Dooom Orchestra; libera musica con libera interpretazione
di Giovanni Panetta
Intervista a Francesco Cigana sul collettivo Dooom Orchestra di improvvisazione libera, da lui fondato, e su Maorooro. Free music dalle diverse sfaccettature.
Dooom Orchestra

Dooom Orchestra, foto di Carlo Buffa.

Dooom Orchestra è un collettivo attivo dal 2018, fondato da Francesco Cigana, percussionista immerso nel suo stile di improvvisazione libera, espressionisticamente aleatorio. Successivamente al primo pezzo pubblicato nel lavoro, in collaborazione con Billy Martin, MESHES SCORE #3 per Amulet Records (2019), al termine di una gestazione avvenuta nell’arco dei cinque anni successivi, viene pubblicato Our Sea Lies Within, per Aut Records. Il disco è caratterizzato da elementi diversi nel segno dell’improvvisazione libera, ma creativamente più strutturati, che vanno dal rumore espressionistico, in maniera emotivamente monotòna di Vicia Faba, alla sua controparte ondivagamente omogenea di Ram Setu, passando per la free music più sonoramente caotica di Take the Steroid Z!.

Il collettivo è formato dai seguenti componenti: Francesco Cigana (batteria, percussioni e oggetti), Nina Baietta (voce), Jacopo Giacomoni (sassofono contralto), Francesco Salmaso (sassofono tenore), Agnese Amico (violino), Francesca Baldo (violino), Enrico Milani (violoncello), Sirio Nagro (chitarra elettrica e oggetti), Andrea Zerbetto (piano), Riccardo Matetich (tabla, oggetti e percussioni), Marco Valerio (basso elettrico), e Andrea Davì (batteria).

Abbiamo intervistato Francesco Cigana su Our Sea Lies Within, nonché alcune precedenti uscite a nome di Dooom Orchestra e di qualche altro progetto. Di seguito l’intervista.

Francesco, cominciamo con i Maorooro. In collaborazione con Luca Perciballi alla chitarra elettrica preparata, a nome per l’appunto di Maorooro, pubblichi nel 2023 Empires per Dissipatio, disco più rarefatto ed improvvisato. Sonorità stocastiche segnate da un feeling quanto più empatico descrivono un umore più austero, in cui in certi casi i pattern sonori di intensificano espressionisticamente, in particolar modo per quanto riguarda Apapoteko Larynx e Auld Apparatus. Parlaci di questo percorso segnato da una musica free ma vincolata ad una maggiore introspezione.

“Con Maorooro il nostro obiettivo era semplice: nessuna narrazione, nessuno sviluppo, la musica come una fotografia sonora, lavorare sul timbro, sulla fusione dei nostri suoni, fino ad essere irriconoscibili l’uno dall’altro e creare panorami sonori interessanti e curiosi. Mettendo in campo questi ingredienti il nostro lavoro si facilitava da una parte ma complicava dall’altra: senza forma o sviluppo la parte sonica ha il rischio di essere noiosa, come farla muovere senza che il movimento sia didascalico rispetto ad una narrazione? Non ho una precisa risposta verbale a questa domanda, ma siamo felici del risultato e credo siamo riusciti nel nostro intento, anche se forse con qualche piccola concessione qui è lì. Mi piace pensare che quando si cerca di portare alla luce soltanto il suono, nel suo emergere dal mare del silenzio un po’ dell’interiorità di chi suona viene presa in prestito, per fungere da catalizzatore, e questo è probabilmente quell’ingrediente che dà un alle composizioni un certo aspetto introspettivo.”

Francesco Cigana, foto di Carlo Buffa.

Passando alla Dooom Orchestra, nel 2020 è stata pubblicata nella raccolta MESHES SCORE #3 una vostra interpretazione dell’omonimo visual realizzato da Billy Martin (che appare come cover del disco). La grafica segue pattern netti, chiari ed aleatori, di un simbolismo quasi matematico, che inducono ad una vostra composizione libera da schemi preimposti rispetto al vostro album pubblicato successivamente; come se seguendo uno schema con larghi vincoli si conguagliano meglio le idee creative in dettagli peculiarmente espressivi. Più dettagliatamente qual è stato l’approccio compositivo in questo pezzo?

“È stato molto bello perché si trattava di una open call, in cui sarebbero state selezionate delle versioni da Billy Martin stesso e poi raccolte nel disco MESHES SCORE #3, e abbiamo avuto la fortuna di essere stati selezionati. Dal punto di vista compositivo proprio in virtù della parte grafica che avevamo davanti ci siamo sentiti di interpretarla in modo abbastanza puntuale e analitico, quasi con una lettura millimetrica. Laddove infatti un segno grafico è così, proprio come dici tu, quasi matematico, e conoscendo il lavoro dell’autore, è stato abbastanza immediato rilevare che alcuni simboli avevano un fortissimo richiamo (ad esempio) ad aspetti poliritmici legati proprio a sezioni ritmiche, altri erano più inerenti a strategie espressive (glissandi, crescendi, tremoli etc). All’atto esecutivo la performance è stata condotta da me, chiamando le sezioni una ad una in ordine classico/occidentale cronologico e spaziale (dall’1 al 11 e da sinistra a destra), cercando però di mantenere un suono coerente lungo tutto il brano. Abbiamo concordando in precedenza alcune caratteristiche sonore da rispettare, ma lasciandoci sempre un buon margine di libertà ed interpretazione.”

Our Sea Lies Within, l’album per la Dooom Orchestra, si basa su una polifonia sistemica o biologica per l’istinto che richiama un ambiente naturalistico dall’inaspettata ed esotica fauna e flora. Il disco ha una componente principale di libera improvvisazione, anche se richiama il free jazz lirico ma dall’impostazione vitalmente poliritmica di Archie Shepp e Pharoah Sanders. Raccontaci lo sviluppo dell’album e come avvengono gli elementi citati.

“Il disco è il frutto di anni di lavoro insieme, registrato in pochi intensi giorni di registrazione. Shepp e Sanders sono di sicuro due giganti che sono nelle nostre orecchie, ma più per quel che riguarda un contesto storico che come materiali. Crediamo di essere lontani da matrici jazzistiche e anche free jazz, anche se questo disco rappresenta un fermo immagine di un percorso che prosegue tuttora e che è già in via di cambiamento e sviluppo. Gli elementi di cui parli, quindi una certa impostazione lirica in alcuni casi e un buon uso della poliritmia, sono elementi che ci caratterizzano, oltre alla ricerca timbrica che dà il colore necessario a dipingere la flora e la fauna che citi. Sono materiali che prendono vita specialmente dall’interazione tra di noi, e dalla pratica improvvisativa, che per noi è, appunto, una pratica ed un metodo compositivo, non una categoria estetica (anche da qui la lontananza dal jazz e il free).
Il disco è formato da una selezione di tracce rispetto a tutto il materiale registrato, quindi dopo la fase iniziale di registrazione c’è stata quella di selezione, e poi di mixaggio e mastering ad opera di Mirko Brigo e Daniel Grego. È importantissimo citarli poiché oltre a mettere a disposizione le loro preziose orecchie e conoscenze nella registrazione e nelle fasi successive, assieme ad Enrico Lenarduzzi si sono posti anche come parti attiva nella produzione finanziando la registrazione, regalo enorme che ci ha permesso una libertà creativa (anche in termini di tempo) notevole, contribuendo in misura importante nello sviluppo e nascita del disco.”

Dooom Orchestra

Dooom Orchestra, foto di Tommaso Taurisano.

Con quello che potrebbe essere uno scat che comincia nel mezzo di un’esecuzione di uno standard jazz, che declina in fraseggi vocali dall’impostazione libera e distorta, Amphesibena richiama dal titolo il serpente della mitologia greca ad una testa per estremità, nato dal sangue della Medusa, ovvero in italiano l’Anfesibena. Un pezzo dalla matrice jazzistica con una forte valenza creativa. Parlaci dell’impatto che avete ricevuto dell’eseguire tale pezzo. 

“Subito dopo aver composto questo brano (laddove comporre, ripeto, è termine usato in quanto l’improvvisazione è un metodo compositivo) era chiaro che sarebbe stata una traccia molto “forte” sonicamente. Voce e sassofono, ecco le due teste dell’Anfesibena, conducono e inquadrano anche formalmente il brano e riascoltandolo ci è parso subito un brano che avesse in sé tutte le caratteristiche per fungere da apertura del disco. In questa traccia, così come nel disco, è ben evidente uno dei focus e delle caratteristiche di questo ensemble: suonare in molti non vuol dire suonare tutti. Suonare tutti è una possibilità, resa tale proprio dal numero. Si può cioè, suonare tutti e dodici, ma la difficoltà sta proprio nell’usare la quantità di suoni come elemento compositivo, cosa che invece viene spesso vista come un dato di fatto aprioristico, o nemmeno considerato, con lo stesso, solito e un po’ trito, risultato. Quando invece ci si scopre e ci si lascia sorprendere dai propri compagni, succedono spesso cose molto belle ed interessanti.”

Roc Molek richiama il Roc Mulun, ovvero la vetta del Rocciamelone situata in provincia di Torino, tra la Valle di Susa e la Valle di Viù (“molek” è una probabile radice, un’antica parola delle popolazioni celto-ligure che significa “sacrificio”). L’andamento del pezzo è ondivago in modo irregolare, vi sono elementi di periodicità tenui o di incisiva tensione, oppure libertà stocastica. Un impeto singolare, quindi mi chiedevo come avete orchestrato il tutto, se avete avuto delle indicazioni sintetiche o avete totalmente improvvisato.

“Totalmente improvvisato, nessuna indicazione! Il climax nella parte finale del brano mi ha da subito evocato un’immagine molto forte e precisa: un arrancare stanco ma determinato sulla neve, durante una tempesta, in una sorta di cammino religioso, profetico o visionario. Da qui è partito il processo di ricerca del nome, processo per me importantissimo di scoperta e rivelazione, in cui sono approdato al Rocciamelone, e alla storia del suo santuario e del crociato Bonifacio Rotario d’Asti, che coincide alla perfezione (stupendomi) con l’immagine che avevo percepito. Ma questo è proprio il motivo per cui sono così legato a questo processo, non è la prima volta (e spero non sarà l’ultima) che la musica mi trasmette una visione di cui poi trovo un concreto riscontro. Certo, le parole plasmano la realtà che ci circonda, se crediamo nei demoni i demoni appariranno, eppure per me è un sincero processo bidirezionale: due sentieri da due reami diversi che, ogni tanto, si incontrano.”

Sicilian Magia è caratterizzata da un suono barocco, che richiama un gusto estetico aristocratico, rappresentato dalle sonorità vellutate e dai lineamenti caotici e rotondi. Un pezzo in cui la struttura ha un carattere conservatore, uno stile meno ricorrente nell’album. Come avviene tale austerità di impostazione da colletti bianchi?

“Sicilian Magia è un po’ un’eccezione in questo disco, nel senso che espone un materiale già da noi “digerito”, parte di una fase in cui l’orchestra integrava spesso dei piccoli temi durante i live. Pertanto è in effetti un brano che salta all’orecchio anche per questo motivo, pur comunque rientrando coerentemente nel processo creativo di tutto il disco. Il tema che ingloba è ispirato fortemente alle processioni religiose del Sud Italia, immaginario che infatti è presente anche nel video che lo accompagna. Chiaramente vista l’ispirazione cristiana ha una parte di devota austerità, e anche l’andamento ritmico binario va chiaramente in quella direzione.”

Il pezzo successivo, Lysa Hora – The Lost Art of Rospone Malvagione, fa probabilmente riferimento ad un campo rom a Lysa Hora, una zona periferica a Kiev, in Ucraina, sgomberato con la forza da un gruppo da un gruppo di neonazisti. Il brano appare graffiante, violentemente dissonante, dall’inizio con accordi di una chitarra dall’effetto distorto, per poi confluire in sonorità arcate dalle tonalità blu, esprimendo una narrazione di un evento nefasto e drammatico. Parlaci dell’effettivo significato del brano.

“Ogni nome scelto ha diversi livelli di lettura ed interpretazione, volutamente. (lo stesso vale per Roc Molek, che nella spiegazione precedente non esaurisce del tutto il suo significato). Il parallelismo con un’interpretazione non univoca del suono è facilmente individuabile. Tu hai messo in luce una interpretazione, e di conseguenza la valenza di questa traccia per te va verso quella direzione, aumentando così il tuo rapporto personale con essa. Altrove invece Lysa Hora si dice sia il famigerato Monte Calvo, luogo magico portato in auge da Disney con il film animato Fantasia. Il sabba delle streghe quindi può essere, e quindi è, un’associazione con gli elementi sonori che descrivi. Tutto questo per dire che il brano in sé non ha un significato, perché non è stato composto con questo scopo, ma l’atto del nominare qualcosa ovviamente influisce moltissimo su come può venire recepita una musica. Proprio da questo ragionamento nasce la ben consolidata modalità di chiamare le tracce di musica improvvisata “Improvvisazione 1”, “Improvvisazione 2” etc etc, nel tentativo di neutralizzare, cioè rendere neutro questo processo. A mio avviso è una scelta poco felice, perché non stimola la curiosità dell’ascoltatore su un piano che esiste ed è reale (quello della lettura, del disco fisico o dei metadata in una release digitale), relegando un piano fondamentale dell’atto creativo (il nominare, appunto) ad un mero tratto archivistico (ad un certo punto ci saranno parecchie centinaia di “improvvisazioni 1”). Questo sposta semplicemente l’attenzione e la curiosità dell’ascoltatore, sull’autore stesso: il vero titolo invece di “Improvvisazione 1” dovrà essere “Improvvisazione 1 di X Y”, cadendo nel curioso caso in cui per evitare un’interferenza egoica, cioè caratterizzare e caricare di significato dando un nome da noi arbitrariamente scelto, si finisce per crearne una più pesante, identificando nominalmente il nome della traccia con quello dell’autore, il tutto con la volontà di voler far parlare solo la musica (per poi magari inserire delle note di copertina…). Preferisco la strada più complessa, ovviamente cercando di non far diventare il tutto un’inutile ed iper ermetica caccia al tesoro. Ammetto però che sono un grande sostenitore del fatto che non tutto vada spiegato, o non tutto subito!”

 

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