Migrazioni sonore con Two Sing Too Swing degli Sparkle In Grey
di Giovanni Panetta
Intervista a Matteo Uggeri (Sparkle In Grey), Daniel Merrill (Dead Rat Orchestra), Vittorio Nistri (Deadburger) e Vasco Viviani (EEEE), riguardo il processo creativo di Two Sing Too Swing degli Sparkle in Grey.
Two Sing Too Swing

Two Sing Too Swing (2021).

Too Sing Two Swing è un disco dell’anno scorso (20 Luglio 2021) firmato dagli Sparkle In Grey (e dai suoi collaboratori), uscito per Dischi di Plastica, stella*nera, Moving Records & Comics, e l’etichetta più legata al gruppo Grey Sparkle. La formazione, per lo più strumentale, è costituita da Matteo Uggeri (programmazione, tromba e mixing), Cristiano Lupo (chitarra, sassofono, batteria, basso, tastiere e glockenspiel), Alberto Carozzi (basso, chitarra elettrica, cornamusa, chitarra acustica, ukelele e melodica) e Franz Krostopovic (violino, viola, piano e tastiere), e nel disco hanno collaborato diversi artisti nazionali e internazionali (Reem Soliman, Daniel Merrill, Maisie, Andrea Serrapiglio, Vasco Viviani, etc…), che hanno generato un valore aggiunto all’interno del disco, non solo strumentale come si può intuire dal titolo.

Di seguito l’intervista che esaminerà il suono barocco e allo stesso tempo obliquo di Two Sing Too Swing, coinvolgendo Matteo Uggeri e parte dei collaboratori citati (anche se a nome dei Maisie interviene l’amico Vittorio Nistri (Deadburger), che analizzerà un loro testo (Parlare Con Gli Oggetti) all’interno del disco in esame). Inoltre si parlerà anche della release precedente con solo i due membri Alberto Carozzi e Matteo Uggeri intitolata The Last Five Minutes, pubblicata il 3 Marzo 2020, e uscita per Silentes, stella*nera, Dethector e Grey Sparkle.

 L’ultimo vostro lavoro, Two Sing Too Swing, si muove attraverso poesia e linee melodiche, in un paesaggio lisergico e geometricamente complesso. Nel disco vi avvalete di diversi collaboratori (OvO, Maisie, Camillas, etc…), in particolar modo è centrale la parola, cantata e significata. Qual è quindi il percorso del disco? Ma innazitutto, parlateci di come avete coniugato la vostra musica con la poetica di quegli artisti.

Matteo Uggeri: “Facciamo musica strumentale da praticamente vent’anni, con rare eccezioni, ma chiaramente ci piacciono anche le canzoni. Nessuno di noi osa cantare, perlomeno con un microfono davanti, con l’eccezione di Alberto, che ha una bella voce à la Neil Young (secondo me, almeno) e in passato cantava in altre band. Si era lanciato già su Jackson C. Frank nel disco “The Calendar”, ma senza più riprovarci. Tutti assieme abbiamo fatto i cori di Grey Riot su “Brahim Izdag”, ed io ho accennato una strofa di Luci a San Siro in “Milano”. Insomma, siamo troppo timidi per cantare regolarmente, ma abbiamo amici che lo fanno molto bene. Quindi ci siamo affidati a loro. Non è stato poi difficile, abbiamo lasciato libertà a tutti di esprimersi in termini di testi e melodie.”

Vasco Viviani: “Rispondo nel ruolo dello svizzero della compagnia, nonché co-produttore di almeno cinque dei loro dischi. Ho sempre percepito gli Sparkle in Grey come un enorme agglomerato dotato di una sua unicità. Le influenze sonore che ho percepito sono sempre state inglobate nel nome di una personale visione artistica distaccata da qualsiasi altro progetto o corrente, [la cui] scintilla non è una ma sono molteplici e scoppiettano fra diversi paesi, storie e suoni. I contrasti del progetto mi sono sempre sembrati invischiati nel medesimo humus sonoro e di visione (politica) [relativi a] quella che è la loro storia. Cambia, ma la leggo sempre come personale.”

Il disco “Two Sing Too Swing” si esprime in una forma barocca (per il suo articolarsi) e pop (per l’apporto melodico) in continuo divenire e mai prevedibile. La fluidità del suono di muove molto spesso in paesaggi in contrapposizione, dove elettronica e acustica, assonanza e atonalità, si rincorrono descrivendo pattern originalmente aggrovigliati. Molto spesso si comunica più attraverso le macchine che con le parole, queste ultime giusto mezzo tra prosa e poesia, a livello di immagini evocate. Quello che emerge da quest’album sono schemi differenti in un unicum, con suoni cosmopoliti (non solo l’Italia, ma anche Egitto, Senegal, Belgio, Svizzera, Inghilterra, Francia…). Da dove nasce questo cosmopolitismo e come si colloca nella vostra visione di musica?

 Matteo Uggeri: “Diciamo che il cosmopolitismo di cui parli è entrato man mano nella nostra musica nel corso degli anni, come è naturale che sia. In passato, quando è uscito “Brahim Izdag”, disco diciamo proprio dichiaratamente votato alle musiche ‘altre’, avevo detto che i suoni di tanti paesi erano naturalmente migrati in quelli che noi eravamo soliti produrre. E continua ad avvenire, anche se per il prossimo lavoro siamo tornati forse un po’ più a ovest, e verso gli anni ’80. Non sappiamo bene nemmeno noi perché.

“Comunque una definizione di ‘pop barocco’ riferita a questo lavoro la trovo molto azzeccata.”

 Parliamo dei brani. Mevlano, con i contributi della cantante egiziana Reem Soliman e Lorenzo Farolfi (di Al Doum And The Faryds, che suona le percussioni), con l’apporto di Daniel Merrill (Dead Rat Orchestra) che ha registrato Reem in Egitto, si esprime tramite un suono elastico e internazionalmente fervido. Le melodie e i timbri tra Occidente e Medioriente si confondono tra loro, in senso disteso e con le più aperte dissonanze di matrice araba. Penso che il testo cantato in arabo da Reem appartenga alla sua tradizione locale, ed è molto poetico, imaginifico per il suo contesto sognante, il senso si rivela con sorpresa per noi occidentali più pragmatici; la decantazione di un rifiuto che viene superato in maniera catartica. Raccontateci se volete di questo testo; come si sviluppa la sua lavorazione?

Matteo Uggeri: “Il testo del brano prende spunto da una poesia di una certa Badreya El Sayed, di cui non sappiamo nulla. L’ha scelta Reem, che noi a nostra volta abbiamo ‘conosciuto’ digitalmente tramite l’amico Alberto Boccardi, anche lui musicista, che vive (o viveva, non lo sento da tempo) al Cairo e la conosceva. E’ stato un incontro molto fortunato, lei è bravissima e molto gentile. Daniel è intervenuto solo per aiutarla a registrare, poiché vive(va) là ed ha credo uno studio, ma pure con lui l’interazione è stata molto positiva. Adoriamo il suono della lingua araba, e questo pezzo è tra i nostri preferiti di sempre. Fu meraviglioso quando Radio 3 lo trasmise alle sei di pomeriggio alcuni anni fa, quando uscì come singolo su 7”. Non so quanto spesso la radio nazionale trasmetta musica in arabo, ed è bello sapere che siamo stati noi, e i conduttori e autori di quella fantastica trasmissione (Sei Gradi, all’epoca a cura di Nicola Catalano e presentata da Paola De Angelis) i responsabili di tale bizzarra occorrenza.”

Daniel Merrill: “Matteo e io ci siamo messi in contatto grazie al musicista elettronico Alberto Boccardi, che conobbi a Il Cairo attraverso Jeremy Young (del gruppo statunitense Sontag Shogun). Una lunga catena di introduzioni da parte di persone che essenzialmente hanno conosciuto online qualcun altro individuando degli elementi in comune nei propri interessi, pratici o estetici, ovvero un riflesso del mondo in cui viviamo, in cui tutto si è intensificato dall’inizio della pandemia.

“Matteo manifestò interesse per il canto arabo, e al momento mi venne in mente Reem Soliman, una cara amica mia e di mia moglie. Nonostante sia una cantante talentuosa, per via di varie insicurezze, Reem in quel momento non si dedicava professionalmente alla musica, ma presto le cose sarebbero cambiate in meglio da quella registrazione, e adesso Reem ha raggiunto la notorietà in Egitto, calcando i palchi dei concerti e della televisione. Matteo dispose solo di poche istruzioni, indicando solo un mix grezzo e una struttura della traccia per la quale io e Reem Fayrouz (mia moglie e partner musicale) meditammo per pochi giorni prima di sviluppare un’idea più concreta. Se ricordo correttamente, eravamo d’accordo di partire con uno spoken word, anche se ascoltando il pezzo, era più che altro un utilizzo timbrico. Non conosco l’autore della poesia – potrebbe essere un proverbio egiziano, in quanto spesso comprendono delle rime. La memorizzazione di tali frasi e poesie sono elementi comuni nella letteratura egiziana, in quanto quest’ultima è arricchita di frasi e proverbi in rima – c’è anche una forma di canto che consiste nel recitare proverbi dei villaggi. Quando mi interfacciai a tutto ciò per la prima volta facendo tabula rasa, tale approccio sembrava qualcosa da cui partire.

“Gli elementi melodici sono il risultato di tre o quattro take diverse. I vocalizzi non fanno parte del testo, essendo i “ley-i-ley” una delle principali interiezioni vocali comunemente usati nel canto arabo, infatti si potrebbe dire equivalentemente “yeah” e “ooh” nell’improvvisazione vocale inglese, anche se per le mie orecchie questo risulta più coinvolgente, espressivo e musicale dello scat nel jazz.

“Ci sono un paio di precisazioni nella tua domanda che mi piacerebbe farti.

“Primo punto: le “dissonanze arabe”. In Egitto lo stile predominante in musica è quello microtonale. Questo vuol dire che le scale (chiamate maqam) hanno intervalli e note che quelle europee non possono intonare. Non si dovrebbe parlare di dissonanza. Possono sembrare dissonanti per gli europei che non sono abituati ad esse, e questo diventa chiaro quando si fa un confronto con l’armonia occidentale (che non si adatta propriamente a molti maqam). Comunque, all’orecchio egiziano queste note risultano completamente consonanti, e anche se un aggiustamento microtonale denota una dissonanza agli europei, nella musica araba non si fanno simili considerazioni, ed invece tale espediente potrebbe conferire espressività, rimanendo interamente consonante. Penso che questa non è l’intenzione degli Sparkle In Grey, e il loro approccio risulta essere un po’ ambiguo per come si accostano elementi di diverse culture, trasmettendo all’ascoltatore, attraverso le riportate considerazioni – loro probabilmente percepiscono i microtoni allo stesso tuo modo – un suono dissonante, e penso comunque che simili collaborazioni offrono certamente il potenziale da esporre al pubblico in modi che le concezioni e le aspettative della musica non sono universali. La musica non è un linguaggio universale, ma è come il linguaggio – è un comportamento universale ed umano, ed infatti diverse manifestazioni di quell’atteggiamento vengono espresse in diverse forme (proprio come alcune frasi hanno un significato in alcune lingue e in altre no).

“Il secondo punto è [in un certo senso opposto] al primo; esso si riferisce alle parole e quello che trasmettono. Ti riferisci a loro come “imaginifiche per il loro contesto sognante”. Trovo questa frase interessante, e penso che riflette un certo grado di orientalismo. Con questo non intendo rivolgere un’accusa o un attacco come qualcuno penserebbe. Intendo con questo che è difficile sottrarsi a tale stato delle cose, anche per un europeo che lavora in Egitto da quasi un decennio. Tale affermazione è plasmata da figure retoriche alle quali siamo esposti in Europa; molti nostri pensieri sul Medio Oriente sono essenzialmente orientalisti, dal modo in cui percepiamo la storia, al modo in cui percepiamo le notizie, al modo in cui i mass media raccontano la regione – il quale vede essa come un luogo di violenza, mistero e misticismo. Dalla mia prospettiva, tale luogo non è più niente di tutto ciò rispetto ad altri posti in cui sono stato. Ma siamo abituati ad avere quel tipo di percezione.

Per esempio, i seguenti versi potrebbero sembrare onirici o molto imaginifici:

I went on my rooftop to call on my bird

“طلعت فوق السطوح انده علي طيري

I found my bird drinking from someone else’s pot

“لقيت طيري بيشرب من انا غيري

“In ogni modo, il piccione ripieno è un piatto tradizionale in Egitto. Essi non sono allevati industrialmente, ma raccolti da piccionaie sui tetti delle abitazioni – siano case di villaggi o complessi residenziali nelle città. Ogni giorno puoi osservare persone che fanno uscire fuori questi volatili per esercizio, facendo poi ondeggiare delle bandiere per richiamarli. Tale pratica non ha un’origine rurale – è un’usanza completamente normale, e ha suscitato interesse negli studiosi di antropologia. In un certo senso la metafora ha un significato profondo (qualcuno potrebbe individuarlo, altri no), ma l’immaginario è creato secondo quello che gli egiziani vedono e vedranno ogni giorno. Mi chiedo, ci sono modi di dire simili in alcuni dei dialetti italiani? Immagino di sì, e non sembrano esotici o onirici in quanto sono davvero dei luoghi comuni. […]

I had a friend for years, but time is a cheat

“كان ليا صاحب عاشرته و الزمن خوان

He turned out to be unreliable, just like time

“اتاريه قليل التني زي الزمن خوان

“Ogni cultura ha modi di dire che riguardo il tempo. Quello che è affascinante è che, da quello che so (e potrei sbagliarmi), più proverbi sul tempo riguardano ciò che è inevitabile – realizzando una definitiva certezza. Qui il tempo appare come qualcosa di incerto – e si penserebbe a qualcosa sull’approccio della cultura egiziana al tempo, il quale in termini generali è altamente approssimato, a meno che non ci sia un avvincente motivo che cambi le carte in tavola. Probabilmente è uno stereotipo – ma basato su una buona consapevolezza.

“In realtà non voglio dissipare nessun dubbio, ma penso che non ci sia niente di più umano che essere capaci di recepire il mistero in quasi tutte le circostanze (viviamo nell’epoca delle teorie del complotto). Un senso di mistero è essenziale agli artisti nel loro processo creativo, o nelle storie che raccontiamo. Ma qualche volta scostando il velo del mistero può offrire una visione in qualche modo più emotiva e significativa; questo è più rilevante – rispetto a pensare che Reem ha imparato qualche sapienza esoterica attraverso la quale può misticamente parlare con gli uccelli, o pensare che quella frase viene da una cultura che ha un forte legame con gli uccelli, e per questo parlare con loro è ordinario.”

Il brano Parlare con gli oggetti, in collaborazione con i Maisie, si articola nella storia di un vissuto quotidiano di molti. Il protagonista del testo, Gianluca, sussurra agli oggetti che trova in casa (non potendo farlo con qualcun altro), trasmettendo l’idea di un sentimento ricorrente dalle tonalità blu, in un certo senso di un animismo empatico. Il clima della propria casa diventa accogliente rispetto “l’aldilà”; gli oggetti al di fuori dall’abitazione sono poco rassicuranti, come se si proiettasse insensibilità dell’uomo a tutta la realtà esterna, e fosse tutto in mano ad un destino oscuro, in cui è coinvolta anche la realtà inanimata. Un campanilismo ridimensionato  – se così possiamo definirlo – ancor più particolarista e che si esprime come vizio frequente nella natura umana, dettaglio forse di un’oscurità ben più grande. Inoltre per quanto riguarda l’aspetto performativo, si gioca con una voce ironica e incalzante, offrendo uno schema intelligente al suono, anche tecnicamente valente. Quanto condividete questa mia interpretazione al brano?

Matteo Uggeri: “Ah! Dovresti chiederlo ai Maisie… lo stile è in tutto e per tutto il loro, anche se ci vedo tantissime connessioni con gli Sparkle in Grey nell’ironia e in questo destino oscuro di cui parli. Però non mi sono mai messo ad analizzare i testi del disco con questa cura. Credo sia bello che ognuno ci veda e senta ciò che vuole. So peraltro per certo che in alcuni casi, esempio i Camillas, se chiedi di spiegarteli ti vengono date informazioni ancora più fuorvianti… Forse è bene così. In quanto ai Maisie, mentre chiacchieriamo qui è in uscita il loro nuovo disco, con temi e testi forse più urticanti e diretti di questo, che resta molto poetico e pacato in confronto.

“Sai che non ho mai nemmeno considerato che il parlare con gli oggetti di casa potrebbe essere interpretato in chiave di quarantena? Quando è stato fatto il brano eravamo ben lontani da immaginare cosa ci aspettava nel 2020!”

Sparkle In Grey

Sparkle In Grey (2020). Da sinistra a destra: Cristiano Lupo, Alberto Carozzi, Simone Riva, Matteo Uggeri e Franz Krostopovic.

Vittorio Nistri: “Su richiesta di Alberto [Scotti] e Cinzia [La Fauci], rispondo io alla domanda, in qualità di “Maisiologo” della prima ora. Fui infatti acquirente nel 1997 del primo cd pubblicato da Snowdonia e, da allora, ho sempre seguito tutto quello che i Maisie hanno pubblicato. Ho potuto così apprezzare il percorso che hanno compito album dopo album e che, partendo dall’iniziale no wave cantata in inglese, è approdato a una forma mutante di canzone d’autore italiana, molto “avant” e del tutto personale.

“Alberto e Cinzia hanno ormai raggiunto una cifra stilistica tutta loro,  che, pur nel loro surfare tra generi e suoni, li rende immediatamente riconoscibili, sia musicalmente che testualmente. Ecco… da Maisiologo, posso dire che le liriche di “parlare con gli oggetti” sono 100% loro trademark. In generale, le liriche dei Maisie sono un ossimoro costante. Prendono spunto da gesti e situazioni che in molti, direttamente o indirettamente, sperimentiamo… oppure a discorsi e convinzioni come quelli in cui ci imbattiamo ogni giorno sui social o nelle chiacchere da bar… o ancora, a fatti e personaggi di cui più o meno tutti abbiamo notizia, perché presi da cronaca, politica, spettacolo; eppure, più sembrano “quotidiane”, e più in realtà trascendono il quotidiano, per lambire tematiche universali.

“Più sembrano semplici e più racchiudono riflessioni complesse. Più appaiono lievi e più sono lame acuminate, che affondano nelle zone d’ombra nostre e del mondo in cui viviamo. Tematiche di spessore – che, in mano ad altri, capita non di rado di sentire trattate in modo retorico e roboante – nei testi dei Maisie scorrono invece come acqua dal rubinetto di casa. Con naturalezza e (apparente) semplicità, usando termini di linguaggio corrente, e articolandoli in dialoghi o monologhi (cui a mio avviso calzerebbe bene la definizione di “teatro-canzone”).

“Un ultimo ossimoro: proprio nel dribblare poeticismi, i testi dei Maisie realizzano una forma, peculiare, e spesso toccante, di poesia. Tutto questo calza a pennello per “Parlare con gli oggetti”. Nell’apparentemente piccolissima storia di Gianluca, “l’uomo che sussurrava agli oggetti” – espressa in perfetto canone Maisie, ovvero sotto forma di monologo, e con parole di limpida quotidianità e disincantata ironia – io personalmente leggo una apocalisse di solitudine, di incomunicabilità, di chiusura agli altri. Ed anche di paura, resa, sconfitta. Sono sensazioni grandemente diffuse nella contemporaneità, per effetto della disgregazione del senso di appartenenza ad una collettività (frutto di mille concause macrosociali, dall’inganno epocale dell’asserita scomparsa delle “classi sociali” all’egoriferimento ossessivo dei social), nonché dell’insicurezza di esistenze precarizzate, e di tanti altri fattori che non sto qui ad elencare per ovvie ragioni di spazio.

“Il dono dei Maisie è di riuscire a cogliere questo sentore del tempo con un’immagine immediata ed esemplare come l’uomo che parla “con la cassetta delle lettere di via Benevento” (che peraltro credo sarebbe piaciuta molto anche agli artisti surrealisti e dadaisti).”

Africa Bambino offre il suo contributo in Politicians Song, in cui il violoncellista Andrea Serrapiglio fa da tramite. Il testo vuole far riflettere su quello che sta succedendo, tra guerre, uccisioni, sfollamenti e disordini, in Senegal, paese originario di Africa Bambino (caso emblematico il conflitto di Casamance). Ho trovato poche informazioni su questo artista, e quindi mi piacerebbe conoscere qualcosa in più sulla sua storia e i suoi suoni acidamente hip hop e per l’appunto con inserti barocchi.

Matteo Uggeri: “Qui la faccenda è ancora più strana: Andrea ha lavorato per lungo tempo con migranti da vari luoghi della terra, ma non in veste di musicista. Con alcuni di loro però si è anche impegnato a registrare dei brani, e Africa Bambino aveva cantato questa cosa su una base – che però io non ho mai sentito. Noi al contempo volevamo un cantato hip hop sul brano che citi, che era già registrato. Andrea ci ha passato la registrazione della voce di Bambino, la quale correva pure a dei BPM differenti. Io l’ho adattata, ed il risultato, straniante, funziona. Almeno per noi. A lui pare piaciuta, ma non comunica molto con noi, se non con pochi messaggi tramite MSN, Andrea fa da tramite. Il testo è tutta farina del suo sacco, e noi lo abbiamo accettato così. Non sappiamo quasi nulla sulla situazione del suo paese, e se ora è così degenerata, credo che ai tempi in cui ha scritto il pezzo non fosse così. Forse anche lui ha divinato qualcosa inconsciamente?”

Il singolo At The Gate è un pezzo dalle sfumature plumbee e acide, che si sviluppa in sfumature oniriche e urbane. La particolarità è che nel 2020 è uscito il singolo fisico del pezzo, ovvero delle edizioni limitate dipinte da te, Matteo e dalle sue tue figlie piccole. Il ricavato delle copie è stato devoluto per il supporto agli infortunati dal lockdown, attraverso il Fondo di Mutuo Soccorso del Comune di Milano; un ideale umanitario che l’arte e la musica dovrebbe contemplare e operare in merito. Parlateci di questa operazione, e della sua sensibilità verso le condizioni molto spesso psicologicamente disagianti derivate dalla pandemia.

Matteo Uggeri: “Al momento in cui ti rispondo, qui, a gennaio 2022, la situazione rispetto ad aprile 2020 è critica, ma comunque assai migliore per quel che riguarda la pandemia. Allora il disagio era davvero pesante, almeno per me. Mirco dei Camillas era appena morto. Noi ovviamente eravamo fermi musicalmente, ma il disco era pronto, mixato e finito. Volevamo far sentire la nostra voce anche se stampare dischi in quel periodo era impossibile, quindi ho coinvolto le mie bimbe per far fare loro le confezioni. Dovendo stare tutto il giorno in casa era un bel diversivo. Una volta pronto per la pubblicazione però non ci pareva sensato venderlo per trarne profitto, quindi abbiamo devoluto il tutto in beneficenza.

“La cosa secondo me più notevole è come il testo si prestasse bene alla situazione in corso. Alcuni versi in particolare, come la chiusura: “Will we end this up together? Some walk in a hurry, for the warmest of the hugs”. Un purissimo caso, dato che avevo scritto il testo un anno prima e più, ed Alberto lo aveva adattato per cantarlo.”

Edizioni limitate di At The Gate

Edizioni limitate di At The Gate (1 Maggio 2020).

Per quanto riguarda il brano Addio, in collaborazione con Vasco Viviani (proprietario dell’etichetta svizzera EEEE), sembra che venga messo in discussione l’uomo medio, ipocrita e carnefice di sé stesso e delle minoranze. Viene in particolar modo colpita la religione in (quasi) tutte le sue forme, includendo più iconicamente anche coloro “che [mangiano] il corpo del [loro] Dio”. L’autore originario del testo (Salut Ritals) è François Cavanna, scrittore satirico francese, uno dei creatori di Charlie Hebdo. Un cinismo di fondo, e che in realtà vuole essere una sapiente critica sociale. Come nasce la scelta di quel testo, e come si sviluppa il suo suono, minimale e quasi futuristico del pezzo?

Matteo Uggeri: “Eheheh! Più procediamo più mi rendo conto che l’intervista fa emergere in modo crudo e buffo come il caso (o il fato, o la mano di Dio) hanno guidato le nostre scelte e di chi ha lavorato al disco. Vasco cantava quel testo credo 15 anni fa col suo gruppo, i Nufenen. Li vidi all’Arci Blob di Arcore e quel pezzo mi rimase molto impresso, al punto che proposi agli altri SiG di farne una cover. Ma poi scoprii, conoscendo in seguito Vasco, che lui non ne era l’autore, ma aveva trovato per terra un foglio con quelle parole (ce l’ha ancora). Pensavamo fossero di chissà chi… quindi lui poi ha registrato il tutto (molti anni dopo il concerto di cui sopra) su una nostra base, senza musica, che è stata aggiunta dopo. Ma prima di andare in stampa il dubbio mi è venuto: sarà mica un testo famoso? Ho cercato in rete inserendo i primi versi, ed ho scoperto la cosa di Cavanna.

“Ti confesso che non sono né un fan di Charlie Hebdo, né di Cavanna, né ho un’opinione precisa sui fatti tremendi che sono ormai legati a quella rivista. E confesso anche che non ho per nulla in odio le varie religioni che sono sbeffeggiate dal testo, di cui però colgo l’immensa potenza ribelle e di cui apprezzo l’invettiva contro le chiusure, i limiti imposti da credi, convinzioni o apologie di qualsiasi genere. Parlo solo per me: sono agnostico, non ateo. Tra gli altri del gruppo c’è chi è cattolico, chi ateo… Forse il nostro ti parrà un approccio superficiale, ma sono felice che tu mi abbia posto la domanda. Sei il primo a farlo. La cosa che trovo un po’ triste e sorprendente è proprio che un testo così oggi non smuova nessuno, non crei polemica, non sollevi opinioni discordi. Nel gruppo lo ha fatto, ed è stato interessante dibattere tra noi.

“Ti confesso (e tre!) che lo abbiamo anche in parte epurato di alcune parti che erano per noi troppo estreme… del resto l’originale stesso circola in più versioni. Circola poco a dirla tutta! Ah: poi ci piace che i “Ritals” di cui parla il titolo (solo il titolo, apparentemente) sono i figli di migranti italiani in Francia (come lo stesso Cavanna), che venivano derisi dai cugini d’oltralpe perché non pronunciavano bene la “r”. “Ritals” è quindi una storpiatura di “Italiens” con tale “r” davanti. Si torna al tema del razzismo e dei confini da abbattere, a badilate, questa volta con noi italiani come ‘vittime’, se così si può dire.

“Infine, musicalmente è uno dei brani per me più riusciti di tutta la nostra carriera, voce di Vasco compresa. Lui con la label che precedeva EEEE, ossia Old Bycicle, ci ha sostenuti per anni. Se non fosse stato per lui forse avremmo mollato. Lo adoriamo. Come un Dio.”

Vasco Viviani: “La scelta del pezzo si collega all’esperienza che ho avuto con i Nufenen, gruppo sepolcral dance nel quale ho militato per qualche anno prima del 2010. Il pezzo (che ho scoperto essere di Cavanna proprio grazie a Matteo Uggeri) è stato estrapolato da FUC(K)SIA, un libro di Giacomo Spazio ed fs52 (anch’esso membro primigenico dei Nufenen e mio sodale, insieme a mio fratello Luca, dell’allora Pulver & Asche, la nostra prima etichetta fondata in quegli anni) del 2005. Trovo fosse e sia ancora una splendida invettiva che fotografa quanto di peggio riusciamo a fare come razza umana da millenni, aggrappandoci alle più bieche credenze e tradizioni, dimostrandoci incapaci di superarle anche in quest’era, da bestie quali siamo.

“La registrazione è risultata molto più elegante rispetto alla nostra prima versione, con un aura stile cocktail-Suicide (Cosmopolitan meets Rev and Vega) corroborata dal lavoro in studio di Attila Folklor che ha curato le registrazioni vocali, agganciandole al tappeto sonoro degli Sparkle in Grey. Recitandola sento di aver collegato ancora una volta diversi punti della mia esperienza, e farlo in un disco così aggregante d’insieme come Two Sing Too Swing mi sembra abbia il suo bel senso.”

Il precedente album a nome The Last Five Minutes, ossia solo Alberto Carozzi e Matteo Uggeri, si muove anch’esso su uno sfondo caleidoscopico, ma più in senso esotico. Il suono elettronico dà un tocco di austerità e cosmopolita psichedelìa, soprattutto attraverso l’utilizzo, da parte tua, di sample di campane tibetane, oltreché l’uso del ghungroo (uno strumento della tradizione indiana e nepalese, formato da piccole campane; è usato nella danza e si indossa come una cavigliera). Venature leggermente dub ma libertarie, che si esprime in maniera sospesa, ondivaga e elastica. Dicci come avviene il percorso dell’album, e parlateci delle intenzioni.

Matteo Uggeri: “Quel disco è nato da un’improvvisazione ultraminimalista che Alberto ha fatto in un’occasione live alcuni anni fa, una sessione impro con tanti musicisti, guidata da Nicola Guazzaloca, di cui un altro nostro amato sostenitore (e accanito bestemmiatore, per tornare a temi sacri), Marco Pandin di stella*nera, presente alla impro, si era invaghito. Poi Alberto ha registrato una sorta di lunga suite sulla base di tale impro, me l’ha passata ed io l’ho arrangiata diciamo aggiungendo i ritmi, prima sinteticamente (sono dei loop di percussioni africane quasi tutti), infine sfruttando le mie bimbe (è accaduto prima del lockdown però). Loro avevano 3 e 6 anni, non sapevano suonare nulla, ma volevo che nei brani ci fosse qualche forma di aleatorietà, e mancavano frequenze alte. Allora ho tirato fuori tutti i campanelli di ogni sorta che avevo in casa, compreso il ghungroo, che mi aveva – sempre per caso, o sempre tramite la mano di Dio, regalato Alberto anni prima, poiché era stato in viaggio in India. Poi ho registrato quel che passava loro per la testa. Qui c’è un video, secondo me anche non malvagio, che abbiamo realizzato un anno dopo, sempre nel lockdown del 2020, che è una sorta di live casalingo con me, Alberto e le bimbe che suoniamo alcuni brani del disco: https://www.youtube.com/watch?v=_RyaDDIFBHY

Matteo Uggeri e Alberto Carozzi

Matteo Uggeri (a sinistra) e Alberto Carozzi (a destra).

Per concludere, parlateci se volete dei prossimi progetti, eventuali tour o concerti, e in che direzione andranno i vostri progetti.

Matteo Uggeri: “Partendo dal fondo, posso dirti che come The Last Five Minutes io e Al stiamo sperimentando una dimensione live di improvvisazione che ci piace molto. Abbiamo fatto un concerto al Baafest quest’estate ed è stato epifanico, vorremmo ripeterlo, e lo faremo a Milano alla Scighera a primavera inoltrata.

“Con gli Sparkle in Grey abbiamo in ballo un nuovo disco da circa tre anni, ma rifinire i pezzi e trovarci per provare e registrare non è facile. Abbiamo tenuto un live, anch’esso epifanico, sebbene natalizio come periodo, a dicembre 2021, in un circolo per anziani.

“So che suona tutto piuttosto assurdo, dal modo in cui componiamo i pezzi, a come collaboriamo con altri, ai concerti che facciamo… ma viviamo in un’epoca bizzarra, quindi in un certo senso siamo a nostro agio in questo continuo pasticcio sociale ed emotivo, che interpretiamo con la nostra arte. Oso chiamarla così, sebbene piaccia a pochi, ma per fortuna alcuni sono come te, molto curiosi ed aperti. Ti ringrazio per questo tempo assieme.”

Share This