John Coltrane rappresenta un passo importante attraverso il quale certo hard bop/jazz modale si sia evoluto nella scompostezza creativa del free jazz, e aprendo la strada a certo fervore libertario in certa consolidata popular music. Comunque, proiettando più verso l’infinito i confini sonori afroamericani o con un’origine europea, il sassofonista originario di Hamlet, in North Carolina, ha dato qualcosa in più alla musica; il suo suono, dai movimenti rotondi e molto spesso dalle dissonanze insospettabili, ridefinendo i registri di un rinnovato melodismo, ha fatto sì che quel flusso del suo sax tenore o soprano venisse immortalato e inanellato in un’aurea dorata della Storia.
Attraverso l’utilizzo in particolare del sassofono soprano, abbiamo un nuovo sound in nome dell’eclettismo tra vecchio e nuovo, luoghi esotici e territori occidentalizzati; la prima esperienza di Coltrane con quella tipologia di sassofono risale probabilmente al 2 Novembre 1958, quando trovò uno quegli esemplari, lasciatogli da un amico musicista nella sua macchina di ritorno da Washington verso New York. Coltrane cominciò a giocarci e ne rimase affascinato. Invece una prima testimonianza di una sua esibizione al sassofono soprano risale al 2 Febbraio 1959 (riportata da Gary Goldstein, contrabbassista e professore di fisica); in quell’esperienza, Coltrane dimostra di offrire qualcosa di diverso e fervido, ma, secondo il parere del testimone, attraverso una tecnica pratica ancora non del tutto matura. Il sax soprano, dall’estensione più acuta, emetteva un suono più nitido sui toni più bassi, e permetteva a Coltrane di trovarsi maggiormente a suo agio nel suonare; inoltre quel nuovo timbro avrebbe conferito un tocco esotico, da ancia etnica di un paese lontano. Non è un caso che l’Africa, l’origine di Coltrane che ha attraversato l’oscura invasività del colonialismo, e l’India, altra vittima dell’Occidente, diventano due aspetti peculiari, quasi speculari, del musicista afroamericano. È in quel periodo – a cavallo tra i decenni ’50 e ’60 – che John Coltrane si appassiona al virtuoso del sitar Ravi Shankar, originario dell’India Settentrionale. La musica di Shankar portò lo sdoganamento nella popular music dei raga (le scale di origine indiana che comprendono quarti di toni), e Coltrane non è tanto interessato al contesto geografico quanto piuttosto alla scoperta di nuove tonalità che vadano oltre in concetto di consonanza della musica afroamericana di allora, prendendo nota di numerose scale di provenienza altra, come quelle algerine, cinesi, giapponesi, spagnole, scozzesi, etc. Un proposito inconscio nell’utilizzare il soprano potrebbe risiedere nell’ammirazione di Coltrane per precedenti autori jazz e esecutori di quello strumento come Sidney Bechet, pilastro del jazz storico, e uno dei suoi protetti, Johnny Hodges.
Alla fine il musicista afroamericano decide di utilizzare quello strumento in maniera più ufficiale nel 1960, regalatogli da Miles Davis il 21 Marzo di quell’anno, che a sua volta l’aveva acquistato da un’antiquaria a Parigi, che però teneva di riserva, esibendosi più spesso con un modello della Selmer. Nell’Ottobre del 1960 avvengono le registrazioni delle sessioni che andranno a costituire My Favorite Things, uscito a Marzo 1961 per la Impulse!. La formazione vede Coltrane al sassofono soprano, McCoy Tyner al piano, Elvin Jones alla batteria, e Steve Davis al basso. Il modo di suonare di Coltrane, eterodosso, ha una fluidità e leggerezza tutta nuova, dove i quattro standard che vanno a comporre My Favorite Things si vestono di sonorità che colpiscono lietamente al cuore, innalzando il discorso musicale. Il suono del sax descrive geometrie sferiche, accarezzando la Terra con un linguaggio universale, mostrandoci il significato del rinnovamento, concetto in sintonia con la cultura afroamericana attraverso la ricerca di un divino cosmopolita e panteistico. La titletrack, il pezzo più noto, è stato scritto originariamente per uno spettacolo a Broadway del 1960 da Richard Rodgers e Oscar Hammerstein II, ovvero Tutti Insieme Appassionatamente, che ebbe molto successo in quel periodo; Coltrane trovò terreno fertile in questo valzer destinato ad un pubblico di famiglie, apportando una politonalità aliena e morbida, ma matura, e delle dissonanze di contorno. Figurano anche una Ev’ry Time We Say Goodbye (di Cole Porter), insieme alle versioni di Summertime e But Not For Me (pezzi composti da George Gershwin); in quest’ultima viene esaltato il ritmo, la velocità, e le dissonanze verso il finale che danno un aspetto quasi più magmatico, di una tecnica che si esacerba. Un finale diverso, più grandioso, ma attraverso una melodia agrodolce nell’ottica generale.
Nell’analisi di My Favorite Things si inserisce anche Olè, registrato il 25 Maggio 1961 e pubblicato la prima settimana di Novembre dello stesso anno ancora una volta per la Impulse!. Tra i musicisti spiccano i nuovi arrivati, Eric Dolphy (sassofono tenore, flauto, clarinetto basso) e Freddie Hubbard (tromba), due contrabbassisti, ovvero Art Davies e Reggie Workman oltre che Coltrane, Tyner e Jones. In questo traguardo la musica di Coltrane si aggiungono particolari interessanti. Nei pezzi Olé e Dahomey Dance ci sono i due contrabbassi, uno solista e l’altro ritmico, e inconsueto è il ruolo del flauto di Dolphy, dall’andamento flessibile e atonale. Olé in particolare è permeato da suoni che rimandano alla cultura popolare spagnola, che rimandano come fonte ad una canzone nota come Venga Vallejo o El Vito; quella della Spagna, un’influenza che passa attraverso Miles Davis e il suo Sketches Of Spain, pubblicato l’anno prima. Invece probabilmente Dahomey Dance è ispirata ad una registrazione documentaristica di due cantanti africani, forse tratta da un album della Folkways. Sta di fatto che questo aspetto collima con l’incontro, sonoro e effettivo, avvenuto con il percussionista e ballerino nigeriano Babatunde Olatunji, il cui gruppo si esibì con quello di Coltrane in una stessa serata dell’ultima settimana dell’Agosto 1961 (insieme ai Jazz Messerngers di Art Blakey), al Village Gate di New York; inoltre nel 1962 Coltrane dedicò al musicista di origini yoruba il brano Tunji, presente nell’album Coltrane. Un’immersione nell’Africa e in una nuova tonalità.
Coltrane era pienamente immerso entusiasticamente in quel nuovo contesto sonoro. Il nuovo jazz, la New Thing, stava esordendo in quegli anni, e rilevante fu l’apporto di Ornette Coleman che nel 1959 pubblica The Shape Of Jazz To Come; come da titolo, il jazz acquisisce nuova forma, attraverso un nuovo spirito creativo, in concomitanza con l’affermarsi delle lotte per i diritti dei neri, che vivevano in quel tempo in una società segregazionista. Charlie Haden, il contrabbassista di Coleman, ha grande influenza nella regia del suono in Favorite Thing e Olé; in entrambi il basso duttile, dalle linee che ricalcano quei raga di cui abbiamo già accennato, come avviene soprattutto in Lonely Woman; il pezzo di Coleman da un punto di vista ritmico può essere un’ispirazione per Coltrane. Un bordone che diventa una tela su cui disegnare melodie e armonie più in sintonia. Inoltre probabilmente è lo stesso Coleman a infondergli l’idea di una linea sfumata tra ritmo e melodia/armonia, dove il basso si sdoppia e svolgono sia il ruolo principale che quello di supporto.
Coltrane in quel periodo sembra avere una concezione della solidarietà in musica per cui ogni cosa diventa una contaminazione, dove Oriente e Occidente prendono le sembianze di un chiaroscuro che si estende pacificamente a tutto.