ALL’ÙSE NUÈSTRE: BREVE STORIA DELLA MUSICA IN TARANTINO
di Michele Ruggiero
Una panoramica sugli episodi più interessanti e sconosciuti della musica in dialetto.
Ponte Girevole

Ponte Girevole, Taranto inizi ‘900.

Qualche mesetto fa, tra le miliardi di dirette social proposte da “i nostri artisti che ci fanno tanto divertire e appassionare” durante il periodo di lockdown, nel gruppo Facebook “Santeramo Vive” è andato in scena un botta e risposta social fra la popolazione santermana e l’artista Mama Marjas (nata, appunto, a Santeramo). Una delle domande più frequenti era: “Mama, ma perché canti e rappi in tarantino, e non in dialetto santermano?”. La risposta, laconica: “Perché il tarantino è più musicale.”
Non ha tutti i torti. Eppure, paradossalmente, la musica in lingua tarantina è tutt’altro che conosciuta e celebrata, se escludiamo i big della scena ragamuffin – è ancora viva, sì, ma nella penombra, o comunque relegata a manifestazioni folkloristiche, cori ultras, ricerche da feticisti.

Per non parlare di chi, a un minimo accenno di dialetto, liquida quello che sta ascoltando come becero trash, anzi diremmo munnèzze. Come succede però spesso e volentieri, se si cerca bene nella monnezza, qualche oggetto di valore si trova – e come sappiamo bene: dai diamanti non nasce niente, dal rummato nascono i fior.

Andiamo allora alla ricerca di questi fiori, andiamo a riavvolgere il nastro sugli episodi più interessanti, insospettabili e degni quantomeno di essere raccontati della storia della musica cataldiana.

Se vogliamo avvicinarci alla musica in tarantino nella maniera più “pura” possibile, non possiamo non partire dai canti popolari più antichi – o quantomeno i primi a essere registrati e non solo tramandati o trascritti. Se siete fra i tanti a cui il primo pensiero che balena in mente sentendo accostate le tre parole canto popolare tradizionale è “gran rottura di balle”, è probabile che andando a pescare dall’enorme Archivio Sonoro curato da Alfredo Majorano nel 1950 vi ricrederete, o almeno rimarrete in un certo modo incuriositi.

Alfredo Majorano, autore di testi teatrali ed etnologo tarantino, raccolse decine e decine di canti, dialoghi, litanie in giro per la Città Vecchia e la provincia di Taranto. La sua passione per la cultura e la musica cittadina crebbe negli anni in cui lui stesso era lontano da Taranto, in Africa, e questo non ci stupisce: la nostalgia e l’affetto per le proprie radici sono probabilmente il “motore” principale della penna di molti musicisti tarantini. Non è uno dei temi ricorrenti, è IL tema ricorrente.

Taranto Vecchia

Taranto Vecchia, inizi ‘900.

Ascoltando i brevi estratti dell’Archivio digitalizzati dalla Biblioteca Acclavio, veniamo scaraventati in un microcosmo fatto di venditori ambulanti, innamorati vagabondi e mamme coi bambini, ninne nanne, urla, canti strazianti – insomma, un vero macello, ma anche una testimonianza diretta di come si intrecciassero frequentemente e in maniera variegata lingua locale e musica. Soprattutto colpisce quanto queste canzoni fossero legate a doppio filo con la quotidianità di chi le cantava: poco spazio per il trascendentale, chi canta interpreta a modo suo il mondo in cui si ritrova. Musica popolare dunque, ma vista dal suo lato più oscuro, anzi vista proprio senza veli, libera da arrangiamenti caciaroni e atmosfere festanti da Notte della Taranta: testi, voce e un pizzico di disperazione.

In “I’ so’ zi’ mòneche” (che si può ascoltare da questo link), storiella d’amore medievale, si parla ad esempio di una coppia di amanti il cui maschio, travestito da monaco, tuzza alla porta della casa dell’amata, fintasi malata, per chiedere la carità. Ma proprio perché allettata e moribonda, i genitori di lei non hanno nulla da offrirgli: mitte e mòre? (e se morisse?) “Mìtte e mòre, falla cunfessa’”. Con la scusa di confessarla, riesce ad appartarsi con lei in camera senza destar sospetti, con buona pace dei futuri nonni (“nóve mìse e nàsce ‘u criatùre”) e dell’ordine dei monaci. ¯\_(ツ)_/¯

La vera potenza di questo frammento audio sta nella voce, distorta, della “cantatrice” Rosalia De Gennaro; la sentiamo prendere la rincorsa su una melodia “tenera” solo in apparenza, che infatti, cambiando tonalità e velocità, diventa sempre più aggressiva mentre il cantato si fa man mano più fratturato, schizzato e ritmico, finendo per inquietare nel suo essere ossessivo e ridotto all’osso.

Altrettanto scarni ma intensi sono i due frammenti dei “canti della malavita” (intonati però come passatempo serale anche da “giovani onesti lavoratori e donne”), carichi di tensione e di passione. Salta all’orecchio quello interpretato dal “cantatore” Giuseppe Troncone (rintracciabile qui), in cui (pare) si faccia riferimento a una femmena non presentatasi a un appuntamento. In generale, c’è un fortissimo senso di passione che forse non emergerebbe se queste canzoni non fossero cantate a cappella, mettendo al centro la voce di chi la interpreta. Potete immaginarla come la colonna sonora di una Gomorra d’altri tempi, in effetti, essendo il cantato molto affine a quella voce ‘e Napule dei venditori ambulanti partenopei e comunque allo stile tipico meridionale, ricco di virtuosismi esasperati.

A cavallo fra anni Cinquanta e Sessanta, Taranto vide nascere il collettivo probabilmente più importante per la sua tradizione musicale: Armonie dei Due Mari, partorito dalla mente di Saverio Nasole, ma attorno alla quale ruotavano tantissimi interpreti e musicisti, tra cui la moglie Antonietta Nasole, i tenori Mario Ciriola e Francesco Vamo, cori di voci bianche e così via. A differenza di Majorano, che era a tutti gli effetti uno “scienziato” della tradizione e fece un lavoro di raccolta e cataolgazione, Nasole riuscì a riarrangiare e diffondere i brani che lui stesso ascoltava in giro per la città da giovane, scrivendone anche di nuove.

Noto a tutti in quanto bidello di scuola media, riuscì a coinvolgere decine e decine di musicisti nel suo progetto, diventato col tempo popolarissimo anche grazie alla trasmissione che egli stesso curava su Radio Taranto International. Non solo, i riconoscimenti arrivarono anche extra moenia, vincendo e girando per concorsi canori in giro per tutto il Sud Italia. Apriamo una parentesi su tali concorsi: questi furono seminali per lo sviluppo della canzone del Meridione. Feste come la Piedigrotta di Napoli, all’interno della quale si “sfidavano” ogni anno cantanti e interpreti di musica popolare, avevano eco in tutto il Sud Italia – tant’è che dal 1892 fino al 1945 venne riproposta anche una “Piedigrotta tarantina”, seminale a sua volta per aver ispirato poeti concittadini come Emilio Consiglio e, appunto, Saverio Nasole. Ecco perché peraltro non è errato associare la musica napoletana a quella tarantina, ed è facile trovare delle reciproche influenze.

Varcd'Ore/Cip Cip

Cover del singolo Varcd’Ore/Cip Cip, rilasciato dal Gruppo Folk Armonia Dei Due Mari per l’etichetta Gigante.

I brani vennero incisi dal collettivo solo negli anni ’80 – probabilmente dopo la morte di Saverio stesso, avvenuta nel 1980 – su vinili e cassette praticamente introvabili: provando a fare un giro su Discogs, le copie di Armonie sono limitatissime e raggiungono, ovviamente, prezzi allucinanti. Editi dalla misteriosa etichetta Gigante, le copertine ritraggono tutte il foltissimo gruppo in costume tradizionale, davanti a un trafficato Ponte Girevole. Un bell’esempio di scontro diretto fra tradizione e modernità, ritratta nella frenesia di una città nel pieno del suo boom economico, negli autobus e nelle auto che passano, nella ferraglia del Ponte – uno scontro forse involontario forse no, che però ci suggestiona assai.

I testi sono spesso “autocelebrativi” e iper-nostalgici, influenzati o creati appositamente per musicare le commedie in dialetto di autori come Majorano, Bino Gargano, Edmondo D’Auria. Si passa dall’esaltazione delle bellezze cittadine (Tramònde a Tàrde) a ricordi di scene d’amore vissute (Quànne Balláve Tu, Cip Cip) o ancora scenari di pesca e di campagna. Probabilmente era una musica rivolta a chi, specialmente dal Dopoguerra in poi, fuggiva da Taranto per subirne il fascino da emigrato, avvertendo la mancanza di una città idealizzata nei ricordi. Non mancano tuttavia eccezioni goliardiche in stile Squallor (A Parlaje cu Papà – quel rutto glitchato sul finale è ORO) o, al contrario, impegnate come Luccle e Gride, quasi RinoGaetanesca, dalla penna di Mimmo Carrino (altro artista dialettale, che al di fuori di Armonie incise su un 45gg nel 1974 gli stornelli U Vine du Ceppone/A Fruskelona Meje. Qui il link alla pagina Discogs del lavoro). In Luccle e Gride, c’è un continuo riferimento all’improvviso e finto senso di ricchezza, splendore e benessere che si respirava negli anni del boom dell’Italsider a Taranto. Carrino delinea una critica sottile al tipico “pezzente arricchito”, tutto contento del proprio portafoglio gonfio, ma cieco davanti al consumismo sfrenato, all’inquinamento, all’abusivismo edilizio e all’incuria, perché tanto “quìste è ‘u paìse cchiù bèlle”, è il paese della tarantella, del mandolino e delle musichette, mentre fuori c’è la morte.

Gli arrangiamenti degli Armonie possono risultare talvolta kitsch, con i loro tamburelli e fisarmoniche e chitarre, ma ad un ascolto attento ci sono dei brani che in un certo senso colpiscono: mischiando melodie e stilemi classici ad elementi moderni di disturbo, si accentua di nuovo un forte senso di caos, inquietudine e, osando, psichedelia – peraltro in maniera naif e assolutamente spontanea, non pretenziosa.

Ci sono Ste Murìve, una sorta di tango ubriaco sostenuto da cowbell elettroniche e basso minaccioso a fare da sfondo; c’è l’organetto sintetico e le voci riverberate di ‘A Zitèlla Maritáte; ma il preferito di chi vi scrive è sicuramente Di’ Ch’è Buscìa, in realtà nata da una costola degli Armonie, cantata da Mario Ciriola e Antonietta Nasole con l’Orchestra La Gioia. Anche qui ritorna lo spettro di Napoli: questa è praticamente una sceneggiata, di quelle à la Pino Mauro, Mario Trevi, quelle del revival anni ‘70, con questi fiati romantici che sanno proprio di banda meridionale, questo beat elettronico minimale, questo piano, questo tutto che rende il pezzo una bomba di sensualità pronta ad esplodere, una cloaca, un bagno di sudore.

Cambiano decisamente le atmosfere invece in Natále ha già trasùte indr’a sta cáse. Sempre di Mimmo Carrino, è una ninna-nanna natalizia intima e dal sapore decisamente malinconico, tutta costruita attorno a un giro di chitarra semplice e continuo, mentre ogni tanto zitti zitti entrano ed escono dalle casse trilli metallici, campane e flauti balearici à la Ivano Fossati in pieno periodo Delirium. Insomma, un bell’esempio di saudade natalizia che durante le festività potete benissimo affiancare alle Pastorali (per inciso, le Pastorali sono fra le canzoni in tarantino tutt’ora più amate e conosciute da chiunque).

C’è stato un momento in cui, dagli anni ’90 in poi, probabilmente sulla scia di – indovinate? – giganti napoletani come Pino Daniele, Senese, Esposito, ma anche 99 Posse, Almamegretta e Sud Sound System, la lingua tarantina ha iniziato a sposare generi e stili tipicamente black o alternativamente mediterranei: iniziava cioè la fase in cui il dialetto si staccava definitivamente dalla tradizione per abbracciare linguaggi e territori non ancora esplorati.

Se leggendo le parole jazz, soul e funk non dovesse venirvi nessun artista tarantino in mente, non dovrebbe essere così leggendo la parola cabaret. “Allievo” di personaggi enormi in Puglia come Gianni Ciardo e Toti&Tata (ma anche di un Nico Salatino), forte di una formazione tanto teatrale quanto musicale, Franco Cosa fu il primo a cogliere l’opportunità di portare sul palco la canzone tarantina in una dimensione di cabaret. Negli show di Franco Cosa tuttavia la musica è tutt’altro che secondaria o di accompagnamento, ma è parte dello spettacolo in sé e in un certo senso nella sua discografia ci puoi trovare di tutto: dalla disco di Tu Vuo Fa L’Artista al funk dei classiconi Mutando Cacato e Le Spuenze (la cui bassline fa il verso al Micheal Jackson di Wanna Be Startin’ Something), così come esperimenti rap (Si nu n’famone); tutti brani impeccabili forse “penalizzati” nell’ascolto da una produzione un po’ troppo moderna. Altrettanto iconica è la romantica e surreale Stoche Sempre Sotte, pezzo r’n’b brillante a metà fra dichiarazione disperata d’amore (stare sotto = essere innamorato) e lamento sessuale con annessi riferimenti a fellatio e posizioni varie (“apprìme stave sempre sùse) – un inno romantico-rattuso.

Franco Cosa non fu l’unico a proporre questa commistione, ma stavolta ci allontaniamo dall’area teatro/cabaret per avvicinarci a lidi di “flusso di coscienza identitario”, di testi pregni di citazioni e modi di dire – un po’ autoreferenziali e retorici a volte – come quelli che possiamo ascoltare nei dischi di alcuni artisti molto interessanti: Ivano Fortuna e Gianni Cellamare. Ivano è un po’ un tuttofare, compositore, autore di testi e soprattutto batterista/session-man per valanghe di artisti, folgorato da ritmi e sonorità etniche (ora africane, ora indiane) e suggestioni new age. Cresciuto musicalmente dalla fine degli anni ’80 lavorando assieme al Sound Movement Studios (progetto-costola in terra bergamasca dei Panama Studios), pubblica nel 2004 un album in tarantino, Uèzete, avvalendosi del contributo di musicisti enormi come il (di nuovo) napoletano Tony Esposito e Tony Scott, americano. Le sonorità risentono di influenze afro-jazz e gitane, considerata la forte presenza dell’apparato percussivo (ricordando un po’ le atmosfere di Enzo Avitabile & i Bottari), anche nelle canzoni più calme, come ‘U Pescatore” e ‘A Vìte.

Gianni Cellamare è un eccellente musicista che nel mare magnum dell’acid jazz mediterraneo ci sguazza invece dagli anni ‘90, strizzando l’occhio sinistro al groove internazionale e quello destro alla cultura locale. Sono due i suoi progetti in tarantino: con i Maranjapoint a partire dal 1992 e con i Taranto 4tet nel 2009.

I Maranjapoint, frutto dell’incontro con Enzo Granella, futuro membro dei Tarantolati di Tricarico, furono una band di culto nell’area ionica, proponendo un incontro tra funk e jazz a tinte afro-latine davvero interessante. I testi sono molto teatrali appunto molto citazionisti, volti a tenere accesa la fiamma dell’identità tarantina: e quindi giù di nomi di giochi antichi (Manuè Zozzò e A Livorije), vai di Birra Raffo, cuzzaruli, pescatori e insulti in vernacolo vari (Pagliaccio Fanatico Stuè) – testi a volte efficaci e d’impatto, a volte un po’ forzati. D’altronde, ascoltare i Maranjapoint non può prescindere dalla loro dimensione dal vivo, e infatti l’unico album registrato dalla band è quello di un concerto in un manicomio bolognese nel 1998, che potete ascoltare per intero qui.

Qui il link per scaricare “Maranjapoint – Live in Bologna”.

Anche l’album ‘U Popole Mije, realizzato nel 2009 da Gianni coi Taranto 4tet, seppur meno accattivante nelle sonorità, non è da trascurare se siete appassionati di un jazz più notturno e rilassato (contiene peraltro due cover di Enzo Del Re, gigante semi-dimenticato del cantautorato pugliese)

Arrivati a questo punto, sorvolando su piccoli assurdi episodi in territori di musica elettronica post-rave, possiamo parlare della rivoluzione che ha investito la musica tarantina con l’avvento della cultura hip-hop e ragamuffin in città. Artisti come Moddi MC, Fido Guido, Madkid, Zakalicious, Pacefatta, ma anche locali fondamentali come il Jamaica, non solo hanno scatenato un coinvolgimento enorme per più generazioni di tarantini, non solo hanno rinnovato un uso del dialetto che rischiava in quel periodo di accartocciarsi su se stesso, ma sono diventati a tutti gli effetti la tradizione, la musica identitaria all’interno della quale un tarantino si riconosce e conserva la memoria comunitaria.

Moddi MC, Kaos One

Moddi MC (a sinistra) con Kaos One (a destra) al Leoncavallo di Milano.

E’ solo con questa rivoluzione interna che il tarantino si riversa al di fuori dei confini comunali. Moddi MC, facendosi notare coi Pooglia Tribe alla fine degli anni Novanta, soprattutto grazie a sessioni di freestyle memorabili, riuscirà a duettare anche con artisti già piuttosto importanti a livello nazionale, come Neffa e Gopher in Già da un po’, Kaos One – la sola barra di Sprekelescene “dammi tre parole: còzze c’u lemóne” vale la carriera – , ma soprattutto apparendo in un album di culto per la storia hip-hop italiana: Melma&Merda, del ‘99.

Invitato dai fidati Kaos, Sean, Deda e Neffa alla produzione, a Moddi viene affidato l’attacco micidiale di Too Xigen, un pezzo allucinante, con un groove cattivissimo che le orecchie più esperte riconosceranno al volo: si tratta dell’attacco de L’Eroe di Plastica, brano di chiusura dell’album afrobeat-prog Rosso Napoletano, di Tony Esposito (ormai ospite fisso di quest’articolo).

 

In generale però negli artisti hip-hop tarantini non è raro trovare un’insospettabile vena funky: si ascoltino episodi come Cummagireavuetmò dei Pacefatta, dagli echi George Bensoniani, o diversi pezzi della discografia di Sciamano (Sulla Poltrona) e Robert8 (Ribelli), ma anche Il Pollo della ben più nota Mama Marjas, che insieme a Don Ciccio nel 2015 con l’album Mama diresse il tarantino verso territori latinoamericani ancora inesplorati. A ritmo di cumbia e dembow riuscì ad anticipare di qualche anno, dal basso, le tendenze del pop più radiofonico senza tuttavia scendere a compromessi o cercando del successo facile.

Sciamano.

Sciamano all’Uno Maggio Taranto 2013.

Non resta quindi che fare menzione degli artisti che più hanno lasciato un segno nell’immaginario collettivo a Taranto, rendendo un genere decisamente poco comune in Italia come il ragamuffin il più rappresentativo del patrimonio linguistico tarantino: Fido Guido e Zakalicious. Due approcci differenti, due stili di scrittura quasi opposti: nel primo prevalgono tematiche di tipo sociale e politico, in cui il tarantino si fa veicolo, mezzo di unione e comunicazione diretta con tutti gli strati della società cittadina verso problematiche di ambiente e lavoro, in un periodo in cui la coscienza socio-culturale a Taranto era ristagnante, se non arida. Canzoni come Fùme Scùre o No Ne Stònne sono diventati inni, simboli di lotta e resistenza cittadina; non vanno trascurati però brani più sotterranei come Vastase, con MalaTesta e Moddi, o la splendida dedica romantica uptempo Sine Uagnèdde.

Fido Guido

Fido Guido all’Uno Maggio Taranto 2013.

In Zakalicious invece si nota, esclusa qualche eccezione, un approccio più “festaiolo” e leggero (La Festa, Grazie Mamma, La Signora di Sopra), pur rimanendo in territori ragamuffin. Per chiudere il cerchio, ricollegandoci a Majorano, il primo EP di Zakalicious, La Casa Della Parrucca, del 2005, nasce in un periodo di lontananza da Taranto: a Bologna frequenta le prime dancehall e i primi sound system e sempre lì comincia a registrare. Ne La Casa Zakalicious strappa i capelli a noti riddim giamaicani nati in lingua inglese per trapiantarci la propria “parrucca” in lingua tarantina, riuscendo a creare delle vere e proprie hit tutt’ora cantate e conosciute da chiunque in città.

Giunti alla fine di questa mini-enciclopedia in cui sicuramente sarà sfuggito qualcosa, l’augurio è che non si perda, come pare avvenire negli ultimi anni (a parte qualche sporadico episodio r’n’b/trap come questo e questo), un rapporto dialettico con il tarantino. In senso musicale c’è ancora molto da esplorare nella lingua come mezzo di espressione; la dialettica, lo sforzo e la sfida stanno appunto nel farla evolvere evitando di cadere nel citazionismo sterile e l’autoriferimento passatista. Stáme parláte!

Ringrazio per gli spunti di ricerca forniti e il prezioso aiuto nella stesura dell’articolo Angelo Cannata e Francesco Vamo.

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