LA MANCHESTER DELL’84 RIVIVE A BARI CON I WARMHOUSE
di Michele Ruggiero
A un anno dall’uscita di “1984”, ripercorriamo la peculiare storia dell’EP d’esordio del gruppo pugliese.
1984

Cover di “1984” (2020).

Esattamente un anno fa, il 22 Maggio 2020, l’Italia andava riprendendosi da due lunghi mesi di lockdown, si iniziava a pianificare la stagione estiva, timide riaperture facevano sperare ottimisticamente in una ripartenza dei live. I Warmhouse, band indie-rock proveniente da Bari, davano alle stampe il loro EP di debutto, dal nome “1984”, folgorati dal fortuito ritrovamento di un quadernetto di poesie scritte da un certo Patrick, datato, ça va sans dire, 1984.
A un anno di distanza, la situazione è più o meno identica – aspettando le riaperture allora abbiamo intervistato la band barese per ripercorrere quest’anno sbilenco e conoscere meglio la loro musica e i testi del misterioso Patrick R.

Ci sono diversi aspetti del progetto Warmhouse che ci hanno incuriosito, ma andiamo per ordine: ci potete raccontare la vostra storia? Ruota attorno a una tastiera e un quaderno ritrovato…

…nell’involucro della tastiera stessa, una vecchia tastiera Casio anni ’80. Era un periodo in cui eravamo tutti in fissa per i sintetizzatori e il mondo lo-fi e dunque acquistammo quello strumento. Ci ritrovammo tra le mani un vecchio quaderno, zeppo di poesie con annotati a margine luogo e tempo di composizione. Le località erano tutte città della provincia inglese, le date corrispondevano tutte a giorni dello stesso anno: 1984. Venimmo immediatamente catapultati in un’epoca pazzesca, un’era musicale che fa parte del nostro background di preferenze musicali e che avremmo voluto c’entrasse anche con la nostra storia.

Siete mai riusciti a rintracciare Patrick? O avete voluto che rimanesse una figura misteriosa, astratta?

No, mai. Non sappiamo nemmeno se è ancora vivo. Del resto sarebbe impossibile ritrovarlo, del suo cognome non ci rimane che l’iniziale, R. Abbiamo anche dubitato fosse il suo vero nome, è possibile sia uno pseudonimo.

Il vostro EP di esordio, 1984, compie un anno a breve. Com’è andato quest’anno insolito per voi?

È stato un anno molto strano, fatto di parecchie difficoltà, anche organizzare una semplice sessione di prove è stato a lungo impraticabile. E l’assenza dei live, sia sul palco che nella platea, è stato un duro colpo che noi, come tutti gli altri artisti e professionisti del mondo della musica live, abbiamo accusato. Quanto al lavoro in studio è stato necessario per un periodo lavorare in remoto e passarci riff e accordi per via telematica. Questo periodo ci lascia impresso sulla pelle un grande desiderio di tornare a suonare, tornare ad ascoltare musica live.

1984 suggerisce solo in apparenza un’accentuata passione per ciò che è retrò, vintage, anni ’80 – dal titolo, all’iconografia, alla storia con cui è nato… In realtà però le sue sonorità oscure ma energiche vanno oltre la new wave – si rivelano anche vicine (relativamente) ai nostri giorni, all’indie-rock di Interpol, Placebo…: sbagliamo? Quali sono stati i vostri riferimenti?

Il riferimento al principio degli anni ’80, alla transizione tra il decennio precedente e questi è un riferimento corretto. Amiamo quella scena, quell’immaginario che per il tramite di Patrick è entrato nelle atmosfere del disco – e non avremmo potuto impedirlo, visto che ritrovare un documento dell’epoca ci è parsa una coincidenza troppo significativa. Il post-punk, la new-wave nascente sono state forze rivoluzionarie che hanno lasciato orme enormi anche nella musica più recente: dai Placebo, involontariamente citati in Molko Monday (titolo nato da un gioco di assonanze), sino alla musica contemporanea: è dei nostri giorni un ultimo rifiorire del post-punk revival, attraverso band come Idles, Fountaines DC, Viagra Boys, Protomartyr… Del resto l’ultimo album degli Strokes, The New Abnormal, è proprio del 2020 ed è un gran bel disco.

Warmhouse

Warmhouse. Foto di Agostino Nestola.

Il vostro mi sembra un disco molto “suonato”, molto corale – a parte qualche drum machine programmata, come quella che apre l’EP: come registrate e componete i vostri brani?

L’aspetto della coralità, per così dire, è sempre stato molto forte: ciascuno di noi ha sempre dato il suo contributo nella scrittura dei brani, anche uscendo dal campo del proprio ruolo e strumento. Ognuno ha cercato di mantenere un’indole compositiva pura, aperta a tutte le componenti di cui è fatta una canzone e di conseguenza ogni scelta veniva vagliata da tutti e si raggiungeva un accordo solo dopo un intervento collettivo e compartecipato al brano in esame. E infine c’è stata comunque una fase di selezione finale, abbiamo scritto parecchi brani che poi abbiamo di comune accordo rigettato, in primis perché non ci convincevano live.

Che rapporto avete coi testi di Patrick? Vi ci riconoscete o la vostra è un’interpretazione distaccata?

Patrick ci ha fornito la parola fisica, nuda con cui esprimere ciò che avevamo dentro e che avremmo voluto comunicare al mondo. Volevamo che 1984 fosse un’istantanea su una fase della nostra vita e i versi di Patrick ci hanno obbligato a tirar fuori l’inquietudine della nostra giovinezza, le ambizioni pindariche, i fallimenti, l’asfissia domestica, le delusioni e la violenza dell’amore. Se dovessimo scegliere il colore del cielo più in tune col nostro disco sarebbe il materico grigio dei pomeriggi inglesi e a Patrick era riuscito di dipingerlo.

Pensate che il luogo da cui provenite abbia in qualche modo influito sul modo di scrivere e concepire il vostro progetto?

Assolutamente. La nostra musica è vicina anche alla nostra terra, alla musica italiana del passato e alle realtà di qualità di oggi, che nel nostro paese non sono poi così poche. Ci sentiamo felicemente parte di una scena, quella pugliese, che suona senza sosta, spesso al di fuori dei circuiti del grande pubblico, e che meriterebbe più attenzione.

Che avete in mente per il futuro? Sia per i testi che per le composizioni e, soprattutto, per i live che stanno per ripartire.

Stiamo lavorando a dei brani in italiano, proprio per riavvicinarci alla nostra terra di origine e perché crediamo che il nostro genere possa fare un upgrade, divenendo ulteriormente originale, con dei testi in lingue italiana. I live sono la nostra carica, non vediamo l’ora di calcare il palco di un festival e accordare le chitarre. La musica si comunica e si diffonde suonando davanti a un pubblico e noi crediamo fortemente in questo.

Articolo in occasione del primo anniversario dell’uscita di “1984”, che ricorre il 22 Maggio, e della sua pubblicazione su Bandcamp, in corso oggi (il link qui).

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