
Maria Merlino, foto di Floriana Bianca.
Maria Merlino è una sassofonista messinese che naviga tra più generi (classica, contemporanea, jazz…) ottenendo nella risultante un suono più che personale, in cui nel recente album Schegge, pubblicato per l’etichetta pugliese Angapp Music, sviscera le potenzialità del free jazz o della free impro, partendo dalla formazione accademica legata alla musica classica, in cui crea un genere ibrido molto distintivo da tutto il resto, con piglio anarcoide secondo l’istanza di ieraticità caratteristica delle origini.
Il primo disco pubblicato da Maria Merlino è in collaborazione con Domenico Mazza e Giancarlo Mazzù, ed è intitolato Alos (Rudi Records), in cui il suono appare più eterogeneo, nonché espressionistico tra suono avant e armonie jazz. Successivamente viene pubblicato Rivelarsi insieme al compositore statunitense Thollem McDonas, per Setola di Maiale, legato maggiormente ad un suono spontaneo, nell’effetto rumoristico ed elegante al tempo stesso.
Parliamo di tutti questi temi con Maria Merlino nella seguente intervista.
L’album Rivelarsi, in collaborazione con il compositore Thollem McDonas, è un unione nel segno di due differenti casualità; quella più lineare ed elegante del pianista, e i pattern al sax ellittici nelle forme evocate ed eterogenei nel volume. Come nasce questo incontro artistico e musicale nelle vostre rispettive discografie?
“L’incontro fra me e Thollem nasce a Curva Minore. Dal primo momento in cui ci siamo visti c’è stata una profondissima intesa, prima di tutto umana, che è quello che più mi interessa in una persona, perché se non ti intendi dal lato umano non riesci poi a intenderti neanche musicalmente, almeno in questo tipo di musica. Quando suono con Thollem mi sento molto stimolata, nonché al sicuro, che è una sensazione nuova, la quale non sempre si prova quando si suona con qualcun altro. Con lui mi sento completamente me stessa, in tranquillità, anche se lo sono quotidianamente, ma magari dovendo spingere qualche muro con lui questo non è così spontaneo. Entrambi parliamo la stessa lingua e contemporaneamente due lingue diverse, che si fondono in un tutt’uno generando qualcosa di realmente magico.”
Rivelarsi è caratteristico in un aspetto, ovvero nell’essere un disco che, durante l’esecuzione, non converge direttamente ad un punto focale, ma solo asintoticamente, delineando un suono sia aristocratico oppure di approssimazione secondo una pennellata in un quadro espressionista. Più generalmente potrebbe essere simile ad un quadro che nello stesso tempo rammenta Turner o il cubismo di Picasso e Gris (secondo differenti profondità prospettiche). Come avviene questo legame con la sospensione, legata forse all’aspetto improvvisativo e libero da vincoli?
“Il legame con la sospensione nasce dalle nostre vite perché, in quanto Rivelarsi consiste in un “rivelare” chi siamo attraverso quello che è la nostra comunicazione giornaliera, ovvero la musica. Questo spezzare il discorso in maniera spesso astratta, e da come si evince dagli stessi titoli, è un tratto ricorrente delle nostre vite. Una chiamata con la propria mente, al proprio essere; Thollem dal punto di vista maggiormente fisico, ininterrotto, mentre io viaggio in maniera diversa, in cui il tutto si esplica in un movimento continuo, mentale e poi tradotto in quello che è la musica.
“Il tuo paragone con Picasso è calzante. Ritorna il significato di “rivelarsi”, attraverso le nostre vite, i nostri animi, i nostri vissuti musicali, gli studi musicali che entrambi abbiamo compiuto ma che poi abbiamo trasformato in quello che è la musica, in cui si rivela l’essere veramente noi con sacrificio, perché non è facile essere se stessi fino in fondo nell’arte in generale.”
Link all’introduzione dell’album Rivelarsi sul sito web di Setola di Maiale.
Schegge richiama in tutto e per tutto un tratto di esecuzione colemaniano (o “ornettiano”), come si può evincere dalla prima traccia omonima. Durante la performance registrata, in un primo momento sembra che il trend sia simile o ricalchi con variazioni album come Something Else!!!!, o The Shape of Jazz To Come, per poi deragliare in frammenti rumoristici che hanno solo come lontano retaggio la matrice jazzistica scevra da strutture preimpostate. Parlaci di come è avvenuto il processo creativo associato, e quali sono state le reali ispirazioni o punti di riferimento.
“Schegge è il titolo dell’album. Schegge sono le schegge di vita, quelle che riceviamo e produciamo. Sono le emozioni che noi proviamo in camera dall’esterno, ma che contemporaneamente anche noi doniamo agli altri. Quindi un interscambio continuo. Queste schegge a volte possono fare male, a volte possono farci gioire, quindi è appunto quello che richiama il senso della vita. Poi tu mi dici che somiglia appunto a dei brani di Ornette Coleman. Il mio rapporto con Ornette è speciale. Diciamo che è il mio primo maestro nel fare jazz. Ho sempre ascoltato Ornette dalla prima volta che ho suonato. Un inizio che è spesso stato ritenuto complesso, anche se l’ho percepito molto istintivamente, quindi non riuscivo a non ascoltare Ornette. Apprezzo infatti il tuo confronto con lui, Ornette è il mio jazz. Però contemporaneamente ci sono tante altre sfaccettature in me, che vengono da quello che è sempre il mio vissuto. Io ho studiato musica classica per tanti anni, musica contemporanea e ho sempre ambito a studiare il jazz. Tanto è vero che un giorno espressi la mia intenzione di cominciare a studiare questo genere musicale, e chiesi un consiglio ad un’insegnante di conservatorio, da dove potevo cominciare. Lei mi rispose spazientita che era un percorso spontaneo, che non necessitava di “manuali”. Infatti venendo dal mondo della musica classica ero convinta che dovessi cominciare a studiare qualche libro. Poi pian piano con gli anni capii cosa voleva dirmi. Il jazz non lo puoi spiegare, è un fenomeno. Quindi è un’avventura continua. Tornando al brano di Schegge c’è appunto questo, c’è quello che sono io, ovvero le mie emozioni, quindi le mie schegge, più quello che è il mio vissuto artistico, quindi il rapporto viscerale con Ornette che è dentro di me, perché io studio i suoi brani, o meglio, ogni giorno metto un brano di Ornette. Poi ci suono sopra, suono con lui, cosa che mi sarebbe piaciuto tantissimo fare di presenza. E poi c’è l’altra mia parte, che è quella rumoristica, quella silenziosa, quella che non entra nei cassetti, che noi chiamiamo magari jazz, che ci piace dare queste etichette ai generi. Mi è anche stato detto che ho creato un mio genere. E questa è la cosa che mi ha fatto più felice. Nel senso che bisogna appunto poi mettere se stessi e creare qualcosa di nuovo. E io ci provo ogni giorno. Ma non lo non ce l’ho tanto come obiettivo da perseguire, ma come modo di vivere.”
In Swing, attraverso frasi be-bop/jazz anni ‘20 abbozzate, un senso direttivo domina il tutto. Nell’esecuzione si simula, attraverso le forme descritte dai movimenti, l’azione di una ricerca prefissata di elementi che, dopo alcuni secondi dall’inizio, si disperde, generando simulati happy accident; un’idea che vuole infondere un senso di decentramento da un prefissato e momentaneo focus dell’ascolto. Come nasce l’idea per questo pezzo?
“Come nasce l’idea di Swing? Swing è il mio swing. Ascoltando la mia discografia fino a oggi, si può denotare che non sono una sassofonista swing o jazz o blues o funk, ma sono semplicemente me stessa, e per me stessa intendo una persona alla quale piace studiare tutto quello di cui sente bisogno. Le mie giornate sono fatte di studio, dove magari suono il concerto di Glazunov, suono gli esercizi di Marcel Mule, oppure metto una base funk e ci suono sopra, oppure eseguo degli esercizi funk, oppure studio dei brani per altri strumenti e li faccio. Non ha importanza il genere, ma più che altro ha importanza l’esigenza che io devo rispettare per me stessa e anche per rendere giustizia allo strumento che suono. Con questo album ho voluto far capire che il sassofono può essere indipendente. Per quanto riguarda il richiamo agli anni venti che mi dici, sicuramente c’è, perché io ho sempre amato le orchestre degli anni venti, le grandi orchestre degli inizi, e ho sempre sentito anche quel tipo di swing. Infatti molti mi hanno chiesto “ma come mai tu sei così moderna, così astratta, e poi suoni swing stile anni venti?”… in realtà ha sempre fatto parte del mio carattere, quindi anche all’interno di Swing trovi sempre quello che sono io, il mio costrutto vitale.
“Parlando dal punto di vista della composizione, è uno di quei pochi brani che ho scritto in una maniera più metodica. Ho composto dei pezzettini di frasi molto piccoli, che ho ripetuto più volte, il tutto nella fase dello studio, e poi ovviamente li ho messi da parte. Quando sono andata in sala di registrazione è uscito il frutto di quello che io avevo scritto, mentre Schegge ad esempio è libero, è frutto di quello che ho suonato, di quello che era il pensiero delle schegge vitali, delle emozioni, dell’interscambio, ma rispetto a Swing è proprio diverso. Difatti questo brano all’inizio non si chiamava Swing, ma Medieval Swing, dando vita poi ad un nuovo titolo e il processo creativo del brano una volta completato. “Medieval” perché appunto era il mio retaggio al passato insieme a “Swing”. Inoltre con Swing ho voluto dare un punto di smarrimento all’ascoltatore, perché mi piace pensare che qualcuno possa aver capito dove cronologicamente ci si trova, e poi tutto a un tratto sentirsi smarrito. Questo secondo me ci fa molto bene nella vita di tutti i giorni, per ricominciare, per darsi un nuovo slancio, per prendere altre direttive che magari pensavamo di aver capito tutto, poi magari non è assolutamente così e potremmo precluderci qualcosa di meraviglioso. Quindi le frasi che tu senti abbozzate di Swing in realtà poi si disperdono, come nella vita, come la strada della vita. Mi attraeva l’idea di disorientare chi ascoltava il brano, e ne sono molto felice che tu abbia colto questo spunto.”
Con Earth si cominciano a rintracciare elementi ambient, in cui il jazz del primo Ornette Coleman si dilegua dalla postazione centrale per lasciare lo spazio ad uno sperimentalismo più astratto. Caratteristica insolita che si protrarrà più avanti con gli altri pezzi legati a corpi celesti o pianeti (ovvero Mercury, Pluto e Venus) è il filtro attraverso un riverbero, creando un cageano dualismo tra suono ed ambiente. Riguardo a tale aspetto, ci sono state motivazioni specifiche in merito?
“Earth sono i suoni della Terra. Tutti i brani da te appena citati sono dedicati ai corpi celesti, e vengono da alcuni piccoli studi che ho fatto sul sito della NASA, dove trovi proprio i suoni che ognuno di questi produce. E mi piaceva l’idea di riuscire, nel mio piccolo e con il mio strumento, a portare su questi pianeti l’ascoltatore e me stessa in primis, ovvero su mondi che magari vediamo lontani da noi, ed in parte lo sono, e poter pensare di capire o comunque immaginare. Mi chiedevo come il mio sassofono potrebbe risuonare ad esempio su Marte, su Venere, sulla Terra e contemporaneamente fare un interscambio, con i nostri suoni, come in questo caso sul brano Earth. Suoni portati un po’ dappertutto, quindi attraverso il disco ogni suono che tu senti, insieme al riverbero da te accennato, sono realmente quelli che vengono prodotti su quei pianeti. E questi suoni si possono trovare anche sul sito della NASA dal quale mi sono documentata specificatamente.
“Parlando di Earth mi dici ovviamente che si abbandonano quelle che erano le somiglianze con Ornette. Sì, perché in quel caso è uscito il mio lato più rumoristico, più astratto. Non che non fosse astratto, però in maniera appunto mia. E ti dico cosa ho pensato durante l’esecuzione di questo brano; ovvero un angolo della mia città che è alle spalle del Teatro Vittorio Emanuele, dove abbiamo una saletta antica, la saletta Laudano, dove solitamente si sente un grandissimo caos. Infatti all’inizio del brano sembrano esserci quasi dei clacson, e in quel momento mi sono proiettata lì, quasi all’uscita di un parcheggio, pensando a tutti i suoni del tran tran, compresi i fastidi, ma anche le cose belle che noi ogni giorno produciamo, confrontando il tutto con quelle che sono le melodie che creiamo noi. Suoni che ho trovato sul sito ovviamente della NASA.
“Un’altra motivazione dietro questo pezzo è che la musica può mettere veramente in contatto il mondo e ti può trasportare da un’altra parte, come quando da più piccola vivevo gli ascolti in musica, quindi ho provato a condividere questa mia sensazione. D’altra parte nell’immobilità c’è più movimento di quello che pensiamo, proprio perché riflettendo su quanto possiamo muoverci internamente nell’immobilità del corpo possiamo attraversare lo spazio realmente.”
Lel-io sembra essere legata a Lelio Giannetto, figura storica dell’improvvisazione libera e musica di ricerca siciliana e italiana, nonché ex-curatore della rassegna Curva Minore (originariamente fondata nel 1997 insieme a Gianni Gebbia), che svolge tutt’ora il suo corso nel seguito della sua scomparsa avvenuta nel 2020. Il pezzo rimanda all’approccio lateralmente bleyiano della musica di Giannetto, in cui il suono è intrinsecamente associato ad un utilizzo dello strumento maggiormente performativo e tattile. Parlaci di questo omaggio all’artista palermitano e del tuo rapporto con lui.
“Lel-io è un brano che mi sta particolarmente a cuore, come avrai capito, e parla del mio rapporto con Lelio Giannetto. Lelio è una persona che ho sempre nel cuore, ogni giorno. Mi ha insegnato tante cose, anche se sono stata con lui per un breve tratto della mia vita. Ci sono state persone, amici e musicisti, che sono stati con lui una vita intera e sono stati fortunatissimi in questo, però quel tanto che io ho vissuto con lui mi ha dato davvero una marea di disciplina, di creatività, del votarsi con sacrificio la musica, quindi mi ha fatto capire che comunque ero sulla strada giusta.
“Il mio incontro con Lelio è avvenuto quasi con una preparazione, nel senso che ho conosciuto la figura di Lelio senza conoscerlo di presenza attraverso il mio maestro in conservatorio, e mi parlava di questo genio folle che era Lelio. E ho sempre detto di volerlo incontrare, così decisi di andare ad un concerto ai Cantieri Generali della Zisa per conoscerlo. Sentivo comunque come se avessi bisogno di prepararmi prima di parlare con lui, non so come dire… prepararmi artisticamente perché sentivo dei racconti che questa persona era veramente qualcuno da cui poter imparare. E finalmente quel giorno arriva quando incisi il mio primo album Alos, in collaborazione con Domenico Mazza e Giancarlo Mazzù, e decido di regalare il CD a Lelio, chiedendogli una sua opinione. Dopo poco tempo mi richiama Lelio, e io mi precipito a Palermo senza accorgermi minimamente della strada. Un complimento più bello non me lo poteva fare: “ho ascoltato il tuo CD, la mia mente è volata via”. E da lì mi ha invitato a Curva Minore. Abbiamo suonato insieme e ho continuato ad imparare da questo maestro che era severo e contemporaneamente amorevole. Ti faceva imparare sul campo e non ti faceva mai tirare indietro, si metteva volentieri da parte per far emergere i giovani, i ragazzi, la persona che aveva invitato e non era una persona assolutamente tirchia – permettimi il termine – nel dare veramente sempre tutto sé stesso. E mi disse che Curva era nata quasi per gli ultimi, ecco perché si chiama Curva Minore; il festival simboleggia infatti metaforicamente la curva di uno stadio, in cui le persone hanno una marcia in più, sebbene magari non hanno la giusta promozione pubblicitaria o la classica raccomandazione, e lui voleva dare voce a questi artisti. Adesso sta continuando a farlo sua moglie Valeria Cuffaro e i suoi due figli. Lelio vive attraverso Curva. Perché Lelio è Curva Minore, e Curva Minore è Lelio. Andremo a parlarne qua per ore, non c’è sicuramente il tempo. Però posso assicurare che lui non smetterà mai di vivere e continua a vivere in ogni concerto.
“Io ho avuto il privilegio di eseguire il concerto di saluto ufficiale per la scomparsa di Lelio. Decidemmo incauti di mettere il suo contrabbasso in mezzo al palco, che era lì per testimoniare il fatto che Lelio fosse con noi. Suonare è stata la cosa più facile da fare con Lelio e per Lelio, e contemporaneamente la più difficile in quanto non era più con noi, e il contrabbasso ce lo ricordava in continuazione, quasi come se avesse voglia di scuotersi da terra da solo per richiamare il suo proprietario. Ci giravamo in continuazione pensando che Lelio entrasse una volta dalla parte posteriore del palco, perché Lelio era ovunque, ma questa presenza non arrivava mai, però era dentro il nostro cuore, i nostri cuori con il suo spirito. Questo brano parla proprio del rapporto che ho avuto con lui, ma è anche un grido di dolore che io ho avuto per la sua scomparsa, che ho voluto rappresentare in piccolo con questo brano.”