Paolo F. Bragaglia, tra glitch post-romantici e rinnovamenti cold-wave
di Giovanni Panetta
Intervista all'autore elettronico e organizzatore del festival marchigiano Acusmatiq; un cammino tra le tappe più importanti della sua carriera, tra cui la pubblicazione di The Man From The Lab (2021).
Cover di The Man From The Lab (2021).

Cover di The Man From The Lab (2021).

Paolo Filippo Bragaglia, dopo aver militato negli anni ’80 in diversi progetti marchigiani new wave come chitarrista e successivamente ricoprendo il ruolo di compositore di colonne sonore per il cinema e la televisione, esordisce nel 1999 con un primo album intitolato Magnum Chaos, per poi proseguire  con Mensura (2003), Mystère du Printemps (2006), una raccolta dei brani per l’evento The Call of Dreams di arte, moda e musica intitolata Fornarina Urban Beauty Show Original Soundtracks (2008), e a seguire dopo tredici anni (ovvero il 5 Novembre 2021) The Man From The Lab, per Minus Habens Records. In particolare, quest’ultimo disco manipola un immaginario futuristico come pretesto per una colonna sonora di un film inesistente, di ispirazione krautrock, post-punk o, secondo le parole di Bragaglia, più propriamente cold-wave, guardando anche all’elettronica e alla techno.

Inoltre Bragaglia ha collaborato nel progetto Synusonde con Matteo Ramon Arevalos, un pianista di formazione classica e valente interprete di autori novecenteschi come Olivier Messiaen e György Ligeti, che nel 2011 ha pubblicato l’album Yug, sempre per Minus Habens; nel disco, un lavoro che è risultato lungo e complesso, si fondono in maniera del tutto innovativa sonorità elettroniche e musica contemporanea, ispirandosi sia dal primo Novecento che dal minimalismo storico.

Infine Paolo Bragaglia non si occupa solamente delle proprie produzioni, ed è anche direttore del festival di musica elettronica internazionale Acusmatiq, che si svolge nelle Marche dal 2006, e nel quale si fondono avanguardia e sonorità leggere. Gli eventi e l’atmosfera infatti risentono della cultura del luogo, e non è un caso che esemplari di sintetizzatore con marchi del posto, come Farfisa, Crumar, Elka, Siel e Eko, sono stati venduti in tutto il mondo, e suonati da artisti del calibro di Tangerine Dream e Ultravox.

Di seguito l’intervista a Paolo Bragaglia riguardo una parte delle tappe principali della sua carriera che volevamo approfondire.

Cominciamo dagli inizi. Magnum Chaos, il tuo primo album da solista, del 1999 per l’etichetta milanese (ormai del passato) FridgeZone, si avvale di alcuni collaboratori, ovvero Simone Brecciaroli, Emma Zunz e Oliviero De Quintajé. Il suono è contrassegnato da una techno eclettica in cui fanno da sfondo parti vocali e campioni di qualche arco. Tale sound risulta classicamente accogliente e nobile nella sua espressione, con il personale tocco di psichedelìa artificiale che contraddistingue la tua poetica di quel presente e del successivo futuro. Brani più eterodossi non mancano, come Tubescape, che si proiettano in un futuro massimalista e piacevolmente distopico, il quale si esplica con ritmi adrenalinici e più articolati. Un altro fulgido esempio è Laus, più scampanellante nei timbri digitali, accompagnato da linee sintetiche graffianti in contrapposizione con la struttura portante citata. Ma quali sono le tue intenzioni con questo esordio e con la tua offerta solista?

Ciao, ben trovato è un vero piacere essere qui sulle colonne di Nikilzine! Dunque, partendo da così lontano non posso fare a meno di ripercorrere gli anni precedenti alla pubblicazione di quel disco, che – detto per inciso – fu un esordio piuttosto tardivo rispetto alla mia carriera. Infatti in quel disco confluì tanto materiale degli anni precedenti, gli anni 90. Ci sono dei brani che amo ancora moltissimo,  ma non posso negare che si tratta di un lavoro piuttosto eterogeneo, in virtù dei differenti periodi in cui Magnum Chaos fu realizzato. È importante notare che oltre agli ospiti che hai citato  (purtroppo sia Luigi Brecciaroli che Oliviero de Quitaje ci hanno lasciato, ed approfitto per volgere a loro un commosso pensiero), nel disco c’è anche Mauro Pagani. l’album difatti ospita alcuni brani che provengono da una colonna sonora di un film indipendente che feci nel 1995 alle quale partecipò Mauro con il suo straordinario violino. Di base al lavoro, devo dire che c’è l’ispirazione dell’elettronica multiforme e caleidoscopica degli anni 90, con i suoi mutevoli e spesso imprevedibili colori.

Mensura, del 2003 per FridgeZone, esplora un linguaggio pop e artefatto, con una forma più familiare, meno legata all’elettronica propriamente intesa in senso ortodosso (soprattutto techno), in cui però non manca l’elemento urbano e lisergico allo stesso tempo, e anzi, questi ultimi risultano essere de facto due aggettivi che descrivono perfettamente, ma meno convenzionalmente, il lavoro. Protagonista è anche la voce della cantante, vocalist e attrice Monica Demuru, dai testi astratti (un esempio iconico è Dopplereffekt), poetici e sussurrati (in Grotesque). La titletrack (Mensura) si astrae da qualsiasi genere, giocando su suoni percussivi con pattern ritmici magmatici e dilatati. Non mancano esperimenti di elettronica lateralmente progressiva, come in Le fantome neoclassique, in cui si aggiungono campioni di strumenti a corda e qualche parte vocale, emulando un certo stile techno; similmente, A Little Bit ha un’impostazione più ondivaga e graffiante, con un artigianato sintetico dalle sonorità potenti. Un suono tra due polarità, e manifestazione di una creatività centrifuga ma più quadrata, che si proietta verso il futuro; come nasce quest’impostazione in Mensura?

Ti ringrazio per le belle parole riferite a Mensura, che è un disco che amo molto e al quale ho lavorato davvero parecchio in termini produzione e di cesellatura dei dettagli. Anche in quel caso fu per me fondamentale mantenere il collegamento in un mondo sonoro Il più possibile contemporaneo cercando anche di mantenere alcuni elementi musicali e compositivi che amo visceralmente. In questo caso la scommessa fu appunto quella di coniugare un certo pop obliquo e rarefatto grazie anche alla complicità della meravigliosa voce della grande Monica Demuru, con le sonorità tipiche di una certa elettronica che si stava affacciando all’inizio degli anni 2000 dove tra l’altro anche le sonorità glitch si cominciavano ad affacciare prepotentemente. Poi c’è sempre un’elemento melodico più o meno sotterraneo che, volente o no, è sempre più o meno presente nei miei brani.

In Mystère Du Printemps (sempre per Minus Habens Records, pubblicato nel 2006) viene sperimentata maggiormente l’arte del glitch, che diventa spesso modulo all’interno di linee melodiche eteree e aliene, interessanti nel loro genere, immerse in paesaggi sonori più timbricamente naturali e tonalmente più familiari. Inoltre campioni analogici vengono alterati, e diventano linee ritmiche in sequenza, o melodie, il tutto con un gioco originale di artigianato. Il vero leitmotiv è l’errore informatico, inteso anche come realtà – il campione preso – che perde il suo legame originario diventando qualcos’altro, in base al quale ci si potrebbe interrogare del “mistero della primavera, della nascita”, di quello che non c’è più che diventa qualcosa solo in potenza, elementi frequenti, per esempio, in un lavoro artistico. In Visibilia, prima traccia, il valore aggiunto e la sua sampling music creativa, dove sono presenti, e vengono stravolti, elementi techno nell’aspetto più microritmico. God OT ha una struttura portante con linee tentacolari di glitch che invadono le loro controparti più familiari. Invisibilia ha un andamento più dilatato e plastico attraverso i consueti glitch, con trame dinamicamente microritmiche, qualche campione e un suono più lirico (con synth e qualche ottone). Glasnatch è colorata nella melodia da tonalità blu, dall’inflessione agrodolce, in cui si esplica un gioco di campioni scevro da linee elettroniche più evidenti e da altri errori informatici più sperimentali; invece il remix ad opera di Matteo Pennese relativo all’ultimo pezzo citato è un lavoro più chirurgico, dove pezzi del brano vengono estrapolati e ricollocati in maniera differente dall’originale, attraverso un gioco che crea un flusso di coscienza casuale, complessamente empatico. Come nasce quindi questo lavoro e la sua attitudine alla creazione e alla manipolazione dei glitch o, più in generale, a “l’errore informatico”? 

Ti faccio i sinceri complimenti per l’analisi di Mystere, che è un disco al quale sono legatissimo, di quale credo tu non sia riuscito a cogliere perfettamente lo spirito. Matteo Pennese, che collabora al disco anche come trombettista, a proposito di questo lavoro parlava di “nostalgia nel laboratorio” a sottolineare il connubio tra il lirismo intimo e la dimensione  digitale che pervade tutto il disco. La mia intenzione era appunto quella di infondere un afflato intimista e decadente su strutture micro ritmiche tipiche della musica glitch. Una forma di post post romanticismo nel seno della musica elettronica, cercando di sfruttare il più possibile il senso poetico che può emergere dall’errore digitale. In termini di spaesamento e perdita ma anche trasformazione della natura e della realtà. È necessario dire anche che tutto il lavoro nasce come sonorizzazione di una mostra d’arte di mia moglie Carla Mattii, che ha lungamente esplorato nelle sue sculture il rapporto tra natura, artificio tecnologico, metamorfosi e post natura.

Paolo F. Bragaglia.

Paolo F. Bragaglia. Foto di Marco Bragaglia.

Inoltre è caratteristica del periodo (o un buon intorno) di Mystère Du Printemps la performance del 24 Marzo 2007 a Montefano (MC) associata all’album, insieme a Matteo Pennese; mi ha molto incuriosito l’utilizzo di proiezioni di video interattivi ad opera di Pennese insieme all’utilizzo di un sistema audio storicamente interessante, ovvero il Surround 5.1. Come nasce l’idea di riprodurre i suoni di quell’album dal vivo nel modo sistematico citato?

Beh durante la stesura dell’album con Matteo venne spontaneo pensare ad una forma di live basato su un utilizzo più possibile esteso dell’estetica glitch al video, sulla quale lui stava sperimentando con Max MSP e Jitter, e in quel periodo era anche molto stimolante cominciare a sperimentare con il surround dal vivo per cui decidemmo di proporre in diverse occasioni il concerto in questo formato, AV + Surround 5,1 così fu proposto anche al teatro Arsenale e alla fabbrica del vapore di Milano.

Come nasce il legame con la Minus Habens Records, etichetta con sede a Bari? Per quel che mi riguarda, una collaborazione molto fulgida (come potremo approfondire) e che, per l’appunto, ha unito due parti abbastanza distanti dell’Italia. Ce ne vuoi parlare?

[La] Minus Habens è una etichetta storica nata nel lontano 1987 che fu tra le prime realtà ad occuparsi di musica elettronica in Italia in maniera esclusiva. Negli anni nacque una grande amicizia con Ivan Iusco il fondatore dell’etichetta che col tempo porterà ad una collaborazione che è arrivata fino all’ultimo album.

Parlando di altri progetti di qualche anno fa (quindi non solo di quello solista), la tua ricerca musicale costituisce un altro valore aggiunto attraverso linguaggi sempre diversi. In Synusonde, il duo di cui fai parte insieme al pianista e autore di musica contemporanea Matteo Ramon Arevalos, la tua elettronica dai toni più urbani trova armonia con le linee espressionistiche, astrattamente eleganti, dell’altro componente. Nel 2011 è stato pubblicato un unico album (per il momento), ovvero Yug, sempre per l’etichetta Minus Habens Records. Le dissonanze qui presenti, prodotte spesso dal piano preparato o per mezzo di sampling (alcuni dei suoni elettronici sembrano avere origine analogica), si esplicano attraverso due operazioni che utilizzano lo stesso principio con tecniche naturalmente opposte, e che soprattutto esprimono uno sperimentalismo dicotomico in un’unica istanza con stile modernamente barocco e elastico. Motetus, la prima traccia, ha un’impostazione più magnificente, con una luce lisergica e con delle linee elettroniche massive e melodicamente consonanti. Locust è una delle più dissonanti in senso tradizionale, con il suo piano preparato, il quale, insieme all’elettronica riverberata, dà un tocco elegantemente eterodosso all’album. Cannon è uno sperimentalismo ancora più estremo; gioca con una linea minimale familiare e intorno si sviluppano suoni simili a rumori da un punto di vista fisico, e in maniera sempre diversa. Invece la traccia gemella di Cannon, dal titolo Cannon Reworked, gioca quasi con lo stesso principio ma aggiungendo, sempre in maniera rumoristica, con alcuni campioni musicali e/o radiofonici. In conclusione, come nasce il progetto e l’idea di creare musica insieme, sviluppando un lavoro dualistico, unioni di due mondi, alla fine non così diversi?

In questo caso l’idea era proprio quella di trovare una maniera di sposare l’estetica di una certa musica classica contemporanea all’elettronica cercando/sperando di percorrere dei sentieri non ancora molto battuti. Con Matteo che è pianista virtuoso dalla formazione classica e valente interprete, abbiamo cercato di sostituire le usuali suggestioni della allora nascente musica modern classical spesso legate a un mood minimalista e  conciliante da un punto di vista armonico e ritmico con una struttura un  più densa e a tratti direi quasi “barbarica”, anche con un uso disinvolto del campionamento. Sicuramente la passione che abbiamo entrambi per un certo repertorio Russo ai primi Novecento l’ha fatto da padrone in questo progetto.  Ci siamo poi trovati d’accordo nel cercare una forma derivativa e piuttosto larvata di romanticismo che si sposasse alle fondamenta elettroniche di gran parte dell’album. Un’altra cosa che spesso amo fare e che credo sia presente in Yug è sempre cercare di conciliare le invenzioni timbriche tipiche di una certa musica contemporanea del ‘900 a strutture musicali più fruibili, basate su un centro armonico tonale. Speriamo di rimetterci presto al lavoro per un nuovo capitolo di questo affascinante progetto!

Nel 2020 è il turno del singolo Temporary Secretary in collaborazione con Alberto Dati (sempre per Minus Habens Records). Nonostante il pezzo giochi con una melodia più pop, si può notare una certa creatività anarchica e plastica, nelle parti sintetiche, molto simili al tuo lavoro The Man From The Lab. Visto più in profondità, il pezzo ha un arpeggiato sintetico complesso ed efficace, e parti di modulazione verso il finale rendono armonicamente il pezzo più elastico in maniera meno tradizionale. Come si colloca questa traccia nella tua poetica?

Questa traccia molto semplicemente è stata pensata è voluta da Alberto Dati che è un artista storico della Minus Habens. Quando mi ha proposto di collaborare questo brano ho accettato subito entusiasticamente perché mi sembrava molto divertente rifare un brano elettronico di… Paul McCartney!  Il mio contributo in effetti si esprime principalmente nei synth arpeggiati e nelle strutture ritmiche che compongono. In questo caso mi sono un po’ fatto trascinare dà l’idea portante di Alberto e ho cercato di contribuire sulla base dei suoni che proprio in quel periodo stavo producendo in qualche modo affini a quelli del mio ultimo album dove c’è un recupero di una certa musica elettronica molto cinetica e per certi versi assai “sintetica” anche come sensibilità.

Arriviamo al tuo ultimo album uscito da poco (5 Novembre 2021) ovvero The Man From The Lab, ancora una volta per la Minus Habens Records. Come nasce e si sviluppa il suo concept, all’insegna di un’elettronica strutturata ma con sfumature no wave?

Questo disco è per me quasi un enigma poiché è nato quasi in condizioni di trance durante il primo lockdown, e come tutti avevo la necessità di decodificare e di leggere il  periodo storico che avevamo iniziato a vivere in condizioni di isolamento pressoché completo. Ed ho finito per inventarmi un piccolo apparato concettuale facendo affidamento sull’artificio (strausato) della finta colonna sonora. E quindi ho pensato e composto la colonna sonora di una serie TV girata in un’altra linea temporale alla fine degli anni settanta e primi anni 80, dove si racconta di un misterioso visitatore dal futuro che reca con sé un virus sconosciuto. Fantascienza e distopia mi sembravano la cosa più giusta per esprimere lo spirito di quei tempi almeno per me.

Paolo F. Bragaglia

Paolo F. Bragaglia. Foto di Marco Bragaglia.

Il disco ha un elevato grado di libertà sotto l’azione di diversi vincoli, che rendono il suono oscuro e ordinato, infondendo un’idea libertaria di punk sintetico, diversa da quella storicizzata. La titletrack risulta essere quella più tradizionale, ma scritta sfruttando tutto il suo potenziale creativo, tra lirismo consonante e linee ritmiche anarchiche. Monkey è sicuramente la traccia più acidamente barocca, in cui il ritmo è cadenzato e il pattern è adrenalinico e fervido. Bat è più claustrofobica e viscerale, in cui nella prima parte ha linee ritmiche o a-melodiche lisergiche, magmatiche nella loro risultante e ossessive, per poi svilupparsi in un suono più definitivo e oscuramente patinato. Dust è come se fluisse attraverso una pulsazione cardiaca ed aliena attraverso una linea ritmica che si altalena tra un timbro più trascendentale e uno più quotidiano. Per concludere, un suono più definitivo appartiene a The Dawn Of The Mouse, dove la sintesi sonora è più ondivaga, il suono di fondo è più rarefatto e le linee di synth sono maggiormente caotiche. Quindi, come nasce questo sound parzialmente libero nel suo essere periodico? Inoltre in Black Swan il lirismo si implementa attraverso la tua voce, minimale e che offre al pezzo un tocco di profondità. Come cade la scelta del canto in questo, strutturalmente più essenziale e scampanellante nel suo suono digitale?

Come già sopra ti devo fare i complimenti per le capacità di analizzare inquadrare ciascun brano secondo le sue caratteristiche essenziali. Trattandosi di una finta colonna sonora ho cercato di ispirarmi a diverse possibili situazioni della serie (all’epoca in Italia si chiamavano sceneggiati), ispirandomi agli animali che che si trovano all’interno dei laboratori di biologia e che in qualche modo potessero essere coinvolti nella (immaginaria) vicenda. Per quanto riguarda lo stile musicale mi son trovato ad andare indietro negli anni, a ripescare quelle sonorità cold-wave che mi affascinavano moltissimo da ragazzo, cercando però di non fare soltanto una un’operazione di manierismo stilistico ma, anzi di  attualizzarne lo spirito secondo in modo il più possibile attuale.  Devo dire che è stata una scelta istintiva, quasi automatica: si trattava delle sonorità – per me – più adatte ad armonizzarsi con il mio sentire di quel periodo. E ho usato però anche sintetizzatori modulari sempre rimanendo su un armamentario di produzione strettamente analogico vintage. Immagina che la titletrack e il brano cantato, “Black Swan” sono per me idealmente sigla iniziale e la sigla conclusiva degli episodi delle serie “The man from The lab”…

Confrontando The Man Fron The Lab con il tuo passato, l’aspetto più metropolitano (in senso lato) e sperimentale si palesa di più; il suono può essere associato ad un suono quasi no wave ma in forma elettronica, innovativa per quanto è stato detto. Come avviene questo ulteriore progresso più nel nome della libertà creativa? Quali sono stati i punti di riferimento? Synusonde ha giocato un ruolo determinante nel processo creativo del tuo ultimo album?

Riguardo il ruolo di Synusonde direi che in realtà sono proprio quasi due aspetti diversi e complementari della mia identità creativa che si mettono al lavoro in questi due specifici progetti, quindi a livello cosciente non saprei. Poi in realtà facciamo tutti sempre le stesse cose anche se in forme diverse…

In conclusione parlaci delle prossime novità; cosa dobbiamo aspettarci dal tuo prossimo lavoro? Ci sarà nel prossimo futuro una tournèe nel vincolo delle normative anti-Covid?

Il prossimo lavoro ha una gestazione lunghissima. Ci lavoro da anni e sarà sicuramente un album doppio, anche se le due parti  che lo compongono vedranno al luce in tempi diversi, il primo spero già dal prossimo autunno. Per quanto riguarda la tournée, ho già fatto una presentazione e son previste alcune date estive.

BIBLIOGRAFIA (per la parte Introduttiva):

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