo io sono di Bologna centro, e Bologna con Piazza Verdi era la Mecca dei punkabbestia, dei teknoraver, con l’abbigliamento classico, la maglietta di Michael Jordan con il numero 23, i dreadlock, il pantaloncino da basket largo, il marchio Pitbull come riferimento per l’abbigliamento e il cappello da baseball tirato indietro. Questa era diventata l’uniforme dei teknoraver, i quali anche loro come i raver andavano nei boschi, e l’idea era quella di associare l’abbigliamento dei punkabbestia alle uniformi dei boyscout, tutti ritrovatisi felicemente ad un party illegale. Da qui nasce l’idea di Boyscout-Ravers Must Die!, ovvero remix di canzoni scout in chiave gabber/breakcore, con la ciliegina sulla torta alla fine dei due lati di questi parlati deliranti – il politically correct non era così imperante – in cui si sente questo personaggio di nome RC Collins che, da una college radio, farnetica, sostenendo che la cultura boyscout sta rovinando la nuova gioventù americana spingendola a diventare gay, facendo l’equazione classica che essere boyscout vuol dire essere gay.”

Bally Corgan unisce due polarità in musica, l’harsh noise e l’alternative rock degli Smashing Pumpkins di Billy Corgan (compaiono 1979 e Tonight, Tonight), autore con cui hai delle somiglianze esclusivamente fisico-facciale. Il due pezzi presentano rumore diversificato su larga scala e per nulla omogeneo; sembra che si voglia colpire la standardizzazione del songwriting più blasonato, oppure in secondo luogo una presa in giro quasi goliardica, in cui Corgan sembra essere più una vittima non complice dei fatti. Parlaci di questa uscita e dicci qual è l’interpretazione del disco più vera tra le due esposte.

Frankestein Goes To Holocaust

Frankestein Goes To Holocaust (Agenzia X, 2016).

“In entrambe c’è la verità, ma ce n’è anche un’altra che è contenuta in questo altro mio libro, Frankenstein Goes to Holocaust (uscito per Agenzia X nel 2016, ndr), che è un libro sul fare musica soffiando musica agli altri. Come in tutti i miei libri c’è una parte narrativa e una non-narrativa, in cui la narrativa è funzionale al concept del libro. Nella sezione non-narrativa viene ricostruita cronologicamente la storia del non-genere di fare musica utilizzando musiche di altre. Dalla musica classica (i remix delle ouverture erano qualcosa di assai comuni centinaia di anni prima del primo dj), a John Oswald, il maestro della “plunderphonia”, alla vicenda dell’Amen break, i 7 secondi di musica più campionati di tutti i tempi, alla vertenza legale U2 versus Negativaland, alla nascita dell’hip-hop sincopata da Grandmaster Flash sul basso di Another One Bites the Dust dei Queen, al breakcore, alla Witch-House, alle tecniche di Iper Mash-Up etc etc. Mi stavo per dimenticare il mio contributo Bally Corgan, con cui sono andato oltre l’idea di soffiare musica dagli altri, si tratta ora di soffiare la personalità. Campionare gli Smashing Pumpkins e mescolarli all’harsh noise, sarebbe stata una roba innovativa negli anni ‘80 magari, come Bally Corgan io ho voluto proprio fregare la personalità a livello situazionista, giocando su questa somiglianza che mi viene attribuita al leader degli Smashing per mettere insieme questo esperimento sonoro-sociale che consiste nell’organizzare finti eventi di reading di poesia con Billy Corgan/Bally Corgan. Non dico altro, compratevi il libro o scaricatevelo e vi garantisco che ve la riderete con Billy/Bally tombeur de femme. Nella sezione narrativa invece c’è una riscrittura del Frankenstein della Shelley in cui il mostro non è la creatura sproporzionata composta di organi da provenienze diverse, ma il Frankenstein sonoro ovvero il mega-mix composto da musiche di tutti i tipi spesso inconciliabili tra di loro, dal black-metal alla musica hawaiana”.

The Definitive Music To Make Human Pyramids With, impostata su una musica gabber quanto più adrenalinica, ripercorre alcuni spunti nella pratica della comunità per l’appunto gabber di creare piramide umane nei loro eventi, andando dall’Antico Egitto fino a qualche caso italiano. Sembra che ci sia stato nella storia una storia una creatività tutta machista di derivazione futurista, che tu hai posto con una vena giocosa ed intelligente, a mo’ di scherzo su di esso, facendo in questo modo convergere attitudini opposte. Parlaci del concept del disco, delle origini e le reali intenzioni.

“L’idea è quella di avere un approccio gabber-antropologico, ovvero di ricercare attraverso la storia dell’umanità questa pratica di fare piramidi umane, che è un tratto distintivo della scena gabber esclusivamente italiana, mi riferisco alle piramidi che si facevano al Number One, un locale in provincia di Brescia, a fine serata. E quindi da lì, dal rito di questa sottocultura dei gabber italiani, degli Hardcore Warrior, altra nostra specificità nazionale, l’intento sarebbe di portare all’estremo questa idea della piramide, andando a ricercare dei segnali di piramidi umane nella storia dell’umanità, a partire dall’Antico Egitto, a cui risale un ritrovamento archeologico in cui è stata ritracciata una struttura di ossa disposte a piramide, che è (o può ritenersi, ndr) il primo esemplare di piramide umana… Citando altri riferimenti, compaiono i Castell, che sono una pratica tradizionale di creazione di piramidi umane della Catalogna, la quale è stata inserita nel patrimonio dell’UNESCO, ed infatti lì esistono delle vere e proprie scuole nel fare le piramidi umane… al Botaoshi, una disciplina estrema giapponese, uno sport, una specie di ruba-bandiera in cui ci si mena come dei dannati, in cui le squadre si raccolgono tipo testuggine o formando un ammasso di persone in piramide… alle Forze D’Ercole, che sono delle piramidi che si facevano nell’antica Venezia ai tempi in cui la città era parte delle Città Marinare. Viene indagato con riferimenti sonoro-antropologici, attraverso tracce gabber, questa cosa delle piramidi umane.

“Diciamo che non viene preso in giro il machismo della gabber, anzi viene esaltato, tanto da farlo sembrare gay. Tu l’hai presa come una presa in giro, e ne prendo atto. Per esempio hai citato il riferimento ai marines, che tratta della loro pratica nel fare piramidi che i novizi devono scalare, come quella al monolite di Herndon, Virginia, che finisce col sembrare praticamente un fallo cosparso di frutta andata a male. Quindi un’esibizione del machismo fino al punto di far sembrare i marines dei ricchionazzi!”

Polka Bolognoise Vol.2  è caratterizzato da suoni eseguiti al Game Boy in versione polka, con il contributo di Lapo Boschi. In questo concept si trova l’analogia tra la breakcore e alcuni dei balli quasi acrobatici della polka ballata nelle sale da liscio a Bologna, come la “polka chinata”, una performance esclusivamente maschile per via dei movimenti molto vorticosi e dinamici, ovvero per la bassa emancipazione della della donna in periodo post-bellico. Nel disco emerge un suono moderno con uno sguardo al passato locale, andando così a definire un’idea di breakcore continuativa e quanto più autoctona, con una sana ed intelligente dose di ironia. Condividi questa visione? Parlaci in dettaglio dell’idea dietro Polka Bolognoise Vol. 2.

“Volente o nolente il liscio, la Filuzzi, è la musica rave autoctona di noi emiliani (sono di Bologna), da cui Polka Bolognoise. È un sound che a me, forse con un pizzico di ironia, piace… In questo secondo volume di Polka Bolognoise (in quanto esiste una prima uscita, sempre su cassetta e digitale), vado ad indagare la inconsueta forma di Filuzzi chiamata Polka Chinata, che è un ballo in cui ci si aggancia gli uni agli altri e si piroetta in maniera continua. Tale versione della polka è nata nel dopoguerra, sotto i portici, e per ballarla bisognava avere dei requisiti atletici non banali. Mi piaceva trovare questa continuità con essa, in quanto una sorta di breakdance locale, petroniana, d’altra parte anche la breakdance era legata indissolubilmente allo spazio urbano. Siamo nel caso in cui il passato è il futuro remoto.”

Per concludere parlaci dei prossimi progetti a livello discografico o bibliografico.

“Stiamo lavorando per + Belligeranza (sottoetichetta di Sonic Belligeranza, promotrice di suoni e noise, concettuale, rumore sì, ma con un’idea, un concept, dietro) a un disco che vede l’aspirapolvere come elemento chiave. Il progetto, di nome Dyson, vede due musicisti: Steve Vileda e Renz Rowenta. Ci saranno dei remix di suoni d’aspirapolvere in versione free jazz. Dimenticatevi il sax di John Zorn e tutto il resto, adesso l’aspirapolvere è la “nuova cosa” del nel mondo dell’improvvisazione radicale. Un lato del disco sarà remixato da me, l’altro lato da Domestic Arapaima.”

Un grazie speciale a Riccardo Balli per le correzioni e revisioni all’articolo.

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