Opzionalità in musica, oltre mainstream e sperimentazione
di Giovanni Panetta
Analisi sulla opzionalità nella musica e nella cultura che mira a preservare la propria autenticità con un approccio razionale ed emotivo.
Lumaca di Pascal

Lumaca di Pascal. Credit di Giovanni Panetta.

Nell’ottica di comprendere in generale se ciò che è reale abbia un qualche senso, ci si chiede se ha ragione di esistere la distinzione tra suoni colti e popolari. Sappiamo che è normale prassi classificare i suoni, album o artisti secondo etichette attraverso cui possiamo distinguere quelle entità in maniera più pratica senza dare un ascolto, direzionando al meglio il nostro gusto economizzando il tempo. Ma perché quando utilizziamo più generalmente il termine “colto” la cosa genera in noi un sentimento di stima, mentre “popolare” ci trasmette un senso più di vergogna verso l’entità a cui è riferito? In questa prospettiva, sembra che si voglia classificare i suoni in giusti e sbagliati, la quale in fin dei conti risulta essere una normalissima pratica del tutto umana. Perché questo? Secondo Daniel Kahneman in Pensieri Lenti e Veloci l’essere uomo tende a percepire ciò che è inanimato come umano, quindi, l’azione di classificare la musica viene associato un carattere umano, nel senso che quasi ogni nostra azione tende a conferire un’anima umana alle entità del nostro quotidiano. Perlopiù, il fatto che apprezziamo un suono o una track deriva dal fatto che esso è associato ad una certa complessità compositiva, approvata eleganza estetica in un contesto a noi familiare (sebbene in generale non siamo parte di esso), nonché eleganza nel testo (il termine elegante ha un’accezione diversa da contesti differenti presi in esame) e importanza storica, oppure almeno una di queste caratteristiche. Tutti questi aspetti, da cui, qualunque sia il rigore dietro l’apparato teorico generale, fanno ormai parte del substrato istituzionale, nonché la nostra educazione, e trascendere da essi comporterebbe venire meno al senso stesso di quelle opere, ovvero senza quella stessa forma mentis di derivazione platonica, moltissimi di quei suoni, artisti o album non esisterebbero.

Tuttavia ciò non toglie di vedere la musica per quella che realmente è: una serie di perturbazioni elastiche che infonde in noi sentimenti ogni volta diversi per il nostro umore e da persona a persona. Infatti in generale ciò che bisognerebbe preservare è l’individuabilità della musica, che non dipenderà solo da suoni e testo, ma ovviamente anche dal contesto culturale, socio-economico, politico etc…

Inoltre la psicoacustica ha svelato l’idea che la dissonanza armonica, da un punto di vista neurobiologico non può essere percepita da tutti allo stesso modo; proprio perché tale aspetto riguarda la comprensione di intervalli di suoni, in cui se ognuno di questi intervalli è espresso solitamente da un numero razionale o frazione, in generale tale valore sarà indice di una sensazione spiacevole (se almeno numeratore o denominatore è un numero relativamente grande) o gradevole (numeratore e denominatore sono relativamente piccoli) a seconda del genotipo dell’ascoltatore. Tale fenomeno può apparire poco rassicurante, perché siamo abituati alla consueta fallacia narrativa per cui un determinato stile di vita sia il migliore per tutti. Sfugge molto spesso l’obiettivo reale della cultura, che non è necessariamente contemplare interessi alti, ma spesso ciò in cui bisogna credere è un interesse attivo, con cognizione di causa, nell’idea di adoperarsi anche come addetto ai lavori.

Infatti siamo abituati ad un pubblico ampio legato al mainstream e a una piccola porzione interessata all’avanguardia, alla sperimentazione o all’underground. Tale percezione in generale può essere legata ad un bias comportamentale, per cui ci adoperiamo in generale per qualcosa per abitudine e imitando gli altri. Questo però non ci deve far credere che l’interesse in generale sia acritico o passivo; infatti ciò non esclude che sotto tali vincoli di simulazione di un certo pubblico un individuo faccia determinate scelte più personali, nell’ottica però, come detto, di attingere statisticamente all’elemento quanto più contemplato. Sta di fatto che spesso si rifugge da un atteggiamento creativo o pratico su un certo interesse – più che altro a livello critico/giornalistico – proprio perché la cultura, pop o colta, è legata ancora ad una concezione troppo nozionistica e conservatrice. Infatti quello che interessa non è tanto il contenuto di un interesse, ma il fatto che tale emozione sviluppa il senso critico, proprio perché quando proviamo empatia su qualcosa, spontaneamente viene stimolata in noi l’intelligenza creativa e critica.

Infatti, euristicamente possiamo dire che siamo tutti diversi, nonché soprattutto dal punto di vista genetico. Tuttavia dimostrare che abbiamo differenze significative, che non intaccano necessariamente i caratteri somatici, è un campo fin troppo aperto, e tale fatto ci viene suggerito dall’estrema complessità del DNA, per cui, per quanto riportato dallo state of art scientifico, ci riesce difficile associare pattern di geni a caratteri. Siamo comunque abituati a vedere le nostre differenze in maniera verticale, qualitativa, quando spesso non ci rendiamo conto che sono i difetti, nostri e degli altri, ad emozionarci di più. In ogni modo questo ragionamento non vuole né escludere o insabbiare il più recente impoverimento culturale, ma se si punta il dito sulla stessa qualità della musica (per esempio) prodotta dagli artisti più recenti, ho due puntualizzazioni. 1) Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire: molti spazi critici e giornalistici mostrano che tutt’ora si produce cultura di valore*, e che persone fervidamente creative statisticamente esisteranno sempre. 2) Molto spesso se dessimo spazio all’opzionalità nell’arte offriremmo gratuitamente tanta visibilità a sonorità che vengono poco stimate da certe élite, favorendo una fruizione quanto più sincera della cultura. Aggiungo e ripeto che questo discorso non mira necessariamente a demolire retoricamente mainstream o istanze commerciali, ma bisognerebbe avere cognizione che un suono è uguale ad un altro e non ha senso “antropomorfizzarlo”, per cui ci aspetteremo che ciascuna combinazione di suoni verrà apprezzata da una ipotetica persona corrispondente ad educazione e pattern genotipico quanto più specifici.

Quanto scritto riporta la mia idea di opzionalità in musica legata a carattere ed educazione della persona, che attende un confronto. Un’idea ispirata in parte dal discorso dell’opzionalità in Statistica da Nassim Nicholas Taleb nel suo saggio del 2012 Antifragile.

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(*): In questo articolo abbiamo parlato del limite dell’espressività della musica; possiamo dire, effettivamente, che siamo lungi nel raggiungere tale termine, con buona pace dei benpensanti.

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BIBLIOGRAFIA

  • Nassim Nicholas Taleb – Antifragile (Il Saggiatore, 2012) (trad. Daniela Antongiovanni, Marina Beretta, Francesca Cosi e Alessandra Repossi)
  • Daniel Kahneman – Pensieri Lenti e Veloci (Mondadori, 2011) (trad. Laura Serra)
  • Andrea Frova – Armonia Celeste e Dodecafonia (Rizzoli, 2006)

 

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