È uscito oggi (17 Settembre 2021), su CD e in digitale, “The Flood” dei vicentini Onceweresixty, pubblicato dalle etichette venete Beautiful Losers e Uglydog Records, entrambe impegnate da qualche anno nella ricerca di nuovi progetti italiani più vicini all’indie internazionale.
Anima del progetto sono Marco Lorenzoni e Luca Sella, che iniziano a scrivere le canzoni dalle ceneri del loro gruppo precedente, i Mr60, alla band si è unito da metà 2020 Enrico Grando, a chitarra e synth. Con loro scambiamo due chiacchiere su genesi ed evoluzione della loro musica.
Ragazzi, parlateci del processo creativo che ha portato alla realizzazione di The Flood, delle soluzioni adottate nella registrazione delle tracce e del metodo compositivo usato nella stesura dei pezzi.
“Ciao! Direi che il processo di composizione è stato molto naturale. Dopo diversi anni di pausa, in cui ognuno ha portato avanti i suoi progetti, mi sono ritrovato in una saletta con Luca. Abbiamo suonato molti anni insieme con i Mr60, e abbiamo ripreso in mano qualche vecchia canzone riadattandola ad un set in duo. Poi ci abbiamo preso gusto e poco a poco sono iniziate a fluire le nuove canzoni. DI solito partiamo da una bozza chitarra e voce e poi ci lavoriamo assieme. Alcune canzoni invece come The Flood e All I Want sono nate da un riff suonato per gioco, magari a fine prove… In relativamente poco tempo ci siamo ritrovati con una manciata di buone canzoni e abbiamo deciso di registrarle. Registrazione fatta in casa, con i nostri precari mezzi e un Nocino del 1984 come assistente di studio.. La cosa che apprezzo di più in tutto questo è la nostra capacità a quarant’anni suonati di fare musica con la stessa spontaneità (ed incoscienza) di ragazzini di diciassette anni che suonano nel garage.”
I brani dell’album sono tutti caratterizzati da un sound etereo e da una voce dilatata e sognante (All I Want) che disegna linee melodiche che ricordano molto i Flaming Lips di “Hit to Death in the Future Head”. Le sequenze armoniche (Take me Home) invece riportano echi di Velvet Undergound. Tutto il materiale del disco sembra concepito in maniera molto eterogenea nelle sonorità. L’ascolto complessivo disegna paesaggi caleidoscopici di una psichedelia dolce e rasserenante. Che ne pensate?
“Penso che sia stata in buona parte colpa/merito del Nocino di cui ti parlavo. A parte gli scherzi, approcciando queste canzoni abbiamo cercato prima di tutto di definire un “range” di suoni da utilizzare. Live al tempo eravamo un duo chitarra-batteria e in fase compositiva abbiamo eletto un synth a funzione di velo collante da far calare su tutta la struttura dei brani. Questi tre elementi (chitarra, batteria e synth) sono mantenuti per tutti i brani in modo da dare una certa uniformità all’intero disco. Per quanto riguarda invece l’eterogeneità di cui parli, beh, diciamo che in fase compositiva siamo molto istintivi. Ci piace mescolare tutte le diverse influenze musicali che abbiamo assimilato e le lasciamo sfogare, senza un’idea precisa di dove andremo a finire…”
Le sensazioni più immediate, durante l’ascolto, sono quelle del viaggio, sia fisico che metafisico, anche l’artwork del disco ritrae un furgoncino anni 70. Concordate con questa impressione?
“Beh il viaggio è un tema classico per il rock (e ancor di più per la psichedelìa). Il furgone rappresenta un po’ il fulcro della vita del musicista in tour. Chi gira a suonare lo sa bene. Averlo scelto è un po’ un modo per omaggiare tutti quei musicisti che fanno sacrifici inimmaginabili per tenere in piedi la loro passione, per andare a prove, che fanno chilometri per montare il palco suonare, smontarsi il palco e tornare a casa spesso aggratis. Ti posso garantire che non è solo difficile continuare a suonare tra gli impegni di lavoro, di famiglia eccetera. Ci vuole proprio una certa ostinazione.”
Seppur nascoste sotto un tappeto di suoni o sporcate da un gusto low-fi e da una chiara libertà creativa, tutti brani del disco rivelano di fondo una ricerca della forma/canzone. È così?
“Assolutamente d’accordo. La forma canzone è prevalente in tutti gli ascolti [che risalgono da quando ero piccolo]. Quindi partiamo quasi sempre da lì. Il gioco poi è stravolgere queste regole a modo nostro, con armonie forzate, ritornelli monotoni, crescendo che si perdono nel vuoto. E’ tutto terribilmente divertente. Poi il tutto viene vagliato da una sorta di codice stilistico non scritto ma che in qualche modo delinea le nostre scelte finali.”
Tutto il lavoro è pervaso da una ambiente fluttuante e ondivago, come riuscite a riprodurre queste sonorità durante i live?
“Siamo abbastanza scarsi a suonare, quindi risulta tutto un po’ ondivago di sua. Le canzoni sono nate live, e ci piace molto suonarle. Ecco il live è naturalmente più minimale, forse un po’ più raffinato del disco che invece suona molto più ricco e “cafone”. Ma va bene cosi. Personalmente sono convinto che l’arte dovrebbe essere una pratica popolare quotidiana, una valvola di sfogo dai ritmi impostici da una società basata ormai su valori sbagliati come denaro e potere. Il nostro approccio è quello di dire, “ehi, vuoi fare un disco? fallo! lo abbiamo fatto anche noi, è divertente!! non so suonare la chitarra? Chiusene. La suono lo stesso.” Non è niente di nuovo eh, è l’approccio velvettiano poi ripreso da molte band post-punk a fine anni ’70… l’autoproduzione, le etichette indipendenti… siamo fuori tempo massimo, lo so, ma mi piacerebbe che ci fosse ancora l’interesse per l’arte che c’era a quel tempo.”
Il disco è stato concepito e realizzato durante lo scorso Lockdown, non può mancare quindi la domanda di rito su come, da musicisti, avete vissuto quel periodo e come vedete il futuro della musica indipendente in Italia alla luce delle attuali condizioni cui i live sono costretti a sottostare.
“In realtà il disco era quasi ultimato quando è scoccato il lockdown. CI mancavano un paio di tracce da registrare e i mixaggi. Siamo rimasti fermi qualche mese poi abbiamo deciso di proseguire affidando i mixaggi a Mauro Martinuz. Purtroppo con il lockdown non abbiamo potuto partecipare neanche alla fase di mix, e di questo mi è dispiaciuto molto. Ma Mauro (anche lui già con Mr60) ci conosce bene e ha saputo trovare il giusto equilibrio al marasma di registrazioni che gli abbiamo portato. Una cosa curiosa è che anche se The Flood è stata scritta prima della pandemia, come una sorta di monito dell’insignificanza dell’uomo di fronte alla forza della natura, durante il lockdown ci ho trovato molte affinità con quello che stava succedendo… sarà merito di Mr60, si dice che noi scherziamo con la storia dello spirito del motociclista beatnik che vive in una tastiera giocattolo e che ci manda in trance facendoci suonare le sue canzoni.. ma in realtà, quando al mattino riascolto le sessioni di prove questa mi pare la spiegazione più convincente che riesco a dare.”